corriere.it, 25 maggio 2025
Perché il Sud Tirolo «non si sente italiano»: il «referendum» del 1939, le bombe e infine la grazia. Tutta la storia
Se l’Italia non ti piace vai in Austria. In questi giorni sono stati migliaia i commenti di questo tenore, molti anche peggio. Chiaramente il gesto di Katharina Zeller di sfilarsi la fascia tricolore ha indignato milioni di italiani. E in tanti hanno reagito di pancia. Ma quel commento, «vai in Austria», riporta alle «Opzioni»: uno dei momenti più bui della storia dell’Alto Adige, una terra in cui l’Italia ha molto da farsi perdonare. Era il 1939 quando in provincia di Bolzano si svolse una sorta di «referendum» il cui ricordo è ancora inciso nella memoria dei sudtirolesi che dovettero scegliere tra l’Italia e la Germania.
Restare significava italianizzarsi, ovvero rinunciare a parlare la propria lingua e cambiare il proprio nome. L’alternativa era lasciare la propria terra, un trauma per un popolo di contadini che era sempre vissuto tra queste montagne. Certo quella era l’Italia fascista e anche il tricolore era diverso, allora in mezzo c’era lo stemma dei Savoia. Ma è lì che i sudtirolesi hanno iniziato a odiare lo Stato italiano. Uno stato che espropriò le terre per costruirci le fabbriche e riempì l’Alto Adige di cimiteri militari in cui vennero trasportate le ossa dei soldati morti al confine della Slovenia e fece erigere il monumento alla Vittoria di Bolzano su cui campeggia la scritta “Siamo venuti ad insegnare la lingua, le leggi e le arti a questo popolo di barbari”.
L’inizio della stagione delle bombe
Nel dopoguerra le cose sono andate meglio ma nemmeno troppo. Tanto che, nel 1957, in migliaia si ritrovarono a Castel Firmiano per denunciare l’italianizzazione forzata. La Südtiroler Volkspartei (il partito di raccolta dei sudtirolesi di madrelingua tedesca e ladina, il più vecchio partito presente in Parlamento) allora era spaccata tra coloro che volevano trattare e chi sosteneva che solo con la forza si sarebbe potuto ottenere il rispetto dell’accordo di Parigi (1946 e 1947) con cui l’Italia si era impegnata a riconoscere i diritti della minoranza austriaca del Sudtirolo. Ma anche i fautori della lotta armata erano divisi: Sepp Kerschbaumer (considerato un eroe della patria, e la cui morte viene commemorata annualmente con una cerimonia solenne) era per azioni dimostrative – come far saltare i monumenti fascisti o la tomba di Ettore Tolomei a Montagna – Jörg Klotz e l’ala più radicale volevano una vera e propria guerriglia sul modello di quella che gli algerini conducevano contro la Francia. Qualche anno dopo, nella notte tra l’11 e il 12 giugno del 1961, il Bas (Befreiungsausschuss Südtirol, letteralmente Comitato per la liberazione del Sudtirolo) organizzò quella che è passata alla storia come la «notte dei fuochi»: decine di tralicci saltarono in aria, era l’inizio della stagione delle bombe.
Al mattino dopo uno stradino trovò uno strano pacco a bordo strada: era una bomba rimasta inesplosa. Appena cercò di smuoverla esplose: Giovanni Postal fu la prima vittima del terrorismo sudtirolese. La reazione dello Stato fu brutale: arresti di massa, interrogatori e torture. Allora valeva tutto per smantellare la rete dei terroristi separatisti. Anche l’omicidio di Stato: ne sa qualcosa la famiglia di Anton Gostner, che perse la vita proprio a causa dei trattamenti speciali del carabinieri. O Franz Höfler, morto in ospedale a Bolzano dopo le percosse subite in caserma. Le torture però fanno «cantare» i prigionieri e in pochi giorni la struttura del Bas viene spazzata: 150 attivisti vengono arrestati, pochi riescono a fuggire oltre confine. Tra loro, Klotz e i «bravi ragazzi della valle Aurina», Puschtra Buibm in dialetto locale. La reazione del Bas non si fece attendere. Nel frattempo entrano in scena i neonazisti austriaci, il cui capo, Norbert Burger, organizza una serie di attentati in tutta Italia. Persino a Roma. Il suo tentativo di estendere la lotta armata però fallisce e Burger viene arrestato in Austria.
I processi, le condanne e le infiltrazioni
Nel 1963 arrivano le prime condanne ai vertici del Bas: al maxiprocesso di Milano ci sono 91 imputati di cui 23 latitanti, Luis Amplatz, considerato il capo, si becca 26 anni. Nel frattempo però spuntano anche i neofascisti italiani che agiscono di concerto con i servizi segreti su input del generale dei carabinieri Giovanni de Lorenzo, che imporrà metodi poco ortodossi fino a mettere sotto assedio un intero paese. Si moltiplicano le provocazioni e le esplosioni. In Alto Adige, nelle stazioni italiane e anche in Austria. È l’inizio della strategia della tensione che segnerà gli anni successivi. Nel 1964 venne ucciso a Selva dei Molini il carabiniere Vittorio Tiralongo con una fucilata. L’omicidio viene attribuito ai Buibm che però hanno sempre negato. È l’inizio della guerra sporca: lo Stato italiano cerca di infiltrare il movimento, assolda provocatori tra cui Christian Kerbler che in una malga della val Passiria ucciderà Amplatz mentre Klotz, soltanto ferito, riuscirà a rifugiarsi in Austria. E da lì prepara la vendetta. Il biennio terribile inizia nel 1965. Il 26 agosto 1965 viene assaltata la caserma di Casies, in Val Pusteria dove muoiono i carabinieri Palmerio Ariu e Luigi De Gennaro. Il 23 maggio del 1966 tocca alla caserma della finanza in val di Vizze, dove una trappola esplosiva uccide il finanziere Bruno Bolognesi.
Nel frattempo si celebra il secondo processo di Milano che si concluderà con la condanna di 51 imputati tra cui i quattro Puschtra Buibm che vengono condannati a 20 anni di carcere ma restano latitanti. E insieme alla banda dei neonazisti di Burger, continuano a colpire. Come il 9 settembre a Malga Sasso dove perdono la vita due doganieri, Martino Cossu e Herbert Volgger e il finanziere Franco Petrucci. Il 25 giugno del 1967 arriva la strage di Cima Vallona: l’alpino Armando Piva salta su una mina, poi toccherà al capitano dei carabinieri Francesco Gentile, al sottotenente Mario Di Lecce e al sergente Olivo Dordi. La strage sarà addebitata al gruppo neonazista di Burger e Peter Kienesberger. Il 30 settembre una valigia trovata sul treno Monaco – Roma esplode alla stazione ferroviaria di Trento: muoiono i due poliziotti che provano ad aprirla, Filippo Foti e Edoardo Martini. In questo caso i sospetti cadono sul terroristi neri, il braccio armato di Gladio che ha iniziato ad operare in Alto Adige su incarico, sembra, del generale de Lorenzo con le sigle Mia (Movimento italiano Alto Adige) e Api (Associazione protezione italiani).
Il pacchetto, la ricchezza e la grazia
La politica però prende in mano la questione con Aldo Moro e il ministro austriaco Kurt Waldheim che iniziano una difficile trattativa che condurrà all’approvazione del «pacchetto», una serie di misure volte a concedere un’ampia autonomia all’Alto Adige. Ma i terroristi, italiani e sudtirolesi, riprendono a colpire sul finire degli anni ’70. Saltano tralicci e alberghi, a volte vengono presi di mira simboli italiani altre volte quelli sudtirolesi. Ma il segretario della Svp Silvius Magnago continua le trattative: la Volkspartei ha scelto la strada della non violenza e nel 1969, dopo una seduta drammatica, il partito approva il «pacchetto». Ma una parte si sfila e continua la lotta armata. Nella seconda metà degli anni Ottanta le bombe di Ein Tirol illuminano le notti di Bolzano, ordigni esplodono davanti alla Rai, sotto casa di Magnago e del leader Dc Remo Ferretti. E anche in via Manci, davanti al liceo Classico, a cento metri da casa di chi scrive. Uno di quei ricordi che restano scolpiti nella memoria. Un fallito attentato alla ferrovia del Brennero metterà fine alla stagione delle bombe: il tritolo ritrovato viene prodotto solo in uno stabilimento del Tirolo. Le indagini conducono a Karl Ausserer che viene arrestato in Austria. È la fine di Ein Tirol e l’inizio della stagione della convivenza.
L’Alto Adige, pacificato, diventa una meta turistica e la ricchezza inizia a circolare. Il benessere e i contributi dello Stato italiano mettono fine alla violenza. Piano piano arriva anche il perdono dello Stato: nel 2022 il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella concede la grazia a Heinrich Oberleiter, uno dei quattro bravi ragazzi che potrà tornare in patria. Si scoprirà poi che era stata la figlia a chiedere la grazia per non violare il giuramento fatto dai Puschtra Buibm di non chiedere mai scusa all’Italia. I familiari delle vittime dei bombaroli sudtirolesi non la prendono bene, anche perché nessuno ha mai chiesto loro scusa e tutt’ora, in Alto Adige, non c’è un momento ufficiale dedicato a coloro che hanno perso la vita sulla strada dell’Autonomia. Se per molti sudtirolesi, specialmente quelli più anziani, il tricolore è sinonimo di persecuzioni quelli più giovani dovrebbero riconoscere che l’Italia è stata in grado di concedere un’Autonomia che spesso e volentieri viene citata come esempio per tutto il mondo.