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 2025  maggio 25 Domenica calendario

Intervista a Eddy Merckx

Il più grande ciclista di tutti i tempi – non un’opinione, un fatto: cinque Giri come Coppi, cinque Tour come Anquetil, tre mondiali come Binda, sette Milano-Sanremo una in più di Girardengo, 525 vittorie come nessun altro – vive in una villetta alla periferia Nord di Bruxelles, tra un campanile con il tetto d’ardesia a punta e la sua fabbrica di biciclette. Il prossimo 17 giugno Eddy Merckx compirà ottant’anni.
Eddy non è il suo vero nome.
«Mi chiamo Edouard. Edouard Merckx, detto Eddy».
La chiamavano il Cannibale.
«Se lo inventò una bambina di undici anni, Catherine, figlia di un mio compagno di squadra e poi rivale, Christian Raymond, con cui avevo un ottimo rapporto. Lui telefonò a casa la sera, lei le chiese: “Ma il tuo amico Merckx non ti lascia mai vincere?”. Christian rispose: “Mai. Merckx non ci lascia niente”. “Ma allora è un cannibale!”. E fui cannibale per sempre».
Dicono che le dispiaccia.
«E perché? I soprannomi uno non se li sceglie. E poi era vero: perdere non mi è mai piaciuto».
Franco Balmamion, vincitore di due Giri d’Italia, ha detto al Corriere che lei era molto duro con i compagni. E che, pur di vincere, li metteva alla frusta senza pietà.
«Direi piuttosto il contrario: ero generoso. Altrimenti molti dei miei gregari non sarebbero rimasti in squadra con me per dieci anni. Non credete?».
Liegi-Bastogne-Liegi del 1969. Lei va in fuga con un suo fedelissimo gregario, Victor Van Schil. Arrivate al traguardo con quasi dieci minuti sul terzo, ma lei non lo lascia vincere. Eppure poche settimane prima si era già preso Sanremo, Fiandre e Roubaix.
«Victor era stanchissimo già a trenta chilometri dal traguardo e aveva smesso di darmi i cambi. L’ho aspettato e tirato alla mia ruota, altrimenti mai sarebbe arrivato secondo. Ero di gran lunga il più forte, meritavo di vincere. Il mio regalo a Victor fu appunto di farlo arrivare secondo».
Qual è la sua lingua madre? Fiammingo o francese? In quale lingua sogna?
«Non sogno. Penso in entrambe le lingue, dipende dal momento. Ma la mia seconda patria è l’Italia. Se non avessi corso per due squadre italiane, la Faema e la Molteni, e se non avessi incontrato Adorni, forse non sarei diventato Merckx».
Perché Adorni?
«Al Giro del 1968 mi volle come compagno di stanza. Tra belgi di solito stavamo tra noi, e ci scappava una birretta di troppo. Vittorio mi insegnò a stare attento all’alimentazione, a non toccare l’alcol, al massimo mezzo bicchiere ai pasti».
Le insegnò anche la tattica?
«No. Adorni la tattica la disegnava per sé...».
Hanno scritto che lei da giovane tirava di boxe.
«Ma no. Una delle tante leggende che circolano su di me. Una volta per la festa del quartiere mi ero travestito da pugile, con i guantoni e l’occhio nero. L’anno prima mi ero travestito da pasticcere».
Almeno a football ha giocato?
«A football sì. Attaccante. Quando ho smesso con la bici ho giocato per dieci anni con i dilettanti dell’Anderlecht. Vado ancora allo stadio».
Come mai tifa Anderlecht?
«Anche perché in un bar di Anderlecht, che è un sobborgo di Bruxelles, ho incontrato mia moglie Claudine. Il bar era di mio suocero. Era il primo ad aprire all’alba, per sfamare i macellai che frequentavano il mattatoio lì accanto».
Ma suo suocero non era un ciclista?
«Certo. Prima corridore, poi allenatore della nazionale dilettanti. Ma di ciclismo non si campava. Vinsi il mondiale dilettanti del 1964 a Sallanches, in Savoia, su un circuito tutto salite, anche per conquistare mia moglie» (Merckx sorride).
E in Italia ha una squadra del cuore?
«Sì. Il Toro.
Ero amico di Zilioli, sono stato a tifare Toro al Comunale. E qualche anno dopo ci giocava Enzo Scifo, belga come me».
Qual è il primo ricordo della sua vita?
«Ho quattro anni e cado dalla bicicletta. Mia mamma sta spingendo il passeggino con dentro mia sorella Micheline e mio fratello Michel, che erano gemelli: passa una moto a tutta velocità, io cerco di inseguirla e finisco in un fosso. Mi sono fatto davvero male. Le cadute sono una costante della mia vita».

La prima corsa?
«Non la vinsi. Avevo bisogno di allenarmi, ma i miei volevano mandarmi a scuola. La gara che decise la mia vita fu a Hal, nelle Fiandre, un circuito che passava vicino alla Madonna Nera. Mia madre Jenny mi disse: se oggi vinci, puoi dedicarti al ciclismo. Vinsi. Era il 1962».

Cosa facevano i suoi genitori?
«Mio padre Jules era il penultimo di undici fratelli. Una vita dura, segnata dalla guerra, l’invasione nazista. Lasciò il lavoro di falegname e aprì un negozio di generi alimentari. E io facevo le consegne in bicicletta».
Il giovane Merckx come i ragazzi di Deliveroo.
«La bici era il mio destino. Nessun precedente familiare, è stata una vocazione. C’è chi è vocato a fare il prete. Io ero chiamato a fare il ciclista».
Che rapporto ha con la sofferenza?
«Ottimo direi. In bici ho sofferto per tutta la vita».
E con la paura?
«Se hai paura, è meglio che cambi mestiere. In bici si può morire, è successo a tanti anche vicino a me. Fa male. Ma non ti può fermare».
Qual è stata la caduta peggiore?
«Velodromo di Blois, Francia, novembre 1969. Gara di derny, dietro motore. La moto che precedeva Jiri Daler, il cecoslovacco campione olimpico a Tokyo, sbandò e travolse sia me sia il pilota, Fernand Wambst. Fernand morì sul colpo. Io mi risvegliai in ospedale, con una grave commozione cerebrale e lo spostamento del bacino. Da allora non sono più stato lo stesso. In salita non sono mai più andato forte come prima della caduta di Blois».
Chi era il suo mito da ragazzo?
«Stan Ockers. Campione del mondo a Frascati, le sue vittorie al Tour mi ispirarono tantissimo. Morto in pista allo Sportpaleis di Anversa nel 1956, con il cranio rotto. Mia madre me lo disse al ritorno da scuola. Fu uno choc, per me e per tutto il Belgio. Ai funerali c’era anche re Baldovino».
Lei iniziò da gregario di un altro grande belga, Van Looy.
«Con Rik non ci siamo mai amati. Lui di Anversa, io di Bruxelles. Ero amico di corridori che lui considerava rivali. Ci siamo separati presto».
Nel 1968 lei vinse il primo Giro d’Italia davanti a Gimondi.
«Non credo di essere mai più andato così forte come sulle Tre Cime di Lavaredo, sotto la neve. Bitossi era in fuga, con nove minuti di vantaggio. Lo ripresi, accelerai, diedi quattro minuti a Motta e Zilioli e sei a Gimondi e Dancelli, che era in maglia rosa».
Lei sta citando i miti della nostra infanzia.
«Il ciclismo italiano era fortissimo».
Adesso non più. Perché?
«Perché è uno sport troppo duro per i giovani italiani. Anche se siete sempre un popolo di grandi lavoratori».
Le Tre Cime di Lavaredo sono il suo luogo fatale. Lassù vinse anche il suo quinto e ultimo Giro, nel 1974, con soli dodici secondi su Baronchelli.
«Tista mi aveva staccato sull’ultima salita. I tifosi italiani mi gridavano: “Merckx hai perso! Merckx sei finito!”. Finito?? Io?! Mi alzai sui pedali. Strinsi i denti. Recuperai. Dodici secondi sono pochi. Ma sufficienti».
Al Giro del 1969 è legata una delle pagine più drammatiche della tv italiana: l’intervista che le fece Sergio Zavoli nella camera 11 dell’hotel Excelsior di Albisola. Lei era stato squalificato per doping. Disteso a letto, ripeteva piangendo: «Io non ho preso niente...». Ora lo può dire. Aveva preso qualcosa?
«Assolutamente no. Mi ricordo bene quello che è successo a Savona e piangevo, certo che piangevo. Ero pronto a partire, fecero le controanalisi delle urine prelevate la sera prima, e mi fermarono. Era lo stesso prodotto che avevano trovato a Gimondi l’anno prima, la fencamfamina: lui venne scagionato, però. Non avevo alcun motivo di doparmi. Era una tappa stupida, pianeggiante, il Giro l’avevo quasi vinto. Ero in rosa, e quindi sapevo che sarei stato certamente controllato. Qualcuno mi incastrò. E la maglia rosa andò a Gimondi, anche se lui rifiutò di indossarla».
Qualcuno chi?
«Due giorni prima mi avevano offerto dei soldi per vendere il Giro».
Chi le aveva offerto i soldi?
«Rudy Altig della Salvarani. Lui mi offrì tanti soldi per vendere il Giro. Se avessi accettato, magari non sarei risultato positivo».
Lei non accettò.
«Scherzate? Un Giro non si vende».
Chi avrebbe dovuto vincere quel Giro?
«Gimondi, chi altrimenti?».
Ma Gimondi sapeva di questa offerta?
«Beh, Altig era un suo compagno di squadra... Credo proprio di sì».
Però lei con Gimondi ha sempre avuto un buon rapporto, vero?
«Vero. Con lui, con sua figlia. Ho pianto quando è morto. Sul piano umano andavamo d’accordo. Ma poi in corsa ciascuno difendeva i suoi interessi. Felice Gimondi è stato per me l’avversario della vita. Ed era un grande corridore. Aveva già vinto il Tour e il Giro prima che arrivassi. Rivinse il Giro dopo che mi ritirai».
Quindi quel giorno lei era davvero innocente?
«Il patron della squadra, Vincenzo Giacotto, rifece le analisi a tutti. Se fossi stato positivo mi avrebbe cacciato. Ero negativo».
Il doping nel ciclismo c’è sempre stato.
«Ma noi eravamo la prima generazione sotto controllo, dopo la morte di Simpson sul Ventoux. Squalificato al Giro, fui ammesso al Tour a patto che dopo ogni tappa mi sottoponessi al controllo antidoping».
Eddy Merckx vinse il Tour de France del 1969 con diciotto minuti su Pingeon, ventidue su Poulidor, ventinove su Gimondi.
«Avevo un motivo».
Poulidor arrivava sempre secondo.
«Una volta mi disse sorridendo: “Dovrei ringraziarti, per causa tua sono diventato un mito”. Ma io sapevo che stava scherzando, e avrebbe preferito vincere».
È vero che nel 1970 non voleva tornare al Giro?
«È vero. Avevo paura che mi facessero un altro scherzetto, come l’anno prima. Invece vinsi prima il Giro, poi il Tour».
Soltanto Coppi e Anquetil ci erano riusciti. Il Tour del 1971 fu drammatico. Maglia gialla era Luis Ocaña.
«Cademmo entrambi in discesa sui Pirenei. Io riuscii a proseguire, lui si rialzò, ma arrivò Zoetemelk, lo travolse, e finì in ospedale. Quel giorno fui io a non voler indossare la maglia gialla, per rispetto».
Al Giro del 1972 non fu altrettanto cavalleresco con José Emanuel Fuente, leggendario scalatore spagnolo.
«Fuente era fortissimo in salita, meno nella tattica. Era in rosa e la sera lo sento dire: “Domani mando Merckx fuori tempo massimo”. Torno in hotel e convoco la squadra: “Fuente ha detto proprio così”. Il giorno dopo i miei hanno cominciato ad attaccarlo, di continuo. Fuente non ci capì più nulla, andò in crisi, e rischiò davvero di finire fuori tempo massimo».
Lei vinse tre Mondiali ma ne perse due in volata con due italiani. Gap 1972, Marino Basso.
«Fu il Mondiale della grande fuga di Franco Bitossi. Io tirai il gruppo ma non pensavo di riprenderlo, credevo di sprintare per il secondo posto. Però Bitossi cedette di schianto, e Basso era un grande velocista».
Barcellona 1973, Felice Gimondi.
«È il più grande rimpianto della mia carriera. Quel giorno ero il più forte. Freddy Maertens non fu leale con me. Io ho attaccato, Maertens è venuto a prendermi, anche se vestiva la mia stessa maglia, e Gimondi ne ha approfittato».
Perché Maertens si comportò così?
«Non me l’ha mai spiegato. La mattina dopo la corsa diversi compagni di squadra mi cercarono spiegandomi che Maertens aveva detto loro che avevo venduto il Mondiale a Gimondi. Ma mica si vende un campionato del mondo! Mi fregò proprio Maertens. Io ero in fuga e lui venne a prendermi. Poi anticipò lo sprint, mi fece partire troppo presto, e permise a Gimondi di vincere» (Merckx parla della volata di Barcellona 1973 come se fosse successa ieri. La ferita è ancora aperta).
Ancora peggio andò al Tour del 1975.
«Ero in giallo. Sul Puy de Dome prima una donna mi prende a schiaffi, poi un uomo mi tira un pugno al fegato. Mi manca il fiato, non riesco a respirare. Il tipo viene arrestato, ma io soffro per un’intera settimana. Anche perché cado e mi fratturo la mandibola in due punti. A Parigi arrivo secondo dietro a Thevenet».
Cos’era successo?
«I francesi non erano entusiasti all’idea che vincessi il sesto Tour, battendo il record di Anquetil. E me lo fecero capire a modo loro. Io sbagliai a non ritirarmi».
Perché?
«Troppi antidolorifici. Una sera stavo mangiando un pezzo di pane, avevo davanti mio figlio Axel di tre anni, e ho sentito un dolore lancinante. Mi sono rovinato. La mia carriera di fatto è finita lì, per quello sforzo».

Fu il dolore più grande della sua vita?
«Nulla in confronto alla morte di mio padre»

Lei ha vestito 77 volte la maglia rosa e 111 la maglia gialla, record assoluto. Nessuno come lei conosce l’Italia e la Francia. Qual è più bella?
«L’Italia, senza dubbio. È il posto migliore al mondo per organizzare una corsa ciclistica. In Francia hanno solo le Alpi e i Pirenei. L’Italia è tutta un colle, tutta una salita».
Si astragga dal ciclismo.
«Scelgo ancora l’Italia. Per l’umanità della sua gente».
Jacques Goddet, leggendario patron del Tour, diceva: «Coppi è stato il più grande, Merckx il più forte». Si riconosce?
«Quando ho iniziato a correre il mito di Coppi era ovunque, i paragoni erano inevitabili. Ma sono privi di senso. L’importante è essere il più forte della propria generazione, come lo erano Coppi, Hinault e adesso Pogacar».
Ha conosciuto Bartali?
«Certo. Il toscanaccio. “Ai miei tempi frenavamo in salita!” urlava». (Merckx si produce in una perfetta imitazione della voce roca di Gino Bartali).
Moser o Saronni?
«Moser era più forte. Un combattente».
Pogacar?
«Grandissimo, perché completo. Può vincere sempre e dappertutto».
Pantani?
«Ero un suo tifoso. L’ha rovinato la cocaina, che ad andare in bici non serve a nulla».
Lei ha vinto tutto, tranne le Olimpiadi.
«Ai Giochi di Tokyo 1964 avevo solo diciotto anni. Andai in fuga, mi vennero i crampi, caddi in crisi, arrivai dodicesimo, distrutto. Per vincerle avrei dovuto aspettare Città del Messico 1968; ma il professionismo non avrebbe aspettato me. Ai Giochi hanno fatto meglio mio figlio Axel, bronzo ad Atene 2004, e mio nipote Luca Masso, primogenito di mia figlia Sabrina, oro a Rio 2016. Finalmente un campione olimpico in famiglia. Solo che Luca ha vinto l’oro non in bici ma nell’hockey su prato. Con l’Argentina. Ora sono diventato bisnonno: Indiana ha due anni, le ho già regalato la prima bicicletta».
Axel ha corso e vinto negli anni più difficili del ciclismo, quelli del doping selvaggio e di Armstrong.
«Lo so bene. E credo tutto sommato che Axel se la sia cavata con grande dignità. Ora vive in Canada» (in quel momento Axel entra nel salotto di casa. Alla fine arriverà anche Sabrina).
Lance Armstrong, l’uomo che aveva vinto sette Tour e che è stato cancellato per doping dalla storia del ciclismo.
«Eravamo amici, lo ammiravo, mio figlio era in squadra con lui. L’ho sostenuto dopo l’operazione per il tumore al cervello, ricordo con impressione la cicatrice in testa. Poi è stata una grande delusione, ha sporcato il ciclismo».
Ha paura della morte?
«Mai avuta, non puoi vivere pensando di dover morire. Sono molto credente».
Come immagina l’aldilà?
«Non ne ho idea. Nessuno è mai tornato a raccontarcelo...».

Qual è stata la peggiore sofferenza in bicicletta?
«I dieci minuti dal 40° al 50° del record dell’ora a Città del Messico, in altura. Ero preparato bene, ma il dolore fu atroce, non respiravo, avevo fitte terribili alle gambe. Quei dieci minuti non finivano mai. Però il record ha resistito quindici anni».
Chi è stato per lei Ugo De Rosa?
«Uno degli uomini più importanti della mia vita. Quando ho smesso di correre, Ugo mi ospitò per settimane nella sua officina di Cusano Milanino per insegnarmi a costruire una bici, partendo dalla saldatura dei tubi. Un grande italiano, una persona di umanità straordinaria che mi ha aiutato a ripartire come industriale».
Eddy Merckx con la maschera da saldatore?
«Ne ho saldate decine. Producevo buone biciclette perché nel ciclismo sapevo fare tutto. E quando smetti di essere atleta riparti da zero, anche se sei stato Merckx».

Cosa pensa il più grande ciclista in fuga sul Pordoi o sull’Izoard?
«Ad arrivare al traguardo il prima possibile».