25 maggio 2025
Su Sant’Agostino e gli agostiniani
Di Jessica D’Ercole
Quando Leone XIV, affacciato dalla Loggia di San Pietro, s’è detto «agostiniano, figlio di sant’Agostino», mezza piazza non sapeva neanche di che cosa, di chi stesse parlando. Ma ecco qua. Aurelio Agostino da Patricius – nato il 13 novembre del 354 a Tagaste, in Africa (oggi Souk-Ahras, Algeria) – era, per dirla con una battuta del cardinal Zuppi, «un tipo difficile». Suo padre Patrizio era un piccolo proprietario terriero e funzionario romano. Uomo irascibile e infedele, che non lascia grandi insegnamenti religiosi a figlio. Al contrario la mamma Monica è una fervente cristiana. Ma il figlio non ne segue l’esempio. È un bambino ribelle. Detesta la scuola, la lingua greca e il maestro che lo picchia. Però apprezza i classici latini e le storie del poeta Virgilio.
L’adolescenza non migliora la situazione. Il padre lo manda a Madaura, una cittadina lì vicino, e gli fa studiare letteratura ed eloquenza. Ma poi lo richiama perché non ha abbastanza soldi per fargli continuare gli studi. Così a 16 anni, questo ragazzo vivace, arguto ed esuberante, si dà all’ozio e ai piaceri della vita. Adora il teatro e insegue amori voluttuosi. E la madre, disperata, è perennemente in lacrime per la cattiva sorte che temeva potesse colpire questo suo figlio. «In quel periodo che cosa mi dilettava se non l’amare e l’essere amato? Dalla fangosa concupiscenza della mia carne e dall’intima crisi dell’adolescenza esalavano nebbie che oscuravano e offuscavano il mio cuore, tanto da non più distinguere la serenità dell’amicizia dalla libidine tenebrosa... Durante quell’intervallo di riposo, libero da ogni peso di scuola, cominciai a vivere con i genitori, e i rovi delle mie passioni sorpassarono la mia testa, e non v’era mano alcuna che li potesse sradicare. Anzi, un giorno mio padre, vedendomi nel bagno già adolescente e rivestito d’inquieta giovinezza, pieno di gioia, quasi prevedendo futuri nipoti, lo rivelò a mia madre. Ella sussultò. Ben ricordo come segretamente mi ammoniva affinché non commettessi atti impuri, e specialmente non commettessi adulteri. Ma questi mi sembravano consigli da donnicciola e mi vergognavo di metterli in pratica» (Conf. II, 2-3). Una volta, assieme ad altri cattivi ragazzi, andò a rubare delle pere: «Lo feci senza esservi spinto dalla necessità, ma solo per disprezzo della giustizia e per eccesso di cattiveria. Andammo a spogliare l’albero e a portarci via le pere. Ne portammo via un numero notevole, non per farne una scorpacciata, bensì per gettarle ai maiali, dopo averne addentata qualcuna; compivamo un’azione che ci piaceva di più, appunto perché proibita» (Conf. II, 4-6).
Grazie al sostegno economico di un amico del padre, Romiano, prosegue gli studi a Cartagine, dove si innamora di una ragazza africana. Dato che lei è di rango inferiore al suo, può renderla soltanto sua concubina. Così, a 19 anni, diventa padre di Adeodato. Decide di assumersi le sue responsabilità e resta fedele alla madre di suo figlio per 15 anni: «Ancora in quegli anni tenevo con me una donna, non posseduta in nozze, come si dice, legittime, ma scovata nel vagolare della mia passione dissennata; una sola, comunque, e a cui prestavo per di più la fedeltà di un marito. Sperimentai tuttavia di persona, in questa unione, l’enorme divario esistente fra l’assetto di un patto coniugale stabilito in vista della procreazione, e l’intesa di un amore libidinoso, ove pure la prole nasce, ma contro il desiderio dei genitori, sebbene dopo n ata ci si imponga di amarla»” (Conf. IV, 2).
Durante quegli anni legge per caso l’Hortensius, un dialogo di Cicerone oggi perduto. Decide così di studiare filosofia. Si accosta al manicheismo. Rientrato a Tagaste apre una scuola di grammatica e retorica, ma la vita che conduce non lo appaga e si ritrasferisce a Cartagine sperando in un futuro migliore. Ma non lo trova: «In quegli anni insegnavo retorica: vinto cioè dalla mia passione, vendevo chiacchiere atte a vincere le cause in tribunale». Così il giovane e promettente retore va in cerca di qualcos’altro e nel 382 si trasferisce a Roma con la compagna e il figlio, all’insaputa della possessiva madre che intanto lo aveva raggiunto a Cartagine.
L’insoddisfazione tuttavia non si placa. Le domande sul Bene e sul Male restano senza risposta. Persino la fede manichea comincia a traballare. Decide allora di dedicarsi alla carriera e, grazie alla raccomandazione del prefetto di Roma, ottiene la cattedra di Retorica a Milano. Si trasferisce. Ma con sé porta pure quell’inquietudine che non smette di tormentarlo. Per affinare la sua ars oratoria ascolta i sermoni del vescovo Ambrogio: «In quel tempo la sua eloquenza dispensava al popolo la sostanza del tuo frumento, la letizia del tuo olio, e la sobria ebbrezza del tuo vino. A lui ero guidato inconsapevole da te, per essere da lui guidato consapevole a te. Quell’uomo di Dio mi accolse e gradì il mio pellegrinaggio proprio come un vescovo. Io pure presi subito ad amarlo, dapprima però non certo come maestro di verità, poiché non avevo alcuna speranza di trovarla dentro la tua chiesa, bensì come persona che mi mostrava della benevolenza» (Conf. V, 13,23).
Sermone dopo sermone, però, le parole di Ambrogio gli entrano dentro. Si accosta sempre più alla Chiesa cattolica e ne diviene catecumeno. Intanto arriva a Milano la madre Monica, che gli resta accanto soprattutto con le preghiere. La donna che convive con lui da 15 anni torna in Africa: «Quando mi fu strappata dal fianco, quale ostacolo alle nozze, la donna con cui ero solito coricarmi, il mio cuore (…) sanguinò a lungo». Agostino divora testi di filosofia. Si immerge nella Sacra Scrittura. Studia i pensatori greci. Pare che per consolarsi si sia concesso un’amante. È combattuto. Poi, però, un giorno dell’agosto 386, ancora disorientato e confuso, lasciatosi andare a un pianto disperato, gli pare di sentire una voce: «Prendi e leggi!». Afferra le lettere di san Paolo e le apre a caso: «Non nelle crapule e nelle ebbrezze, non negli amplessi e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo né assecondate la carne nelle sue concupiscenze». La lettura di quei brevi versetti lo folgora. Neanche un anno dopo, la notte di Pasqua, tra il 24 e il 25 aprile del 387, si fa battezzare da Ambrogio. Anche suo figlio Adeodato riceve il sacramento.
Vuole tornare in Africa. Parte con la madre alla volta di Roma per imbarcarsi ad Ostia. Qui Monica si ammala e muore: «Signore, non ti chiedo perché me l’hai tolta, ma ti ringrazio perché me l’hai data». La faranno santa. Per tre anni, dal 388 al 391, si ritira nelle proprietà paterne: digiuna, prega, medita, pratica l’astinenza sessuale. Tocca i vertici nell’attitudine all’ascolto e al dialogo. In questo periodo perde il figlio Adeodato, 17 anni.
La notizia della sua mirabile conversione, la fama della sua dottrina e della sua santità si propagano. La sua ars oratoria è impeccabile, le sue parole colpiscono chiunque lo ascolti. Un giorno del 391, mentre si trova a Ippona, il popolo lo acclama: «Preso con la forza, di sorpresa, fui ordinato sacerdote e attraverso quel gradino giunsi all’episcopato». Si trasferisce in questa cittadina portuale sulla costa mediterranea dell’Africa, riesce a conciliare fede e ragione, e scrive. Scrive un complesso di precetti che andranno a comporre La Regola. Tra le indicazioni che si trovano: vivere insieme, in comunità, nella condivisione dei beni, nella povertà volontaria e nella ricerca costante della verità attraverso lo studio, la preghiera e il servizio. La necessità di dedicarsi all’insegnamento, alla predicazione e alle opere sociali rivolte ai bisognosi. Allo scontro tra divino e umano, vangelo e paganesimo, dedica quindici anni di lavoro che trovano una mirabile sintesi nel De civitate Dei. Scrive innumerevoli sermoni, lettere, altre opere dove combatte le eresie del momento. Tra le più note Il libero arbitrio e La Trinità. Revisiona, con spirito critico, tutti i suoi trattati e le sue omelie nelle Ritrattazioni e scrive i tredici libri che raccolgono le sue Confessioni. Muore il 28 agosto del 430, dopo un’agonia di dieci giorni passati a piangere e a pregare in solitudine, mentre i Vandali mettono l’assedio a Ippona.
I vescovi africani riescono a sottrarre il corpo alle profanazioni vandaliche. Portano le spoglie in Sardegna grazie a Liutprando, re dei Longobardi. Poi viene trasferito a Pavia dove tuttora riposa in San Pietro in Ciel d’Oro. Considerato Santo sin da subito, si deve però aspettare il 1244 perché papa Innocenzo IV promuova l’unificazione dei diversi gruppi di eremiti già ispirati alla Regola di Sant’Agostino e il 1256 affinché Alessandro IV istituisca ufficialmente l’Ordine degli Eremitani di Sant’Agostino, fornendogli anche un’organizzazione centralizzata e riconosciuta.
L’Ordine è articolato in province e vicariati distribuiti in tutto il mondo. Gli agostiniani si dedicano all’insegnamento, alla predicazione, alla gestione di parrocchie e santuari e alle opere sociali rivolte a poveri, migranti, emarginati e anziani. Spiega sul Sole Chiara Ricciolini: «Tratto distintivo dell’Ordine è l’equilibrio tra vita comunitaria, studio e missione, che si rispecchia col motto ufficiale: Charitas et Scientia (Carità e Conoscenza). Espressione della visione agostiniana secondo cui la carità è via privilegiata alla verità e lo studio è servizio alla comunità e alla fede. La santità agostiniana è radicata nella dimensione comunitaria, nella conversione interiore e nell’impegno concreto nei confronti del prossimo. Secondo la teologia e la regola agostiniana, non c’è vera santità senza comunità, senza trasformazione interiore e senza carità attiva. La santità, per Agostino, non può essere vissuta da soli: si realizza nel legame con l’altro, nella vita in comune con gli altri e nella costruzione dell’unità. Nella tradizione agostiniana questo si esprime in attività educative, sociali e missionarie». Da qui il motto del nostro papa missionario «In Illo uno unum che sta a dire che «sebbene noi cristiani siamo molti, nell’unico Cristo siamo uno» e quel libro chiuso con sopra un cuore trafitto da una freccia del suo stemma richiama la conversione che Sant’Agostino stesso spiegava con le parole: «Vulnerasti cor meum verbo tuo», ovvero «Hai trafitto il mio cuore con la tua parola».
Famosi agostiniani furono Santa Rita da Cascia, San Nicola da Tolentino, San Tommaso da Villanova.
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