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 2025  maggio 25 Domenica calendario

Montezemolo: «Mi sono dato all’agricoltura. La morte? Mi fa paura quella improvvisa. L’eredità Agnelli? Non me lo aspettavo»

Non pensavo che Luca Montezemolo avrebbe accettato di parlare con me della morte. Insomma, la sua è una vita ancora a 300 all’ora. Per dire: ci incontriamo che è appena tornato da Londra, ospite della festa di compleanno di Eric Clapton, «ne faceva ottanta tondi, c’erano pure Ringo Starr, Paul McCartney, Keith Richards…». Possibile che con una vita così ricca, per certi aspetti straordinaria, abbia il tempo e la voglia di discuterne la fine?
Invece gli va.
«Ma certo, perché per me la morte è qualcosa di assolutamente
complementare alla vita. Ineluttabile fine di un percorso. Quindi sì che ci penso, anzi, vivo sapendo che prima o poi finirà. Ma proprio per questo cerco anche di mettere quel pensiero in un angolo, e concentrarmi invece su come vivere pienamente gli anni che mi restano».

Ci auguriamo reciprocamente che siano tanti. Ma non le fa paura, la morte?
«Ci sono due modi possibili di uscire di scena. Il primo è quello tradizionale che io chiamo di “fine carriera”, per anzianità, e questo mi lascerebbe il tempo di fare tutte le cose che non ho avuto il tempo di fare o che prima mi erano impossibili, in quella vita a 300 all’ora di cui lei parlava, sempre con la faccia in vetrina. Per esempio: mi sono dato all’agricoltura, che per me è diventata una grande passione. Nell’azienda che possiedo dalle mie parti, alle porte di Bologna, lavoro con l’obiettivo di rendere la mia famiglia totalmente autonoma dal punto di vista alimentare, producendo direttamente tutto il loro fabbisogno (formaggio a parte, quello lo prendo da un’amica che ha le pecore). Penso infatti che la qualità del cibo sia oggi un bene prezioso, e che ancor più lo diventerà. Di questa morte da “fine vita” non ho paura. L’accetto. È ineludibile. Invece mi fa più paura la morte improvvisa».
E qui trasecolo. I vantaggi della morte istantanea, senza sofferenza, senza neanche averne consapevolezza, sono da sempre un luogo comune molto diffuso. A Napoli dicono: «Quant’è bella ‘a morte e’ subito…».
«Vero, magari si soffre meno: almeno teoricamente è meglio un infarto nel sonno che una lunga malattia. Però il vero guaio della morte è soprattutto la sottrazione di vita. E una scomparsa improvvisa di vita te ne ruba di più: la lascia incompiuta, interrompe a metà i tuoi progetti. Io ne ho ancora davvero tanti. Ho cinque figli. L’ultimo ha solo 14 anni, e vorrei vederlo crescere».
La distinzione che fa Montezemolo è sottile, ma conferma una mia convinzione: ciò che temiamo, più della morte, è il morire. Cioè il dover smettere di godere di quell’eccezionale esperienza che è la vita, unica anche quando, come spesso accade, non è pienamente felice.
«Mi turba davvero il mistero di ciò che viene dopo. Penso spesso a mio padre e mia madre: cosa fanno, dove sono? Mi pensano? Mi proteggono? Mi angoscia non saperlo. Non sapere che cosa accadrà a me, un decimo di secondo dopo che la mia vita sarà finita».
Eppure, gli obietto, è cattolico. Ho letto che prega, che si ritira di tanto in tanto nel Santuario della Verna, dove Francesco ricevette le stimmate.
«Sì, è vero. Prego soprattutto per la salute dei miei figli, e faccio anche fioretti per loro. La fede mi aiuta. Ma non mi dà una risposta alla domanda numero uno: che succede dopo?».
Pedantemente insisto: dovrebbe saperlo avendo studiato dai gesuiti, separazione dell’anima dal corpo, Purgatorio (escludo, per come lo conosco, che possa andare direttamente in Paradiso, ma neanche all’Inferno), e lunga attesa fino alla resurrezione del corpo…
«Certo, lo so in linea di principio che cosa dice la Chiesa, al liceo Massimo avevo un insegnante, padre Millefiorini, che me l’ha spiegato per filo e per segno. Ma io voglio sapere concretamente che succede. Che cos’è quel momento. Che cosa vedrò. Che ne sarà della mia coscienza. Continuerà a esistere in un’altra forma? O addirittura in un altro corpo, come dicono i tanti miei amici che – lei non sa quanti – credono nella reincarnazione, o almeno ci sperano. Io credo invece nell’aldilà dei cristiani. Ma non ho alcuna idea di come sarà. Soprattutto non ho capito se in questo Eden ricomincerà una nuova vita».
Immagino che Montezemolo, da manager impenitente, stia già pensando a che cosa fare nell’altro mondo. Non mi pare tipo da starsene con le mani in mano.
«Vorrei sedermi per ore con un “esperto di morte” per capire. Ma ne esistono? Lei che fa tutte queste interviste sul tema, ne ha conosciuto qualcuno?».
Gli suggerisco il nome di un teologo, ma lui replica che un teologo può dirti che cosa accade spiritualmente, mentre a lui interessa più l’aspetto pragmatico. In effetti non ha torto. Il cardinal Ruini, al quale chiedevo perché, se l’anima è immortale, c’è bisogno della resurrezione dei corpi, mi rispose che l’essere umano è un insieme di corpo e anima, e finché l’anima resta da sola si sente come un pinguino all’equatore.
C’è ancora qualcosa per cui valga la pena di dare la vita, nel mondo di oggi?
«Avendo avuto un parente, il fratello di mio nonno, Giuseppe Cordero di Montezemolo, che è stato torturato perché era uno dei capi della Resistenza a Roma e poi ucciso dai nazisti alle Fosse Ardeatine mentre gridava “Viva l’Italia”, sono incline a risponderle di sì. Quando leggo le lettere dei condannati a morte della Resistenza, o dei nostri soldati al fronte, e penso come sono andati incontro alla morte per i propri ideali, per la patria, mi domando quanto potente fosse allora la molla interiore che consentiva loro di non aver paura. E mi scandalizzo per certi atteggiamenti di oggi, così indifferenti a tutto, compresa la difesa della libertà. Il sacrificio di tanti nostri padri nasceva da un attaccamento al proprio Paese che oggi non vedo per niente».
Vuol dire che è giusto morire per la libertà? Oggi molti la prenderebbero per matto…
«Se per libertà intendiamo anche quella dei nostri figli, il loro futuro e il futuro del Paese in cui sono nati, sì, penso sia giusto. E purtroppo non me la sento di escludere che un giorno possa tornare a essere necessario, con quello che vediamo accadere nel mondo. Ricordo il 1956, io avevo nove anni, con mio padre passammo ore con le orecchie attaccate a una di quelle grandi radio a transistor per ascoltare le cronache della tragedia dell’Ungheria. Quanti ragazzi coraggiosi morirono per difendere la libertà del loro paese dall’invasione sovietica. Non è successo molto tempo fa. E ancora: ho davanti agli occhi l’immagine di quel giovane in piedi davanti al carro armato in Piazza Tien An Men a Pechino. Che eroismo. Anche oggi abbiamo esempi simili, i combattenti ucraini muoiono per la loro patria, ma li stiamo dimenticando. Eppure i nostri figli, speriamo di no, in un futuro più o meno prossimo potrebbero trovarsi anche loro nella condizione di dover difendere la libertà, la patria e le loro famiglie. Mai nella mia vita ho avvertito tanto concreto come oggi il rischio di una nuova guerra».
Montezemolo ha avuto due grandi «padri», oltre quello naturale: due persone fuori dal comune come Enzo Ferrari e Gianni Agnelli, con le quali ha collaborato molto da vicino. Che cosa ha provato quando sono morti?
«Dolore, certo. Un regista inglese ha appena finito di girare un film sulla mia vita con molte immagini di repertorio. E in una di queste mi si vede mentre piango ai funerali dell’Avvocato. Provai anche disperazione, perché perdevo un punto fisso della mia vita: anche nei momenti più difficili, finché è vissuto, io sentivo di averlo alle mie spalle. Mi domando spesso se lui e Ferrari ci vedono oggi da dove sono. Rivolgo spesso domande a entrambi, e mi autoconvinco delle loro risposte ingaggiando dialoghi immaginari. Quando vincemmo il Mondiale di Formula Uno del 2000 con Schumacher, ventuno anni dopo l’ultimo titolo, chiesi a Ferrari, che era scomparso dodici anni prima: “Ingegnere, sei orgoglioso della tua squadra, hai visto che abbiamo ricominciato a vincere?”. Sapevo bene che emozione fosse per lui la vittoria. Ricordo la domenica di settembre del 1975 a Monza in cui Regazzoni vinse il Gran Premio d’Italia e Lauda si laureò campione del mondo. Giornata indimenticabile. Telefonai a Ferrari e lo sentii piangere in silenzio per la commozione. Con l’Avvocato, invece, ho avuto un colloquio per così dire postumo quando nel 2004, nel giro di pochi giorni, accettai prima la presidenza di Confindustria e poi, in seguito alla morte di Umberto Agnelli, quella della Fiat. Pensavo che l’Avvocato, scomparso appena quindici mesi prima, sarebbe stato orgoglioso di vedere un discepolo, un quasi figlio, seguire le sue tracce. Ai miei genitori mi rivolgo invece nei momenti di angoscia, di difficoltà. Chiedo loro aiuto».
Lei ha visto spesso la morte sui circuiti di Formula Uno.
«Sì, purtroppo un tempo guidare una monoposto era un mestiere ad altissimo rischio. Oggi, facendo gli scongiuri, per la sicurezza sono stati grandi progressi, soprattutto riducendo drasticamente il pericolo del fuoco grazie ai serbatoi ignifughi. Ayrton Senna cenò da me il mercoledì sera a Bologna, quaranta minuti di auto dall’autodromo di Imola, dove alla domenica ebbe l’incidente fatale. Ho vissuto da vicino la lotta tra la vita e la morte di Niki Lauda, uno dei miei più grandi amici. Accanto al suo letto in ospedale, dopo l’incidente, il dottore mi disse: non morirà per le ustioni, per quanto terribili siano, ma perché ha inalato dei veleni nei polmoni e se solo rallenta il respiro, se si addormenta e si lascia andare, non sopravviverà. Niki ci ascoltò, e non si lasciò andare, ce la fece».
Pensare alla morte vuol dire anche pensare all’eredità. Non solo quella materiale, ma anche quella morale. Lei ha già ragionato sul suo testamento?
«Ci penso, in questi mesi, in queste ore. Sa, io ho 77 anni, e quando ero giovane per me un settantenne era una persona molta anziana. So che oggi è diverso, che la vita si è allungata e che c’è tempo. Ma, comunque, è evidente che sono gli ultimi giri di corsa. Dunque, ho anche più voglia di prima di lasciare un esempio, essere per i miei figli un punto di riferimento nella loro vita futura, così come è stato per me con mio padre. Così sono diventato più esigente con loro. Voglio assicurarmi di aver lasciato un’impronta. Poi ci sono gli aspetti materiali. E qui la mia prima preoccupazione sarà quella di essere giusto, di trattare tutti in modo uguale. Il maggiore non deve avere privilegi, ma piuttosto mettersi al servizio dei fratelli. E sono convinto che così sarà, perché conosco i miei ragazzi e li stimo. D’altra parte, le diatribe tra eredi sono una delle cose peggiori che possano accadere in una famiglia».
Berlusconi è stato bravo, in questo senso…
«Sì, soprattutto a confronto con quello che succede in altre case, anche senza arrivare agli estremi della famiglia Agnelli. Quando accade, vuol dire che qualcosa non ha funzionato nei rapporti con i figli già in vita, o che il capo famiglia non ha lasciato disposizioni scritte in modo chiaro».
Lei ha capito che cosa è successo in casa Agnelli?
«Sapevo che dopo la tragica scomparsa di Edoardo c’erano stati degli accordi tra Margherita e i figli, pensavo che in qualche modo fossero riusciti a combinare i diritti della figlia dell’Avvocato con le ambizioni dei nipoti. Non mi sarei aspettato perciò una situazione così dolorosa e traumatica per tutti. D’altra parte, viviamo in una società completamente diversa dal passato. I miei genitori davano molta più importanza all’educazione che ai soldi, pensavano che fosse quello il patrimonio più importante da lasciare. Oggi tutti i ragazzi danno invece per scontata una vita più facile, e se l’aspettano. Credo che questo sia anche l’esito di una grave crisi del nostro sistema educativo, perché la scuola non è solo insegnamento e istruzione. Un tempo i maestri elementari erano i veri educatori, ora li prendono a pugni i genitori. Vorrei vivere altri trent’anni non foss’altro per questo: per essere sicuro di aver lasciato ai figli dei valori importanti. Innanzitutto, il rifiuto del privilegio, il rispetto per chi è meno fortunato. La cosa più ingiusta in una società è la disparità di condizioni al nastro di partenza della vita. Mia figlia si occupa di una fondazione che aiuta i bambini migranti arrivati in Italia senza genitori, fa un grande lavoro di volontariato. Ne sono orgoglioso».
Torniamo all’eredità materiale.
«Penso che nel fare testamento non si debba agire con la calcolatrice, che equità non vuol dire dividere tutto in parti uguali al centesimo, ma seguire piuttosto le attitudini dei figli, le loro aspirazioni, i loro desideri e piani di vita. Rispettarne la diversità. Il mio figlio più piccolo, per esempio, è appassionato già di agraria, sa tutto di mucche, tori e cavalli; mentre il più grande si occupa di finanza, è serio, appartato, riservato. Una mia figlia studia da fashion manager. Un’altra ha tutte le caratteristiche per diventare un’ottima penalista. Anche se non si può mai dire: anche io volevo fare il penalista e sono finito a occuparmi di automobili».
Montezemolo mi confessa che ha un quadernino su cui da tempo scrive a mano idee e disposizioni per il dopo. Sa che vorrà essere cremato, sa dove far portare le sue ceneri, e sa che ai suoi funerali vorrà una bandiera rossa della Ferrari. E avere intorno tutti i suoi amici, ma solo quelli veri: «Detesto le persone che non hanno amici, ma anche quelle che sono amiche di tutti. Vorrei che venissero a salutarmi tutte le tante persone importanti della mia vita, ma vorrei anche che non venisse qualcuno che mi ha fatto del male».
Dico a Montezemolo che anch’io prendo costantemente appunti sul mio funerale. «Si vede» risponde «che vogliamo lasciare la vita a modo nostro. Che ci piace esser preparati, non travolti dagli eventi. D’altra parte, come possiamo escludere che ci sia un dopo?».
È vero, non si può escludere l’impossibile. Come vorrebbe essere ricordato Luca Montezemolo? Per tutte le gare che ha vinto o per le aziende che ha avviato?
«Tutto ciò che ho realizzato mi inorgoglisce, ma non esaurisce la mia vita. Vorrei essere ricordato innanzitutto come una persona perbene. Un buon padre. Un uomo che ha messo passione ed entusiasmo in tutto ciò che ha fatto, anche quando ha sbagliato. E infine come una persona attaccata al suo Paese».
Un patriota?
«Il termine è forse un po’ eccessivo, ma sì, perché no? Un patriota. Del resto, nelle condizioni in cui è l’Italia, con una persona su quattro che vive in povertà, con il divario di reddito che si allarga di continuo, con i salari reali che vanno indietro invece che in avanti, con il Sud che è una polveriera, con le liste di attesa negli ospedali che vanificano di fatto il carattere pubblico e universalistico della nostra Sanità, di patrioti mi pare che ce ne sia un gran bisogno».