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 2025  maggio 26 Lunedì calendario

Le paure nascoste dei leader aggressivi

Di Putin, Netanyahu e Trump si dice, di solito, che sono leader volitivi e determinati, risoluti e brutali, mossi da una ferrea volontà e da una salda sicurezza in se stessi. Sanno ciò che vogliono e sono disposti a qualunque cosa pur di raggiungere gli obiettivi che si sono prefissati. Che è la ragione per cui è così difficile interloquire con personaggi del genere attraverso lo strumento del dialogo diplomatico.
Ma forse si può dare un’altra spiegazione del loro atteggiamento palesemente aggressivo e minaccioso, spinto sino al limite estremo della guerra: reale, violenta e distruttiva, nel caso dei primi due; figurata ed evocata come strumento di lotta economica nel caso dell’ultimo. Sono tutti e tre leader impauriti, insicuri, emotivamente instabili dietro un’apparenza di freddezza, piuttosto inclini alla paranoia, privi a ben vedere di una strategia politica chiara che non sia una continua esibizione di forza dietro la quale però sembra nascondersi una manifesta debolezza.
Leader che, oltre quelli personali, esprimono a loro volta timori e ansie collettive.
Le paure che si riflettono in Putin, ad esempio, che egli evidentemente condivide e che stanno alla base dell’aggressione contro l’Ucraina, hanno notoriamente radici psicologiche e geopolitiche. Alcune per la Russia sono ataviche. Quella di non riuscire a essere abbastanza simile a quell’Occidente che segretamente ammira e pubblicamente disprezza. Di essere accerchiata o pressata ai suoi confini da potenze viste solo come ostili. Di essere sospinta, a causa della sua natura geograficamente bifronte, verso il vuoto delle steppe asiatiche perdendo così ogni possibile legame con l’Europa di cui in fondo vorrebbe far parte.
Altre sono paure più recenti. Quella di perdere l’aggancio con la propria tradizione avendo perso nel frattempo quello con la modernità e quella di doversi mantenere ad ogni costo all’altezza di un passato imperiale in realtà perduto per sempre. Putin, a bene vedere, riflette le insicurezze di un Paese che, caduto il comunismo, non ha saputo trasformarsi in altro che in una pseudo-democrazia plutocratica, ricca sì di materie prime, ma incapace di modernizzarsi a misura delle rivoluzioni tecnologico-produttive che hanno investito il mondo negli ultimi tre decenni.
Quella del leader russo è inoltre la paura di un capo che, per quanto potere abbia concentrato nelle sue mani, ne conosce l’origine arbitraria e illegittima, il che lo porta a vivere come una minaccia personale intollerabile qualunque critica o forma di opposizione, da reprimere dunque con durezza. Mussolini, un dittatore con pretese da intellettuale, si concedeva almeno il vezzo di avere Benedetto Croce come suo avversario pubblico. Putin, un dittatore maniaco della segretezza e sempre timoroso anche verso i suoi collaboratori diretti, pretende l’unanimismo intorno a sé ovvero il silenzio coatto dei dissidenti.
Non dissimili le radici dell’aggressività e dell’intransigenza di Netanyahu. Le paure di quest’ultimo sono insieme teologico-politiche e personali. Le prime riflettono la condizione di un Paese che in certe sue componenti, in particolare l’estrema destra messianica, s’è ormai convinto che la sicurezza di Israele comporti la distruzione alla radice, in termini di annientamento fisico e materiale, di ogni possibile fonte di minaccia, reale o percepita che sia. La guerra come regola e condizione normale, non più come eccezione.
Egli riflette quel pezzo di nazione, minoritario ma oggi al potere, che considera Israele la terra esclusiva ed elettiva degli ebrei, entro i cui confini storico-simbolici non è dunque possibile alcuna forma di convivenza con altre componenti etniche e religiose, a partire ovviamente dai Palestinesi. Netanyahu sembra condividere l’ossessione che per non finire travolta e annientata, anche solo per ragioni demografiche, la democrazia israeliana debba riconfigurarsi sempre più in una chiave etnico-tribale, assumere una forma chiusa e settaria, meno laico-pluralistica e più religioso-ortodossa, come tale a prova di contaminazione e senza il rischio di perdere la propria identità.
Ci sono poi, nel caso di Netanyahu, le ansie e preoccupazioni personali. L’ostinazione con cui sta conducendo una guerra che anche molti esponenti militari israeliani, ai massimi livelli, considerano ormai insensata e improduttiva, oltre che fonte di un inesauribile odio anti-ebraico e di un crescente isolamento internazionale del Paese, nasce dalla consapevolezza che terminata questa guerra dovrà rispondere pubblicamente di molte accuse: quella di corruzione, quella di non avere prevenuto in alcun modo gli attacchi del 7 ottobre, quella di aver trasformato un legittimo attacco militare contro Hamas in una strage quotidiana di civili palestinesi spesso innocenti.
Le insicurezze di Trump, infine. La sua fama, prima che politica, è stata notoriamente affaristico-televisiva. Egli è entrato nella cultura pubblica americana attraverso le cronache mondane e grazie a un programma di intrattenimento di straordinario successo in termini di audience. La sua preoccupazione, anche ora che è Presidente degli Stati Uniti per la seconda volta, è evidentemente di non perdere in alcun modo il contatto col pubblico cui deve la sua straordinaria ascesa. Da qui l’esigenza di stare sempre sulla cresta dell’onda e al centro dell’attenzione, di alzare sempre i toni e le aspettative per evitare che i suoi ammiratori e denigratori (in fondo con c’è differenza) scelgano di cambiare metaforicamente canale e di non seguirlo più.
Trump ha inoltre la tipica sindrome dell’outsider di successo: il timore di non essere socialmente accettato e apprezzato dall’élite di cui sulla carta fa parte. E contro la quale egli, da quando è tornato alla Casa Bianca, non a caso ha scatenato ogni possibile forma di vendetta. In nome del popolo sovrano, in realtà per ragioni largamente personali. Vendetta per i rifiuti e le umiliazioni subite in passato e che egli riesce oggi a evitare solo in virtù della posizione che occupa. Il rispetto personale notoriamente non può essere comprato, ma il potere accompagnato dalla minaccia di usarlo a proprio piacimento è sufficiente per guadagnarsi un’apparenza di stima e apprezzamento. Trump, egli lo sa bene, non ha amici in senso politico, ma clienti obbedienti pronti ad abbandonarlo al minimo segnale di disgrazia. E questa consapevolezza lo rende ancora più aggressivo.
Anche nel caso di Trump si può dire che sia il punto di coagulo delle molte paure che circolano in America: quella dei bianchi sempre più marginalizzati dal multietnicismo che è l’essenza di una nazione formatasi proprio attraverso i grandi movimenti migratori; quella di una classe lavoratrice rimasta spiazzata dalle dinamiche di un globalizzazione che proprio negli Stati Uniti ha avuto il suo motore ideologico; quella di una nazione che palesemente consuma più di quanto produca e che dunque si interroga con ansia su come mantenere, e a spese di chi, il proprio dispendioso stile di vita; quella dell’America religiosa e credente che non riesce a contrastare il secolarismo avanzante se non al prezzo di chiudersi in una rigida ortodossia valoriale e di scatenare anacronistiche e dozzinali “guerre culturali”.
Mettiamoci poi la paranoia, tratto storicamente peculiare della cultura popolare americana, da sempre incline al complottismo e alla caccia alle streghe, ma che Trump sta conducendo al parossismo. Un tratto sospettoso che nel suo caso si è drammaticamente rafforzato dopo il tentativo di ucciderlo durante la campagna per le presidenziali. Da allora sembra essere prevalso nel suo temperamento un misto di diffidenza generalizzata verso tutto e tutti e di spirito di vendetta, che è probabilmente è anche all’origine del suo modo di fare ondivago, incoerente, scostante, privo all’apparenza di qualunque senso logico.
Tra grandi leader, tre attori storici in questa fase decisiva, la cui molla non è però la propria sicurezza dinnanzi alla storia, ma al contrario un misto di frustrazione, paura, e titubanza mascherata da spavalderia. Esattamente ciò che, mentre li rende una fonte di problemi per le loro nazioni e per il mondo, rende anche difficili affrontarli con gli strumenti della ragione, del realismo e del buon senso.