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 2025  maggio 25 Domenica calendario

Stevenson torna sull’isola

La vita di uno scrittore dipende dalla generosità dei suoi lettori. Una riga letta per caso, l’incanto di una pagina, o anche soltanto un paio di parole possono far sì che il lettore salvi lo scrittore dall’impietoso limbo dello scaffale di una biblioteca, donandogli una sorta di immortalità. Talvolta questa generosità trascende il regno della memoria e dell’esperienza privata, e il lettore può decidere di aiutare lo scrittore (se ancora di questo mondo) a vivere una vita migliore. Fu questo il caso di Jorge Luis Borges, lo scrittore, e Franco Maria Ricci, il suo lettore.
La generosità di Ricci rese l’esistenza di Borges molto più serena negli ultimi anni. E il sostegno di Ricci non fu mai un atto di beneficenza altezzosa, ma sempre una ricompensa per l’opera dello scrittore: ne siano esempi le prefazioni, tra cui quella che Borges scrisse per l’antologia di Ricci dedicata alle visioni, alcuni testi dello stesso Borges, come Il congresso del mondo, che Ricci illustrò con immagini tantriche, o le selezioni dei racconti preferiti da Borges e pubblicati da Ricci nella collana La Biblioteca di Babele.
Ricci sapeva quanto Borges avesse fatto proprio il simbolo del labirinto e, qualche anno dopo la sua scomparsa, decise di rendergli omaggio costruendone materialmente uno nella sua proprietà vicino a Parma. «Ci saranno rovine e bambù», aveva annunciato Ricci, «all’ombra dei quali nasceranno un grande labirinto, una biblioteca e tante altre cose superflue». Coadiuvato dall’architetto Davide Dutto, Ricci realizzò il più grande labirinto di bambù mai esistito, un dedalo fatto interamente di queste piante, alte dai tre ai quindici metri.
Borges amava citare Chesterton che, in uno dei suoi racconti di Padre Brown, osservava: «Quel che tutti noi temiamo di più è un labirinto senza un centro». Forse nella mente di Chesterton risuonava un certo commento di Robert Louis Stevenson, del quale era stato biografo. Parlando dell’intricato dedalo della vita, Stevenson nel suo saggio Vecchiaia scorbutica e gioventù scriveva: «Dal momento che abbiamo esplorato il labirinto così alungo senza alcun risultato, ne consegue, per la povera ragione umana, che non c’è molto altro da esplorare; il centro deve essere vicino, con tanto di rinfresco con champagne e fontana ornamentale. E se non esistesse affatto un centro, ma soltanto un vicolo dopo l’altro, e tutto il mondo non fosse che un labirinto senza fine né uscita?». Il labirinto di Ricci ha un centro ma, proprio come avrebbe desiderato Borges, il sentiero che vi conduce è costellato di digressioni, illusori passi avanti e spazi in cui riflettere e sognare.
Stevenson era tra gli scrittori più ammirati da Borges: non di rado, quando si leggeva ad alta voce per lui, Borges chiedeva di fermarsi per riflettere sull’ineffabilità di una certa espressione o sull’ingegnosa costruzione di una storia. Spesso, quando uno scrittore parla del barlume creativo o della scintilla di ispirazione che per primi hanno messo in moto l’immaginazione, il ricordo si fonde con il desiderio, e il racconto diventa un’altra prodigiosa narrazione sulla narrazione. Ma nel caso della stesura dell’Isola del tesoro, Borges riteneva che la “biografia del libro” descritta da Stevenson fosse credibile in modo struggente.
Nel luglio 1880, il trentenne Robert Louis Stevenson era ritornato con la famiglia in Inghilterra dopo un estenuante soggiorno in California. I genitori, preoccupati per le precarie condizioni di salute del figlio, cagionevole fin dalla prima infanzia, gli consigliarono un periodo di riposo sulle colline di Braemar in Scozia. Stevenson e il figliastro, Lloyd Osbourne, allora tredicenne, avevano da poco avviato una collaborazione letteraria; Stevenson aveva regalato al ragazzo un torchio da stampa in miniatura e, in seguito alle pressanti richieste del suonuovo editore, aveva composto una serie di “emblemi” poetici, successivamente stampati con alcune sue xilografie in edizione limitata per la famiglia.
A Braemar, l’adolescente Lloyd aveva decorato la stanza con i suoi disegni, e Stevenson aveva contribuito ad abbellirla con la mappa di un’isola immaginaria colorata a mano. Cedendo alle insistenze di Lloyd, che giustamente supponeva che dietro la mappa nascondesse una storia, Stevenson aveva iniziato a raccontare un’avventura di pirati e di un tesoro sepolto. L’unica richiesta fatta all’autore da quel pubblico, formato da un solo spettatore, fu che nella trama non ci fossero donne. Il racconto scorreva con una tale naturalezza che Stevenson decise di metterlo su carta. Ogni sera, leggeva ad alta voce a Lloyd quanto aveva scritto nella giornata. Ben presto, a quell’unico spettatore si aggiunse il padre di Stevenson, ed entrambi, il vecchio e il giovane, seguivano entusiasti e rapiti il susseguirsi delle avventure. Fino ad allora, Stevenson aveva composto racconti, saggi e poesie. Non si era mai cimentato con un romanzo. Ed ora, come per magia, gli si era presentata quell’opportunità.
Per tutta la vita, Stevenson aveva sofferto di una forma emorragica venosa ereditaria che gli provocava accessi di tosse con espettorato di sangue e, dopo aver terminato il sedicesimo capitolo, si sentiva troppo debole per continuare. Ma quando Young Folks, una rivista per ragazzi, gli offrì di pubblicare l’opera a puntate con il titolo The Sea Cook: a Story for Boys, Stevenson si rese conto che doveva trovare un modo per continuare. Purtroppo Braemar non aveva sortito la guarigione miracolosa tanto sperata, e quindi la famiglia si spostò a Davos, in Svizzera, dove si diceva che l’aria fosse più salubre. Qui Stevenson si sentì rinvigorito e in grado di rimettersi al lavoro. Seduto a letto, gli era stato infatti proibito di alzarsi fino a mezzogiorno per non affaticare i polmoni, scrisse un capitolo dopo l’altro, e di sera usava la sua ritrovata energia per leggerli ad alta voce ai familiari. Quando anche l’ultimo capitolo fu pubblicato sulla rivista, Stevenson decise di cambiare il titolo al libro e di chiamarlo L’Isola del tesoro. Nelle sue mani, l’avventura per ragazzi si era incredibilmente trasformata in un’esplorazione epica dell’ambiguità dei valori morali e della duplice essenza della natura umana. Questi due temi stanno al cuore dell’intera opera stevensoniana.
La visione dualistica dell’universo ci accompagna da sempre. Che si tratti degli esseri umani primordiali, duplici e scissi, di cui parla Platone o del mondo sublunare contrapposto a quello sopraceleste di Aristotele, che si parli dello ying e dello yang di Lao Tzu e di Confucio, o della dualità anima- corpo dibattuta da Tommaso d’Aquino e da Freud, che si parli dell’universo binario dell’astrofisica con le sue due distinte cariche elettriche o dell’universo delle stelle binarie, la nostra concezione del cosmo si basa, come nel linguaggio informatico, sul numero due.
Gli zoroastriani credono che violando i comandamenti del Dio del Bene rafforziamo la contrapposta Divinità del Male. I presbiteriani presentano questa dualità in termini diversi: essendo Dio amore puro, Egli non può essere la causa del peccato, esclusiva responsabilità umana che oscura la luce del mondo divino. Secondo Calvino, questa natura duplice spiega il concetto della predestinazione: poiché tutti gli uomini e le donne dimorano nelle tenebre, il peccato è inevitabile. L’idea che siamo tutti preda dello scontro tra le forze della luce e quelle dell’oscurità era una lezione che Stevenson aveva appreso fin da bambino, per poi lasciare una traccia indelebile ( sebbene non acritica) nella sua carriera di scrittore.
I suoi genitori erano due devoti presbiteriani, anche se non strettamente osservanti dei principi calvinisti. Da ragazzo, Stevenson ricevette una rigida istruzione religiosa dalla sua governante Alison Cunningham, detta “Cummie”, una donna scozzese dalla fede fervida che, prima di addormentarsi, raccontava al bambino storie intessute delle tremende conseguenze di un comportamento peccaminoso. Cummie credeva che le carte da gioco fossero i libri del diavolo, e per lei romanzi e commedie erano un vero e proprio anatema. Tuttavia, non mancava di deliziare il piccolo Stevenson con storie di fantasmi e di folletti, sedendogli accanto, quando “la Strega della Notte” – così lo scrittore chiamava la sua malattia – non gli faceva chiudere occhio.
Nella dedica nelGiardino dei versi, pubblicato all’età di trentacinque anni, lo scrittore definiva Cummie «la mia seconda Madre, la mia prima Moglie» e la ringraziava per le sue amorevoli cure: Per le tue lunghe notti insonni A vegliare sul mio immeritato bene Per la tua mano così rassicurante Che mi ha condotto per terre incerte Per tutte le fiabe che mi hai letto Per tutti i dolori che hai lenito. Gli insegnamenti religiosi di Cummie furono assorbiti e trasformati dalla mente di Stevenson che giunse alla conclusione, almeno a livello personale, che la sua fonte di ispirazione dovessero essere le buone azioni e non le colpe. «È probabile che quasi tutti coloro che pensano alla condotta, ci pensino troppo», scrisse anni dopo. «È certo che tutti noi pensiamo molto al peccato. Tuttavia non siamo dannati per aver fatto del male, ma per non aver fatto del bene; Cristo non parlava mai di moralitànegativa; Tu farai erano le parole che ripeteva, sostituendole a Tu non farai. Se non riusciamo a togliercelo dalla mente, i casi sono due: o il nostro credo è in errore e dobbiamo riplasmarlo con più indulgenza; oppure, se la nostra morale è retta, siamo dei pazzi criminali e dovremmo rinchiuderci da soli». La conclusione era drastica.
Pur professando di non credere nel Dio convenzionale dei suoi predecessori, Stevenson credeva nel diavolo o, perlomeno, nel suo malvagio operato sulla Terra, ed era convinto che fosse necessario allinearsi con le forze del bene. In una delle sue misteriose favole brevi, racconta di tre uomini, un prete, una persona virtuosa e un semplice vagabondo, che si mettono in viaggio per un sacro pellegrinaggio in onore del dio Odino. All’improvviso arriva un messaggero che annuncia loro che tutto è perduto: le forze delle tenebre avevano assediato le Dimore Celesti, Odino era destinato a morire e il male a trionfare.
«Sono stato grossolanamente ingannato», grida la persona virtuosa.
«E adesso tutto è perduto», sentenzia il prete. «Mi domando se sia troppo tardi per prendere accordi con il diavolo», si interroga la persona virtuosa.
«Oh, spero di no», dice il prete. «E comunque, ad ogni buon conto, possiamo provare. Ma che cosa ci fai con quell’ascia?», chiede al vagabondo.
«Me ne vado a morire con Odino», risponde il vagabondo.
Per Stevenson il diavolo non doveva assolutamente trionfare.