il Fatto Quotidiano, 25 maggio 2025
Intervista a Simone Perrotta
Alla fine sembra il protagonista di Sogna ragazzo sogna di Roberto Vecchioni.
Con un paradosso: Simone Perrotta non sognava, non sperava, non cercava il riscatto con un pallone. “Giocavo e basta”.
Eppure anche lui ha subito parole grosse come la notte (“Sono nato in Inghilterra e quando avevo sei anni i miei sono tornati in Calabria: non ne potevano più degli insulti”); ha capito che la ragione non sta sempre col più forte (“ho visto fermarsi giovani con maggiore talento di me”); ha stretto i pugni per non lasciargliela vinta “quando a Roma mi invitavano ad andare via”.
Oggi Simone Perrotta festeggia lo scudetto del Napoli (“la squadra che amavo da bambino”), ha una scuola calcio con altri tre soci, tra i quali Max Tonetto, dove insegna a vivere prima di stare in campo. “Pure ai genitori dei ragazzini, è necessario”. E soprattutto è e resta un campione del mondo con un debole per la crostata.
Allo stadio ci va?
Pochissimo.
In tv vede i match?
Senza particolare trasporto.
Si sogna calciatore?
Per un periodo della mia vita ho sognato di stare nello spogliatoio e arrivavo in ritardo.
Traduzione?
Per un esperto non riuscivo a staccarmi dal calcio; nel sogno cercavo gli scarpini, mentre gli altri compagni erano in campo.
Chi lascia ha nostalgia proprio dello spogliatoio.
A me è mancato il rapporto con i ragazzi, con i magazzinieri, con i fisioterapisti. La quotidianità. Mentre la partita era l’ultimo aspetto legato alla nostalgia. Oggi non è più così.
Cosa?
Per i cellulari.
Anche voi li avevate.
Sì, ma oggi sono entrati nello spogliatoio: la prima necessità è fotografarsi e postare.
Mentre prima?
Si parlava della partita, nascevano gli scherzi, si festeggiava per la vittoria, si discuteva per la sconfitta. Costruivi una comunità, dove i problemi di uno diventavano di tutti.
Esempio.
Al Chievo con Luciano. (brasiliano, in Italia con un documento falso: in teoria era del 1979, in realtà del 1975). Nel riscaldamento invitavamo il più giovane a stare in mezzo. “Vai, tocca a te”, e lui bofonchiava “se, il più giovane, ma quale il più giovane…”
Quindi?
Per le feste tornava a casa e non rientrava come gli altri, ma con i sudamericani è normale un po’ di ritardo. Ma lui era oltre. Quando lo rivedevano, alle nostre domande “stai bene? o “tutto bene?”, rispondeva “lasciate stare”. Alla fine abbiamo scoperto che in Brasile lo prelevavano dalla scaletta dell’aereo, lo portavano in uno stanzino, e gli chiedevano i soldi per non svelare la sua identità.
E ha raccontato tutto.
Non ne poteva più. Un bravo ragazzo. Gli siamo stati vicini.
È nato ad Ashton, in Inghilterra.
Papà era manager di un pub e spesso ha dovuto litigare con gli inglesi perché lo apostrofavano in tutti i modi peggiori, fino a quando decise di tornare in Calabria: i miei figli non possono crescere così.
E in Italia?
Portiere di notte in un albergo a Cosenza, mamma lavoricchiava. Al primo contratto che ho ottenuto le ho chiesto “quanto prendi? Bene, licenziati: i soldi te li do io”.
E suo padre?
Quando ho firmato il primo vero contratto gli mancava poco per la pensione: “Ci penso io”. Una soddisfazione enorme.
Ad Ashton le hanno dedicato una statua.
L’ho scoperto molto dopo e sono partito con papà e mio fratello; (resta in silenzio) ci siamo emozionati, era la prima volta che tornavamo: a fine giornata siamo andati allo stadio, era aperto. Entriamo. E arriva il magazziniere, ci chiede cosa vogliamo, fino a quando il signore che ci accompagna mi presenta: “È Simone Perrotta”. Ho letto lo stupore e la gioia di chi mi stava davanti, con tanto di richiesta di selfie.
Come andava a scuola?
Diplomato al serale, l’avevo promesso a mia madre quando sono andato via di casa a 14 anni.
Giovanissimo.
Nelle prime settimane piangevo al telefono, chiedevo a miei di venirmi a prendere. Ma sono cresciuto in un paesino calabrese di tremila abitanti, dov’era tutto sotto controllo, libero di muovermi e con le classiche chiavi nella porta di casa.
A 14 anni era un fenomeno?
Nel mio contesto ero bravo, ma non ero un talento, non ero Totti o Cassano. Su quel talento ci ho lavorato…
Ci vuole testa.
Bisogna andare oltre le capacità: per diventare calciatore ci vuole la forza di resistere in certe fasi, magari restare nel pensionato quando gli altri vanno in discoteca; saper scegliere chi ascoltare.
Mai una cavolata?
Nelle giovanili ho giocato con tanti ragazzi più bravi di me, e forse si sono illusi che gli bastasse il talento per emergere. Non è così.
Il suo obiettivo?
Non sono cresciuto con l’urgenza di diventare calciatore: mi è piovuto tutto addosso; a 14 anni mi contattarono Reggina e Cosenza. Se avessi accettato il Cosenza sarei rimasto a casa.
E lì?
Mio padre mi lasciò libero: “È la tua vita”. “Un consiglio”. “Non sono in grado”.
Perché Reggio?
Non lo so, ed ero tifoso del Cosenza. Forse andare a 200 km da casa mi dava maggiormente la sensazione del calciatore.
Il poster in camera.
La dividevo con i miei fratelli, quindi niente.
Passioni?
Solo il pallone.
Fenech o Bouchet?
Non le conoscevo.
Jeeg Robot?
Neanche.
Un cartone?
Holly e Benji perché era sul calcio. Ed ero tifoso del Napoli, con le formazioni sul diario.
Ragazze…
Sto con mia moglie da 31 anni, sposati da 25.
Nel mondo del calcio la prendevano in giro?
(Sorride) Specialmente quando la situazione diventava complicata e me ne andavo.
Salutava, sempre.
Mia moglie è la compagna della mia anima; (ride) finita la cena, quando si sparecchiava e si alzavano i toni, salutavo.
Il calciatore è ambito.
Non è complicato da conoscere.
Sua moglie con le altre mogli?
Gli anni alla Roma sono stati fantastici, eravamo una comunità unita, con tanti brasiliani.
Cicinho ha svelato i suoi problemi di alcolismo.
Ai brasiliani piace bere, però Cicinho non l’ho mai visto alticcio in allenamento.
Il gruppo copre?
Certo e devi avere un allenatore intelligente.
Esempio?
Dopo una festa di carnevale, durata fino a notte tarda, arriviamo al campo in condizioni pessime. Ranieri ci vede, capisce, alleggerisce il programma e ci manda via.
È cattolico?
Molto. Andavo a messa ogni domenica alle 7 del mattino.
Balzo indietro: 18.12.1999, Cassano segna un gol magnifico all’Inter. Il passaggio è il suo…
(Sorride) Con Antonio che ripete: “È l’unico buono che hai fatto”. E io: “Pensa se lo sbagliavo”. Quella rete gli ha cambiato la vita e lo ripete spesso, anche perché in precedenza aveva sbagliato due occasioni non complicate; (pausa) è dai momenti difficili che può nascere il meglio.
I suoi momenti difficili.
Il primo anno alla Roma: ogni volta che prendevo la palla, erano fischi; se c’era una contestazione, quando uscivo da Trigoria la mia macchina ballava.
Paura?
No, ma all’inizio del secondo anno, in ritiro, c’erano i tifosi che urlavano “te ne devi anda’”. Raggiungo Spalletti per chiedere di essere ceduto. “Mettiti l’anima in pace, no”.
Chi l’ha consolata?
La famiglia, mio figlio che aveva un anno.
Nello spogliatoio?
Damiano (Tommasi): era successo pure a lui e dividevamo la stanza: “Come fischiano, un giorno ti applaudiranno”.
Tommasi cattolico.
In stanza non parlavamo di calcio, ma di presepe.
Di presepe?
Ci piace, mi dava delle dritte su come realizzarlo.
Altro che poker.
Non sono capace.
Neanche questo?
Solo tressette, scopa, briscola a chiamata. Conosco i giochi da bar di paese.
Tommasi aveva ragione.
In quella fase Spalletti era in crisi, la società gli aveva dato dieci giorni. Arriviamo a Genova, contro la Sampdoria, e mi cambia posizione. Andò benissimo.
Spalletti è permaloso?
Sta allo scherzo, ma dipende da chi lo fa…
Adirato non deve essere facile.
Ci sono stati vari intervalli infuocati.
Risse nello spogliatoio?
Mai assistito a due che si sono picchiati, piuttosto parole grosse e spintoni. Poi ti metti in mezzo e tutto finisce.
Il “tienime o je meno”.
No, “tienime sennò l’ammazzo”, “ma non te sto a tene’”.
Il suo mito.
Maradona.
Il grazie?
Alla mia famiglia e all’allenatore di quando avevo 14 anni, Scopelliti: se sono diventato campione del mondo, è per lui.
Cioè?
A quel tempo piangevo pure in campo. Mi vede, mi ferma e mi domanda “cos’hai?”. “Mi manca casa, gli amici…”. “Ok, vai in doccia”. Poi mi porta al treno. “Torni dai tuoi per il weekend. Se martedì non sei qui ti vengo a prendere a calci nel culo”. Il martedì ero lì.
Com’è essere campione del mondo?
Impegnativo.
Perché?
Diventi un esempio: quello che ho combinato come uomo e calciatore fino al 2006, non valeva più. Veniva rinfacciato.
Tradotto?
Se dopo il Mondiale facevo un fallo in campo, il calciatore avversario mi diceva: “Ma come, sei campione del mondo, non puoi”. “Sono lo stesso dell’anno scorso”. “No, sei campione”.
Perfetto.
Nel mio paese nessuno mi ha mai chiesto una foto, un autografo. Niente. Ero Simone. Dopo il Mondiale mi hanno accolto con la banda. E tutti a chiedermi una foto. “Ma sono io!”.
C’è la chat dei Campioni?
Certo, per gli auguri, i complimenti se qualcuno diventa allenatore. Prendersi per il culo…
Comunque lei è campione del mondo.
Non me ne rendo conto.
Com’è possibile?
Anche quando vado all’Olimpico mi capita di pensare “chissà come deve essere giocare qui”. Poi mi do del cretino: “Lo hai fatto per nove anni”.
Ripetiamo: è in una delle foto più importanti della nostra storia.
E chi se lo immaginava: ero fuori dalla Nazionale da un anno e mezzo. Nel frattempo mio fratello decide di sposarsi: “Simone mi fai da testimone? Però a giugno ci sono i Mondiali!”. “Ma non sarò convocato”. “Non si sa mai, meglio mettere come data l’11 luglio”. E io: “Quindi convocato pure finalista!”.
Lungimirante.
Davanti alla chiesa ho trovato 10 mila persone: sono arrivati dai paesi vicini. Una litigata tremenda con mia moglie.
Che ha combinato?
Alla fine della funzione hanno invaso la chiesa, tutti a chiedermi una foto e io “ma qui non si può!”. Mia moglie sostiene che l’ho abbandonata.
Adrenalina?
Eravamo talmente distrutti che sull’aereo di ritorno tutti chiedevano di tornare a casa, non avevamo le forza di andare da Napolitano e sul pullman scoperto.
Non vi sopportavate più neanche tra di voi?
Dopo 55 giorni insieme.
Il Mondiale di Calciopoli.
In Germania non abbiamo trovato neanche un tifoso ad accoglierci. E io avevo giocato due Europei, so cosa significa…
L’Europeo in Portogallo, quello dello sputo di Totti a Poulsen.
Lo aveva massacrato, e mi dispiace perché in quell’occasione è uscito un Francesco lontano dalla realtà.
Totti era ingombrante…
(Stupito) Cosa? Un punto di riferimento, poi in tutte le occasioni extra-campo lo mandavamo avanti: “Tanto vogliono solo te”. E noi ci davamo di lato.
In campo ha mai avuto paura?
Sempre! Tutti la provano. Magari prima del match mi ripetevo: “Ma non era meglio andare a mangiare al mare?”. Poi in campo spariva.
Ai rigori del Mondiale sarà stato a pezzi.
Passavo dalle lacrime alla risata: dipendeva da chi calciava; (pausa) meno male che mi hanno sostituito, altrimenti prima di un rigore sarei svenuto (squilla il cellulare: è suo figlio, gioca a calcio nella Lodigiani).
Per chi tifa?
È malato per la Roma: mi chiede solo biglietti di Curva, non vuole stare tra i “fighettini” della tribuna; (pausa) quando giocavo non guardava le partite perché, credo, a scuola lo insultavano o esaltavano a seconda del risultato. Quando ho smesso si è sentito libero di tifare.
Lei chi è?
Non lo so, però mi piacerebbe che la gente mi apprezzasse in quanto Simone e non come Perrotta.