Avvenire, 25 maggio 2025
La motosega si abbatte sul simbolo-Esma Rischia l’oblio la memoria della dittatura
«Lavoratori interi in uno Stato in frantumi». Con lettere cubitali, il cartello accoglie chi varca gli austeri cancelli dell’ormai ex Escuela mecánica de la armada (Esma) che si aprono sull’elegante Avenida Libertador di Buenos Aires. «Vent’anni sono niente», cantava Carlos Gardel. In effetti, sebbene da poco più di due decenni non sia più “zona militare”, il complesso di edifici sparso su 17 ettari di giardini continua a incutere una punta di soggezione. La sensazione ora è acuita dallo stato di desolazione che ora si respira all’interno del più emblematico centro clandestino dell’ultima dittatura militare argentina, restituito alla società civile il 24 marzo 2004 dall’allora presidente Néstor Kirchner. Nel tempo, le sedi delle principali organizzazioni per la tutela dei diritti umani si sono trasferite al suo interno. E il sito è diventato il principale luogo della memoria degli orrori di un regime colpevole della scomparsa di 30mila persone.
Cinquemila sono passati per la Esma prima di essere caricati sugli aerei e gettati ancora vivi nel vicino Rio de la Plata. La sagoma di uno dei “cargo della morte” – ritrovato grazie all’indagine della sopravvissuta Miriam Lewin e del fotografo italiano Giancarlo Ceraudo – è piazzata dietro la struttura centrale. È questo caseggiato candido e solenne il cuore della “macchina del terrore”, trasformata in museo il 15 maggio 2015. Il percorso inizia dalla scala laterale che conduce allo scantinato – “Sótano” – dove venivano seviziati i nuovi arrivati, poi portati nella soffitta – “Capucha” – e reclusi, perennemente legati, in cellesudario larghe settanta centimetri. Là c’erano anche due sale parto dove le prigioniere, prima di essere uccise, hanno dato alla luce 500 bimbi: solo uno di loro è tornato alla famiglia, gli altri sono stati sequestrati dai militari. «Per fortuna i pannelli ripercorrono l’intera storia. Facciamo sempre più fatica ad organizzare le visite», racconta una funzionaria che chiede di restare anonima per timore di ripercussioni. «Aspettano solo l’occasione per licenziarci», aggiunge. Delle 12 guide in servizio l’anno scorso ne sono rimaste tre. La punta dell’iceberg della “dieta” imposta da Javier Milei al settore diritti umani: l’entità responsabile è passata da ministero a segreteria a, appena tre giorni fa, sottosegreteria. Il che implica una riduzione del 40 per cento delle risorse e di un ulteriore terzo del personale. Tra mancati rinnovi di contratti, prepensionamenti e incentivi, già la metà dei mille dipendenti iniziali è stata lasciata a casa nel corso del 2024. Da marzo, il museo ha, dunque, dovuto ridurre gli orari e aumentare le chiusure settimanali da una a tre. Il centro culturale Haroldo Conti – scrittore desaparecido durante il regime – è sprangato da gennaio. L’inaugurazione del teatro Raúl Alfonsín è stata rinviata a data da destinarsi. Come la ristrutturazione dell’infermeria, della stamperia e dell’officina, tutte tappe del percorso di dolore dei detenuti. I 170 dipendenti dell’Ente spazio memoria – differente dalla segreteria dei Diritti umani e composta, oltre che dallo Stato, dalle autorità locali e dalle organizzazioni civili –, sono ancora al loro posto.
Ma con lo stipendio quasi dimezzato. E pagato con mesi di ritardo. «Continuiamo a venire a turno per non mollare. Almeno quanti hanno il sufficiente per pagare il biglietto del bus, aumentato esponenzialmente Siamo in resistenza», sottolinea la donna, una dei «lavoratori interi», a cui si riferiva lo striscione all’entrata.
Date le dichiarazioni negazioniste del passato recente, tanti sospettano che i tagli non siano dettati solo da ragioni di budget. «Il governo di ultra-destra ha, in pratica, smantellato la Commissione nazionale per il diritto all’identità, struttura istituzionale incaricata di collaborare alla ricerca dei figli dei desaparecidos», ha denunciato Miguel Santucho dell’associazione Nonne di Plaza de Mayo. Stralciati anche i sussidi per il gruppo mentre i fondi per la Banca dei dati getici sono stati ridotti ai minimi termini. «Altri trecento “nipoti” mancano all’appello – conclude Santucho, detto “Tano”, per la lunga permanenza in Italia –. La mia famiglia è stata fortunata: abbiamo ritrovato mio fratello nel luglio 2023. Ci abbiamo messo 47 anni ma ne è valsa la pena. Sono in gioco vite umane. Per questo non ci lasceremo fermare da Milei».