Avvenire, 25 maggio 2025
La “carinata”, la pianta che fa sperare in un futuro più verde per l’aviazione
Il Brasile è il settimo produttore mondiale di petrolio ma è anche un Paese capace di estrarre dal cilindro sorprendenti risorse per generare energia pulita. Vale la pena citare il bacino amazzonico, che è la più grande riserva di acqua dolce del pianeta, e l’infinita varietà di piante tropicali messa a disposizione da un territorio immenso e ricco di biodiversità. L’ultima trovata suggerisce un binomio fantascientifico: usare una pianta parente dei friarielli per far volare gli aerei. Spieghiamoci meglio: il cavolo d’Abissinia, detto anche senape abissina (nome scientifico “Brassica carinata”), è della stessa famiglia della colza, dei cavolfiori e dei broccoli, e si può coltivare come sovescio invernale, cioè tra una coltura e l’altra, tanto che in Sudamerica è chiamato «la soia d’inverno» per le sue proprietà oleaginose da sfruttare negli intervalli del raccolto della materia prima più conosciuta, di cui il Brasile è peraltro primo produttore mondiale.
Ora il Paese sudamericano si candida a diventare anche il primo produttore mondiale di “carinata”: secondo Nuseed, l’azienda statunitense che ne detiene la maggiore quantità di germoplasma, la produzione brasiliana esploderà del 900% quest’anno, passando da 10mila a 100mila tonnellate. Da questa pianta praticamente sconosciuta si può estrarre biocombustibile per soddisfare la crescente domanda di Saf – Sustainable Aviation Fuel – e raggiungere l’ambiziosissimo traguardo che il settore aereo mondiale si è posto, cioè di diventare al 100% carbon free entro il 2050.
Insomma, una pianta utilizzata per la rotazione colturale può rivoluzionare il trasporto aereo, ad oggi responsabile di circa il 3% delle emissioni globali di CO2 prodotta dall’attività umana. Un dato che può sembrare piccolo ma che in termini assoluti è significativo, considerando che l’aviazione ha raddoppiato le sue emissioni di anidride carbonica dal 1990 al 2019.
Quando la “carinata” è matura, è in grado di assorbire carbonio e restituire nutrienti al terreno, riducendo le emissioni ad effetto climalterante. In 3 tonnellate/ ettaro di granella raccolta vi è circa un 36,8% di olio: si tratta di un rendimento inferiore a quello della colza e del lino, però con maggiori concentrazioni di acido erucico, il che rende l’olio non commestibile ma appunto molto adatto ad usi industriali oltre che come fertilizzante naturale dei terreni, facilitando l’attività agricola. La “carinata” infatti è particolarmente resiliente e si adatta a condizioni climatiche estreme, come quelle del Brasile che è uno dei Paesi più esposti agli effetti del riscaldamento globale, registrando continuamente ondate di calore, siccità, inondazioni. La sua capacità di migliorare la salute del terreno è inoltre un grande alleato contro l’uso di fertilizzanti chimici e il Brasile ha bisogno pure di questo, dato che è il primo esportatore mondiale di ben 10 commodities agricole (caffè, carne bovina, zucchero, etc) ma che nel 2024 ha registrato il record di pesticidi: il governo ne ha autorizzati 663, nel 2000 erano solo 82. È dunque anche una questione di salute pubblica, dato che i prodotti alimentari sudamericani finiscono in abbondanza sulle nostre tavole e lo faranno ancora di più qualora dovesse concretizzarsi l’accordo di libero scambio Ue-Mercosur. In Brasile gli ettari destinati alla coltivazione di “carinata” saliranno quest’anno a 50 mila, più dei 30 mila dell’Argentina e dei 6.600 dell’Uruguay. In tutta l’Unione europea siamo fermi a 1.351 ettari secondo i dati di Nuseed, e solo la Francia per ora sta sfruttando il potenziale della pianta per produrre biocombustibile SAF: il 100% delle 10 mila tonnellate di “carinata” raccolte l’anno scorso è finito a Parigi, e quest’anno nelle previsioni al massimo si aggiungerà il Belgio. In Italia e in altri Paesi c’è ancora scetticismo, anche perché per sostenere gli obiettivi di transizione energetica servirebbero 35 milioni di ettari di “carinata” in tutto il mondo. Ma attenzione: in Brasile lo spazio c’è.