Avvenire, 25 maggio 2025
Sfruttate, mai padrone, invisibili Le donne senza terra dell’India
Invisibili. Nell’India rurale le donne come Kanchan, Shakuntala e Meena, che dall’alba al tramonto prestano le proprie braccia alla coltivazione dei campi, sono la spina dorsale dell’agricoltura ma per le autorità e la comunità locale non esistono. A loro è infatti negato un diritto fondamentale da cui dipende non solo la loro indipendenza economica ma anche il modo in cui la società le considera: la proprietà della terra che instancabilmente lavorano.
Il buio che avvolge la loro condizione ha origine in un sistema strutturato per privarle della propria autonomia lasciandole vulnerabili allo sfruttamento, al controllo patriarcale e all’abbandono delle istituzioni. Sebbene esistano leggi che ne tutelano i diritti, i pregiudizi culturali, le dinamiche familiari e una diffusa mancanza di consapevolezza delle proprie prerogative le tengono legate a un futuro in cui il duro lavoro non si traduce mai in emancipazione. In un mondo che continua a sminuire il loro ruolo, la lotta per la proprietà della terra diventa una questione di sopravvivenza, dignità e diritto a un futuro che gli appartenga veramente.
Kanchan, una contadina di Ambedkarnagar, nell’Uttar Pradesh rurale, ha lavorato per anni nei campi – li ha arati, seminati e raccolti – tanto da avere le mani consumate. Eppure, quel suono non è suo. La proprietà da 1,5 bighas (circa mezzo ettaro) è intestata al marito Ramnaresh, ora sposato in secondo matrimonio e con altri figli, che l’ha sempre usata come se fosse una valuta di cui disporre a proprio piacimento anche solo per ricordare a Kanchan chi tra i due comandasse. Di certo, non lei. «Io lavoro, sudo, dedico tutta me stessa a questa terra, ma non possiedo nulla», racconta. «Ramnaresh può venderla quando vuole – prosegue –. Mi minaccia ogni giorno, e non posso farci nulla». I proventi del raccolto finiscono nelle mani del marito che lascia alla donna solo la fatica e la promessa vuota di un futuro migliore. La donna non ha mai saputo nulla dei suoi diritti. Nessun funzionario governativo le ha mai spiegato che avrebbe potuto rivendicare il possesso della terra che lavora. Sola, senza alcun sostegno, è rimasta intrappolata in un ciclo vizioso.
Anche la vita di Shakuntala è rimasta a lungo legata ai campi che non ha mai posseduto. Nel suo caso, gli ettari che ha lavorato senza sosta appartengono a suo cognato che ne è diventato il titolare in seguito a una disputa tra parenti. Quel pezzo di terra che è costretta a lavorare senza alcuna prospettiva di diventarne padrona è il suolo di un legame familiare diventato freddo e indifferente come un ricordo dimenticato. «Ho dato il mio sudore, il mio sangue, tutta la mia vita a quel terreno – sottolinea con voce a flebile – e ora è sua. A me cosa resta?», si domanda. Niente. Il sole brucia sopra di lei ma nell’aria domina il gelo della delusione e della consapevolezza che quel posto nel mondo in cui si è a lungo sentita padrona, in fondo, non è mai stato davvero suo.
L’agricoltura in India ha sempre fatto affidamento sul lavoro delle donne: la loro manodopera femminile è impiegata nel 75% delle attività agricole non meccanizzate come la semina, la trebbiatura e la raccolta. Eppure, le braccianti affrontano una marginalizzazione sistemica che ne penalizza l’indipendenza finanziaria e l’equità sociale.
Secondo uno studio della University of Maryland e del National Council of Applied Economic Research solo il 2% della popolazione femminile possiede i terreni agricoli. Il genere crea disparità più accentuate in Stati come Uttar Pradesh e Bihar dove le norme patriarcali e le leggi ereditarie spesso escludono le donne del tutto. In alcune regioni, la proprietà femminile è svantaggiata dalle imposizioni religiose che regolano l’eredità. La lotta di Kanchan e delle altre per la proprietà della terra non è solo una questione di possesso ma di sopravvivenza, dignità e autonomia. Senza il riconoscimento della proprietà che coltivano ogni giorno non possono beneficiare dei programmi di sostegno governativo, come il Kisan Credit Card, e incassare i risarcimenti per le perdite di raccolto, i sussidi agricoli e i servizi di assistenza tecnica. Nonostante il quadro giuridico di riferimento, come il Land Acquisition Act, sia tendenzialmente progressista, aperto al riconoscimento di alcuni diritti delle donne, in particolare di quelle sole, la complessità della sua applicazione lascia molte contadine in un limbo. Senza il “patentino” di agricoltore previsto dal National Rural Employment Guarantee Act, Kanchan, per esempio, non può accedere all’iniziativa Pradhan Mantri Awas Yojana che gli darebbe la possibilità di avere una casa intestata a suo nome. Anche Meena Sharma ha trascorso tutta la vita a coltivare la terra che non sarà mai sua. «È doloroso accettare che i profitti di anni di duro lavoro vengano gestiti dagli uomini – spiega con amarezza – mentre io continuo a faticare come una schiava». La donna teme per il suo futuro: «Cosa ne sarebbe di me – si chiede – se un giorno mio marito decidesse di trasferire la terra alla nuora o ai suoi figli?». «Il nodo della proprietà fondiaria per le donne è importante – aggiunge – perché da questa dipende l’indipendenza economica e il loro ruolo all’interno della famiglia ovvero il riconoscimento del contributo dato al suo sostentamento». Chandrakala, attivista da oltre 20 anni nel Rajasthan per conto dell’associazione Ekal Nari Shakti Sangathan, insiste: «La questione va oltre la gratificazione di vedere il proprio nome scritto sui documenti di proprietà perché riguarda il posto che le donne occupano nella comunità. La proprietà di una piccola parte di campo è essenziale a garantirgli il rispetto di chi le circonda. Solo così il concetto di giustizia alla base del diritto fondiario può essere pienamente realizzato».
Nonostante riforme come quella introdotta dall’emendamento all’Hindu Succession Act a garantire pari diritti ereditari alle figlie, i pregiudizi culturali continuano a ostacolare la proprietà femminile. I programmi governativi per la distribuzione delle terre incolte non riescono a istituzionalizzarla perché i cavilli legali finiscono comunque per favorire l’assegnazione del suolo agli uomini in quanto capifamiglia.
Anu, 53 anni, è una contadina di Mahoba che è riuscita a intestarsi la terra che ha lavorato per anni solo dopo la morte del marito che l’aveva in affitto. La sua battaglia contro il proprietario, che si rifiutava di farla subentrare al coniuge defunto, è ben nota. L’ha vinta. «Questa terra è la mia identità – insiste –, la fonte da cui traggo il rispetto degli altri». Saroj, del sindacato dei contadini del distretto di Banda, sollecita «cambiamenti legali che garantiscano alle donne, soprattutto alle vedove, il diritto immediato alla terra che hanno lavorato». Obiettivo non facile, come spiega Chandrakala, perché osteggiata dal fronte compatto che vede allineati «fratelli, mariti, suoceri e proprietari». La lotta, insiste, «non è solo legale ma sociale, economica e profondamente personale».