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 2025  maggio 25 Domenica calendario

Intervista a Diego Abatantuono

Icona nazionale, per non dire monumento nazionale, il 20 maggio Diego Abatantuono ha compiuto 70 anni. Mugugna che non è proprio contento di avere tutti questi anni, ma non si sottrae a parlare di sé e della lunga e variegata carriera: iniziata quando a 15 iniziò facendo il tuttofare al Derby Club, mitico cabaret milanese dello zio Gianni Bongiovanni. Il tono è quello di sempre, ironico e un po’ burbero, di quando è da Fabio Fazio. «Unico appuntamento tv che mi concedo». Per il resto ormai, solo cinema. Nei prossimi mesi lo vedremo in La vita va così di Riccardo Milani, finito da pochi giorni, ed Esprimi un desiderio di Volfango De Biasi con Max Angioni. E nella partecipazione a Natale senza Babbo di Stefano Cipani. «In genere non ne faccio ma volevo lavorare con Alessandro Gassmann».
In questi giorni di celebrazioni “a reti unificate”, non si è sentito un po’ padre della patria?
«Al più padre di famiglia. Ai 70 non voglio pensarci. Diciamo che sono diventato grande. E invece che al passato, preferisco pensare al presente. O, meglio ancora, a domani».
Una via, un giardinetto o una statua gliel’hanno dedicata?
«Se c’è, è a mia insaputa. So di una statua di Pavarotti (o forse Rossini) che viene regolarmente scambiato per me, anche se l’iscrizione non lascia dubbi. Ai tempi del Derby, mi regalarono una finta lapide marmorea in polistirolo con dedica “Diego Abatantuono registün”. Per onori così c’è ancora tempo».
Pensa all’augurale “100 di questi anni”?
«Non mi pare una gran libidine, anche immaginando un futuro in cui tutti si sia un sacco longevi. Invecchiare, va bene, ma senza esagerare».
Un desiderio da esprimere soffiando sulle candeline?
«Non ho grandi desideri: le cose più accessibili me le sono già regalate. Anche se... Ecco, una vacanza in un posto di mare dove non essere immediatamente riconosciuto e placcato da qualcuno per un selfie. È incredibile come anche nei posti più remoti arrivi sempre qualcuno gridandomi di “viuuuulenza!”. Oppure una bella vacanza in barca: a vela, ma ipercomoda. L’agilità ormai mi manca un po’: ho scambiato quella fisica per quella mentale».
Si sente più patriarca o capoclan?
«Una terza categoria intermedia non è prevista? Sono un papà e un nonno orgoglioso delle mie persone, mamme, figli, nipoti... Decido, certo, ma in realtà siamo tutti sulla stessa lunghezza d’onda. Anche con la mia ex moglie: alla separazione, invece di farci la guerra, abbiamo coltivato un bel rapporto (è Rita Rabassini, ora compagna di Salvatores, con la cui ex Giulia Begnotti vive da anni: da cui la famigliona unita e intrecciata, ndr)».
A tavola per le feste comandate?
«Sei nonni, tre figli (una femmina e due maschi), il marito di mia figlia, tre nipotini. Questa è la formazione minima. Poi ci vuole niente, a crescere di numero».
Il suo primo ricordo da infante?
«Mia nonna che mi fa il bagno a casa sua e poi mi mette sul tavolo di cucina, avvolto in un grande asciugamano caldo, il profumo del borotalco. Più grandicello, con le suore all’asilo spaventate perché dal naso mi cola sangue: erano le barbabietole rosse che detestavo e che, non riuscendo a mandarle giù, mi uscivano da lì».
Che bimbo era?
«Solo, non avevo fratelli (ma per fortuna c’erano un paio di amichetti al Giambellino). Papà e mamma lavoravano al negozio di calzolaio, il pomeriggio dopo la scuola stavo dai nonni. Dagli 11 ai 14, gli anni più complicati: con la scuola non andavo d’accordo. Ne sarei uscito a 15, quando ho iniziato a lavorare al Derby: avevo trovato il mio posto. Facevo di tutto, avrei dovuto aspettare ancora un bel po’ per salire sul palco».
Il primo successo?
«Con i Repellenti, il gruppo di giovani comici – Faletti, Porcaro, Di Francesco, Thole, e saltuariamente Salvi e Boldi – che si era formato quando mio zio, volendo ringiovanire la proposta artistica, mi fece direttore artistico e incaricò di cercare nuovi talenti. Poiché nessuno voleva salire su palco per aprire o chiudere lo show, ci inventammo l’escamotage di me che li presentavo sparando un po’ di ca**ate mentre loro a turno intervenivano per sabotarmi. Avemmo un successo sproporzionato, ci vollero anche in tv».
Quando iniziò a esibirsi da solo?
«Fu dopo quella stagione: mi dimisi da direttore e scrissi il primo spettacolo per me. Tra i personaggi c’era il Terrunciello: spaccò, era originale ma anche molto facile. Il cinema ci si sarebbe buttato a capofitto, sfruttandolo oltre ogni dire. Ero giovane, avevo poco più di 20 anni: non capii il rischio che correvo, li lasciai fare. E dopo 3 anni e una ventina di film, esauritosi il fenomeno, rischiai di chiudere».
Nel periodo Derby, anche la frequentazione con i Gatti di Vicolo Miracoli. Vero che andò in tournée con loro?
«Sì, ma non perché ero il quinto Gatto. Ancora una volta tecnico delle luci e di tutto un po’. Una scusa in realtà: mi aggregai perché erano un bel gruppo di casinisti, quasi coetanei, provinciali ma con una cultura che io non avevo. Imparai molto girando con loro. Furono il mio liceo».
L’università, con chi?
«Tutta l’esperienza al Derby lo fu. In cima a tutti però metterei Jannacci (e Viola) che mi consigliò e incoraggiò».
Marrakech Express e Mediterraneo, tappe importanti della sua carriera, sono considerati film generazionali.
«Non so bene cosa voglia dire. Certo incarnammo un’idea di trentenne di allora. C’era ironia e profondità. Insieme metterei anche Turné e Puerto Escondido dove oltre allo stesso regista era più o meno lo stesso anche il gruppo degli interpreti: a rotazione Bisio, Bentivoglio, Alberti, Cederna... Eravamo belli e bravi, era il nostro momento magico. Perché film come questi non si vedono più spesso in tv? Potrebbero insegnare qualcosa alle nuove generazioni. È un cinema con un pensiero come oggi non si fa quasi più»
Film amati e invece sottovalutati?
«Per amore, solo per amore di Giovanni Veronesi, bellissimo e delicato. Ebbe un buon successo, ai tempi. Sarebbe da trasmettere a ogni Pasqua e Natale. E invece... sparito. E poi Mari del Sud di Marcello Cesena: passò nell’indifferenza».
Rimpianti?
«Non so se si può parlare di rimpianto per quella che era solo una bella idea che il destino ha impedito. Forse è più il grande dispiacere per qualcuno che non c’è più. Agli Oscar avevo incontrato Massimo Troisi e avevamo iniziato a parlare di fare un film insieme. Era una persona splendida, eravamo diversi (io estroverso e chiacchierone, lui timido e di poche parole) ma assolutamente in sintonia».
A chi o cosa è grato?
«Al destino? Che mi ha fatto essere al posto giusto nel momento giusto. Di mio ho messo la capacità di cavalcarlo, anche quando sembrava avverso. Non arrendermi è stata la mia forza, puntare sull’affetto del pubblico e sulla fama che avevo conquistata. Poi ci sono stati incontri fortunati: con Pupi Avati che mi scelse per Regalo di Natale quando Banfi gli disse di no; con Gabriele Salvatores con cui ho fatto 10 film; con Maurizio Totti che diventò il mio storico manager e socio. Avati a parte, tutti venivano da una storia diversa che, incrociandosi con la mia, sarebbe cambiata radicalmente».
Intende dire che il cinema inizialmente si approfittò di lei? Vuole togliersi qualche sassolino?
«Diciamo che, se ero maturo per il cabaret, il cinema non lo conoscevo: era un mondo nuovo e ho sbagliato. Quanto ai sassolini, facevo fatica a ricordarmeli già ai tempi, figuriamoci oggi. Tenerli a mente è il modo migliore per essere infelice».