Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  maggio 25 Domenica calendario

Cara sorella mia racconto l’abisso che ti ha inghiottito

Una dozzina di anni fa, nel corso di un’intervista, Serena Vitale sentì il bisogno di accennare al dramma della sorella. Fu la prima e credo unica volta in cui la nostra più grande slavista provò ad aprire un piccolo varco nella memoria per far passare il senso di un dolore che era cresciuto negli anni senzamai aver provato ad affrontarlo.
Serena mi parlò degli anni durissimi che la sorella Rossana Vitale, più grande di lei di quattro anni, trascorse in vari manicomi d’Italia. Fino a spengersi a Santa Maria della Pietà, il grande ospedale psichiatrico della capitale. Ora – con Cartella clinica, pubblicato in questi giorni da Sellerio – ha trovato la forza per dare una forma compiuta e una conclusione a quella storia. Sono 115 paginette di discesa agli inferi della malattia mentale, ma soprattutto del modo in cui la psichiatria di quegli anni ha formulato diagnosi e trattato i pazienti. Non c’era ancora Franco Basaglia e i manicomi vivevano di quella ottusità levantina – un misto di indolente pigrizia e di violenza a stento repressa – che li rendevano luoghi dell’orrore.
Serena compirà ottant’anni a luglio e forse nel bilancio di una vita ricca di prestigio letterario c’è anche il bisogno di tornare indietro, a quel tragico 1961 quando Rossana Vitale chiuse definitivamente gli occhi.
Che ricordo hai di quel momento preciso?
«Un grande senso di colpa, è come se non mi fossi mai
perdonata quella fine, certo immaginata, ma imprevista nei modi e nei tempi in cui è avvenuta».
In colpa perché?
«Quel giorno implorai la mamma di non andare in ospedale. Era una donna distrutta. Le dissi “prendiamoci qualche ora per noi, tanto troveremo Rossana nelle stesse condizioni”. Si rifiutò. Voleva andare a tutti i costi. Le dissi: “mamma, se vai ti prenderai la solita razione di sputi in faccia e di male parole”. Rossana era peggiorata. Non faceva che maltrattarla e offenderla».
Perché?
«Credo si fosse convinta che lo stato in cui versava dipendesse da nostra madre, le addossava la responsabilità di trovarsi in quelle condizioni. Era una domenica di settembre. Forse il giorno della settimana in cui si ha diritto a una pausa. Riuscii a convincerla».
Cosa accadde?
«La portai al cinema. Non ricordo che cosa vedemmo. Mi pare che l’attrice fosse Susan Hayward. La mamma seduta accanto a me si era addormentata. Non feci niente. La svegliai solo alla fine del film. Tornammo a casa che era già sera. Aprii la porta e vidi mio fratello Bruno venirci incontro. Il volto terreo, la parola incerta. Disse solo: Rossana è morta. L’avevano avvertito dall’ospedale. Restammo storditi. Increduli. Incapaci perfino di piangere».
Si chiudeva un anno terribile. Ma come tutto era cominciato e dove?
«A Brindisi dove sono nata e dove era nata mia sorella.Provenivamo da una famiglia non ricca ma colta. La mamma insegnava alle elementari. Mio padre era un professore di musica. Il solo che in famiglia poteva vantare un’agiatezza era il nonno. Lui interveniva nei momenti di bisogno. Poi c’erano gli zii e le zie».
La classica famiglia meridionale.
«Nonostante tutto compatta, almeno fino al momento in cui si manifestò la malattia».
Fu tutto improvviso?
«Prima che accadesse non c’erano stati indizi significativi. Rossana era sufficientemente solare e bellissima. Certe volte, considerandomi bruttina, pativo la sua bellezza. Gli occhi neri e profondi. Il corpo elegante e slanciato. Somigliava a Audrey Hepburn. Aveva l’eleganza rarefatta di chi aveva scelto la musica come forma di espressione».
Cosa suonava?
«Il pianoforte, in casa troneggiava uno Steinway. La sentivo spesso esercitarsi. Vedevo le mani correre rapidissime e leggere sulla tastiera. La postura perfetta, frutto di anni di disciplina. Frequentava l’ultimo anno del conservatorio e mai avevo perso i suoi saggi di fine anno».
Avevi l’impressione che fosse felice?
«Era tutt’una con la musica. Quindi sì, avevo questa sensazione».
Hai detto che non c’erano stati indizi della malattia. Quando te ne rendesti conto?
«Esaminando la cartella clinica sono riportati alcuni sintomi. Io me ne resi conto nel maggio del 1958».
È una data molto precisa.
«Quel mese Rossana sostenne il saggio di classe alla scuola di pianoforte. Suonò una ballata di Chopin.
Suonò splendidamente, anche a detta del suo insegnante. Qualche giorno dopo festeggiammo i suoi 17 anni».
Ti chiedi se la sera della festa tua sorella perse la ragione. Perché quell’interrogativo?
«La festa di compleanno finì intorno a mezzanotte. La gente andò via. Rossana si avvicinò al piano e improvvisò un concertino di canzoni. Vista l’ora i vicini cominciarono a protestare. Trovavo curioso sentirla suonare musica estranea ai suoi interessi, ai suoi studi rigorosi».
Non mi pare un sintomo grave.
«Non lo era, ma lo interpretai come un segno di rottura delle sue abitudini».
Hai detto che era bella. Ma lei come si considerava?
«Temeva o meglio non le piacevano due cose di sé: pensava, a torto, di avere denti brutti. Ogni volta che le accadeva di ridere, portava la mano davanti alla bocca. E poi gli occhi. Era convinta che fossero storti. In realtà aveva un leggero strabismo – lo strabismo di Venere per capirsi – che le dava un fascino particolare».
Ma lei non lo tollerava.
«Al punto che un giorno mi accorsi che nelle foto in cui era ritratta aveva infilzato gli occhi con degli spilli.
Devo dire che fino a quel momento non avevo fatto caso alla sua turba. Eppure, condividevamo la stessa stanza. La sola cosa che notavo di lei è che si pettinava e si guardava continuamente allo specchio».
Fermiamoci per un attimo su questa immagine.
Perché hai deciso di raccontare questa storia con i dettagli impietosi della cartella clinica?
«Non ho una risposta certa. So soltanto che un giorno entrando in un bar sentii un uomo rivolgersi a una donna chiamandola Cleofe. Lo stesso nome di una signora che era stata nostra vicina di casa. Non so che cosa sia accaduto, ma è come se di colpo fossi ritornata bambina, di nuovo in quella casa, dentro a quel dolore. Le cose spesso accadono per caso».
A quel punto?
«Ho voluto che quel dolore nascosto sotto la pelle uscisse e ragionasse insieme a me sulla strada da prendere. La cosa che non volevo assolutamente fare era dare la sensazione del dolorismo, del compianto funerale, del suggerire a chi legge: eccomi, sono qua è ora compatitemi. Non è nella mia natura».
Perché, com’è la tua natura?
«So essere allegra, divertente. Ripeto non volevo che questo libretto di un centinaio di pagine fosse la tomba in cui seppellire un’altra volta Rossana e con lei me. Non volevo la tragedia pura, il pugno nello stomaco; ma la tragedia ilare, la leggerezza che a volte si accompagna al vento distruttivo».
Hai raccontato non solo Rossana ma anche la tua famiglia. C’è l’episodio di tuo zio che al veglione di Carnevale si traveste da bella hawaiana.
«Mio zio era gay. E tu devi immaginarti cosa significasse in una città del sud alla fine degli anni quaranta essere diverso. Quella sera andò al veglione con il suo fidanzatino, un marinaio americano.
Purtroppo in quei giorni stava morendo un parente e il nonno quando vide lo zio Fulvio conciato in quel modo esplose pronunciando le peggio cose. Poi disse: “Invertito, ecco cosa sei: un invertito. Filippo muore e tu vai a divertirti con il tuo amichetto!”».
Tu assistevi alla scena?
«Ero lì davanti. A un certo punto, nel silenzio dei presenti, giocai con le parole. Non sapevo il significato di “invertito” e dissi: “l’invertito è poco divertito”. Mia madre mi prese per un orecchio e mi trascinò via».
Racconti anche che ti piaceva tuo zio.
«Era fantastico. Suonava benissimo a orecchio dei pezzi americani come laRapsodia in blu di Gershwin.
Fu lui a mettermi nelle mani l’edizione americana del
Giovane Holden e fu il suo fidanzato ad aiutarmi nella lettura».
I libri sono stati importanti nella tua adolescenza?
«Moltissimo. Ho imparato a leggere e a scrivere in età precocissima. Fondamentale fu mia madre che mi insegnò l’arte di togliere le parole. Curiosavo tra i suoi libri. Ce ne erano di letteratura russa; lessi Il pellegrino incantato di Leskov, mi appassionai a Puskin, mi eccitai segretamente con le lettere d’amore di Caterina II a Potemkin. A 13 anni mi si aprì, grazie a Nabokov, il mondo diLolita».
Fu lì che nacque il tuo interesse per quella letteratura?
«Non ne sono sicura. Molto nella mia vita, ripeto, è accaduto per caso. E questo interesse prese forma dopo il mio trasferimento a Roma. Finii il liceo nella capitale e mi iscrissi a matematica. Volevo laurearmi in logica. Il mio primo corso era frequentatissimo e non capivo niente di quello che diceva l’insegnante».
Perciò cambiasti facoltà?
«Per caso incontrai un’amica che seguiva un corso di letteratura russa tenuto da Angelo Maria Ripellino. Mi disse “prova a frequentarlo”. Restai affascinata.
Eravamo in tutto cinque persone attorno a un tavolo.
Teneva un corso sulla poesia di Aleksandr Blok. Decisi in quel momento cosa avrei fatto nella vita».
Cosa esattamente ti convinse?
«La musicalità di quella letteratura e della poesia, e poi l’impareggiabile insegnamento di Ripellino. Arrivava all’istituto di filologia slava sempre un po’ in anticipo.
Preparava le sue lezioni con accuratezza, non l’ho mai sentito divagare. C’era una tale convinzione nelle sue parole da rendere ogni cosa fondamentale. Alla sua straordinaria attitudine filologica univa l’emozione poetica. Ho di lui ricordi bellissimi e la tristezza per il suo essersene andato troppo presto».
Lo vedesti fino alla fine?
«Ho due immagini di lui. Durante l’ultima lezione nel 1978, già malato, ci recitò a memoria, con la voce un po’ incrinata dalla fatica, una poesia di Pasternak che amava e che aveva tradotto. Sentii forte il richiamo autobiografico. Il senso del congedo che quell’uomo ci stava trasmettendo. E poi lo vidi un’ultima volta: era a letto, gli chiesi “come va professore?” Non riuscivo a dargli del tu. Mi rispose in francese: “Serena, je ne veux pas mourir”. Roma quel giorno pianse di pioggia e io con essa».
Perché finisti a Roma?
«I miei genitori si erano separati. Il loro rapporto sicomplicò enormemente dopo la malattia di Rossana. Si incolpavano reciprocamente. La mamma scelse Roma perché un medico ci consigliò il Santa Maria della Pietà».
L’ospedale psichiatrico.
«È stata una delle esperienze più sconvolgenti della mia vita».
Non c’era ancora Basaglia.
«E infatti ho respirato tutto l’orrore di quel posto, della miseria umana che lo abitava. Delle piccole corruzioni che a volte eri costretto a subire».
Ossia?
«Lì si vendevano favori per un pacchetto di sigarette.
C’era un fiorente commercio di sigarette di contrabbando. E poi i soldi. Non tanti ma quei pochi per corrompere l’infermiere affinché trattasse con occhio di riguardo la persona cui tenevi. Ricordo che Rossana era stata legata al letto in un reparto per agitati. La mamma diede del denaro all’infermiere perché la liberassero e la trasferissero nella sua stanza. Qualcosa di così terribilmente squallido l’ho vista solo in Unione Sovietica».
Prima ti ho interrotto sugli occhi di tua sorella. Hai chiuso il tuo racconto con una foto di Rossana. La luce è slabbrata.
«Come i suoi occhi. Ricordo i primi tentativi di cure.
Tornava a casa e quella sua bellezza era come appiattita, spenta. Gli occhi dilatati e senza luce. Dove sei? Pensavo. Nel tuo nulla eri».