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 2025  maggio 25 Domenica calendario

“Negli inediti cerco la voce di mio padre Salinger”

Matt Salinger assomiglia al padre: stesso colore della pelle, dei capelli, stesse orecchie e stesso sorriso. Stessa voce, stesse intercapedini di silenzio. È ovviamente la mia immaginazione che mi fa sostenere tutto questo; più del diaframma video e dei tantichilometri che ci dividono è l’immutabile legge di propagazione dei padri nei figli a darmi la non sconfessabile sensazione. E poi Matt Salinger sta facendo le veci del padre, da quando è scomparso, il 27 gennaio 2010. La dedizione che sta mettendo nella cura e nella salvaguardia del patrimonio paterno è indefessa, palese – sfiora la maniacalità. È il custode degli inediti, una massa di scritti che J.D. Salinger ha portato avanti per cinquant’anni nel suo legittimo e contestato riserbo. È un’impresa che richiede fermezza e pazienza; Matt Salinger ha perfino studiato diritto d’autore per affrontare con più consapevolezza certi passaggi.
Prima di tutto questo, ha avuto un percorso artistico apprezzabile come attore (è stato Capitan America nell’omonimo film del 1990) e come produttore di opere di successo (su tutte la pièce The Syringa Tree nel 2000).
Parliamo a lungo delle nuove traduzioni che Einaudi staper pubblicare, dell’inafferrabile Seymour Glass: «Mio padre si è pentito di averlo fatto suicidare. Lo ha definito una specie di arrogante atto di esibizionismo di un giovane scrittore» e confessa di sapere molto altro su di lui e che per la sfumata edizione in volume diHapworth 16, 1924il padre aveva in mente una lunga introduzione; abbiamo parlato di Westport, Connecticut, dove ha finito Il giovane Holden e scrittoEsmé (a pochi metri da dove F. Scott Fitzgerald aveva concepito il primo Gatsby), di vecchi e nuovi lettori del padre, di Franny, di adolescenze perdute e, ovviamente, dello squallore.
Com’è cambiata la sua vita da quando è morto suo padre? Ha dovuto rinunciare alla sua carriera artistica?
«In realtà non ho smesso di fare l’attore, anche se già prima che morisse mi stavo dedicando all’attività di produttore cinematografico e teatrale. Una volta mio padre disse una delle cose più decisive sull’essere attore, almeno per come la vedeva lui: “Ti separa solo un ruolo dal grande cambiamento della tua vita”. E non stava parlando di celebrità ma solo di ottenere parti migliori. Diceva che poteva capitare da un momento all’altro, e questo l’ho sempre tenuto in grande considerazione. Quando mio padre è morto, ho cominciato a prendermi cura delle sue cose: sono subito andato a vedere come lavorava chi se ne doveva occupare. È stato illuminante. Lui non aveva la testa per queste cose. Non gliene importava nulla. Amaval’arte. Amava la bellezza. Amava scrivere. Amava creare.
Ed è giusto che fosse così. Ha lasciato ad altri certe decisioni. Credo che sia stato molto ben assistito per parecchi anni, poi le persone della sua agenzia sono invecchiate».
Alcune sono morte, altre sono andate in pensione…
«Negli ultimi dieci anni era un ufficio abbastanza disfunzionale, per dirla gentilmente. Le sue cose erano in disordine e qualcuno doveva rimettere in sesto la nave.
Amavo la sua scrittura e sapevo che mio padre voleva che arrivasse nel miglior modo possibile ai lettori. Quando mi sono reso conto di tutto questo ho capito quanto gli volevo bene e quanto ero motivato a prendermi cura del suo lascito. Avevo di fronte una serie di opere di una qualità che io non mi sarei nemmeno sognato di raggiungere come attore o produttore. Bisognava proteggere tutto questo. Si tratta del suo lavoro, della sua arte, non del mio, ovviamente, ma questo non diminuisce il piacere, la gioia e l’orgoglio che provo nel prendermene cura».
Suo padre ha mai commentato con la sua lingua puntuta il suo lavoro da attore o produttore?
«Certo. Mi sosteneva molto. Mi chiamava dopo aver visto qualcosa che avevo fatto. Anche se era una schifezza, diceva: “Matt, eri lì, proprio nel mezzo di tutta quella merda”. Poi però trovava sempre qualcosa da elogiare.
Sapeva quanto era difficile. In quegli anni vivevo in California del Sud, dall’altra parte del Paese. Lui era nella famosa casa di Cornish, nel New Hampshire, e gli mancavo. Era felice di vedermi in tv, e anche se non era un buon programma, capiva che poteva essere utile alla mia carriera».
Riguardo alla sua dedizione nel coltivare il talento altrui come produttore, qual era l’impressione di suo padre?
«Lo apprezzava. Ho dato la prima opportunità a persone come Angelina Jolie, che ebbe il suo primo ruolo da protagonista inDesert Moon, un film di cui nessuno ha mai sentito parlare. Mio padre capiva l’eccitazione che provavo nello scoprire un nuovo talento. C’è stato uno spettacolo che ho prodotto (The Syringa Tree), ci ho lavorato per quasi dodici anni. Ha avuto successo. Pure mio padre l’ha visto.
Non viaggiava molto in quegli anni, non ci sentiva tanto bene e non amava il teatro, ma ha voluto esserci».
Com’era la vostra vita a Cornish? Suo padre era abbastanza abitudinario, scriveva sette-otto ore al giorno, conduceva per certi aspetti una vita normale.
«Mio padre era un artista. Gli artisti non sono personenormali. Sono diversi. Vedono le cose a modo loro. È così che creano arte. È per questo che siamo attratti da loro. E comunque era più normale di come lo descriveva la stampa… I giornali erano è un po’ come l’amante respinta. Sa come si dice: “Nessun inferno ha la furia di una donna disprezzata”. Mio padre non ha mai dato alla stampa quello che voleva, cioè sé stesso e l’accesso alla sua privacy. Capisco che fossero arrabbiati perché non ottenevano quello che volevano, ma hanno portato la cosa all’estremo. Il suo desiderio di privacy si è trasformato in qualcosa che non andava bene. Così è diventato il “recluso”, quello “ritirato”, l’“eremita” o quello “notoriamente privato”. Come se ci fosse qualcosa di contorto o sbagliato o irresponsabile. Hanno dato alla gente l’impressione sbagliata. Era certamente più normale di così. Ha mantenuto amicizie per tutta la vita.
Sì. Amicizie con i suoi compagni di scuola, dell’esercito; quando andava in giro per la città, si relazionava con le persone, ci parlava. E le persone andavano da lui per un consiglio, venivano a casa. Voleva solo starsene per conto suo, e vivere in modo semplice nella piccola cittadina tranquilla che aveva scelto per stare lontano dai riflettori.
Mio Dio, perché non si permette a una persona così di fare come vuole?».
È vero che guardavate un film con un proiettore insieme ad alcune persone della comunità locale?
«Certo. Aveva una collezione di film da 16 millimetri che adesso ho io. Purtroppo si stanno deteriorando. Devo capire come salvarli. Ho letto da qualche parte che Christopher Nolan ha comprato un teatro a Los Angeles e sta proiettando vecchi film. Ho pensato di scrivergli e di chiedergli come li conserva».
Suo padre non aveva una grande opinione dell’industria cinematografica…
«No, per niente. Il fatto che non concedesse il permesso di realizzare film dai suoi libri e racconti derivava soprattutto dalla brutta esperienza che aveva avuto con il film tratto da Lo zio Wiggily nel Connecticut nel 1949, e dalla convinzione di non voler essere interpretato. Ma tutto questo non significa che odiasse i film; li amava e li guardava in continuazione».
Non avere intermediazione era un aspetto centrale per suo padre. Dalle immagini in copertina ai paratesti.
Voleva che non ci fossero barriere.
«Certo, mio padre credeva nel primato del rapporto scrittore-lettore, e ci credeva al limite della sacralità. Non voleva che ci fossero intermediari. Non voleva essere interpretato. Lo disse in modo chiaro a un regista che una volta andò da lui a chiedergli una delle sue opere. Disse: “Io scrivo per lo schermo cinematografico nella mente del lettore”».
Suo padre scriveva ogni giorno e lasciava taccuini ovunque. Com’era la sua postazione di lavoro? Si dice che avesse un posto speciale dove stava per ore e ore, senza che nessuno potesse entrare.
«Noi potevamo entrare… Agli occhi di un estraneo sarebbe apparsa come una postazione ingombra e disordinata. Mio padre aveva un ordine tutto suo. Sapeva dove fosse ogni cosa. Di fronte alla scrivania c’era questa struttura di legno a scomparti e in ogni scomparto archiviava un certo tipo di appunti. Funzionava splendidamente per lui. Se avesse scritto al computer… Aveva una grande diffidenza nei confronti di Internet, qualcosa di viscerale, istintivo e immediato. Da subito, dalla prima volta che ne ha sentito parlare. Ora quando parlano di sorveglianza attraverso i vari dispositivi ripenso a mio padre e mi dico: “Gesù, avevi ragione pure su questo, papà”. No, non lo biasimo per essere rimasto lontano dalla tecnologia».
Aveva due macchine da scrivere, una Underwood e una Royal, vero?
«Sì, ma per la verità ne aveva diverse altre perché con il passare degli anni si rompevano spesso e le riparazionirichiedevano tempo, quindi aveva bisogno di averne subito un’altra a disposizione. Non gli interessavano i computer o iword processor. Dio, quanto vorrei che avesse scritto al computer… ma non sarebbe stato lui».
Come divideva il processo di scrittura tra la macchina da scrivere e la scrittura a mano?
«Batteva quasi tutto a macchina. Gli appunti come quelli presi in auto o in poltrona erano scritti a mano. Sono tantissimi – lui li chiamava
squibs,
annotazioni-lampo. Il più delle volte si metteva lui stesso a trascriverli, estendendoli, elaborandoli, abbellendoli, commentandoli. Alcuni però li lasciava così. Ci sono sempre tanti appunti ai margini e tra le righe. Usava una spaziatura verticale doppia. E quella è stata una maledizione. A un certo punto mi è stato detto che il riconoscimento ottico stava facendo passi da gigante.
“Aspetta solo un anno, Matt, e potrai scansionare tutta questa roba. Non devi trascriverla”. Avevo letto che il libro preferito di Bill Gates era Il giovane Holden e di quanto era stato formativo per lui, così, un giorno, gli ho scritto disperato. Mi ha messo a disposizione uno dei suoi collaboratori, ci hanno provato ma non c’è stato nulla da fare. Il processo è così delicato che c’è continuamente il rischio di perdere qualcosa o di combinare un pasticcio.
Risultato: meglio farlo a mano».
È contento che le opere di suo padre vengano di tanto
in tanto ritradotte per arrivare meglio ai lettori, specie i più giovani?
«Quando un editore viene da me e mi dice che vuole fare una nuova traduzione chiedo sempre: “Perché vuole farla? Cosa c’è di sbagliato nella traduzione attuale? Dov’è carente? Ci sono errori? Me li può mostrare?”. Ho sempre paura che un editore lo faccia solo per creare qualcosa di cui parlare. Sarebbe un anatema per mio padre, qualcosa di orribile. Così ho fatto quando Einaudi è venuta da noi e ha detto che voleva fare una nuova traduzione dei racconti. Mi hanno fornito degli ottimi esempi di dove la versione precedente era stanca o distorta. Matteo Colombo è una persona adorabile e premurosa. Mi sono divertito molto con lui mentre traduceva Alzate, l’architrave carpentieri! eSeymour: presentazione. Ci siamo scambiati tantissime mail, a volte nel cuore della notte. Mi diceva: “Cosa ne pensi di questo?”. Ogni volta devo stare attento, perché non parlo mai per mio padre.
Ciò che dico o suggerisco potrebbe essere sbagliato, ma certamente conosco mio padre meglio di chiunque altro, conosco la sua sensibilità».
Vorrei parlare del lavoro che sta facendo ora. Non riesco a immaginare l’impegno e il tempo che ci vuole, l’enorme quantità di scritti, i fogli, i quaderni che suo padre le ha lasciato. Ha detto che si tratta di uno sforzo considerevole e che ci vorranno molti anni. Le va di darci una panoramica della natura di questo lavoro? Da lettore ho l’impressione che suo padre stesse andando in una nuova direzione. In un’intervista, lei ha detto che si tratta di un percorso non lineare completamente diverso dal passato. Le va di raccontare qualcosa?
«È così difficile. Non voglio eludere la domanda, e non sto cercando di… Però qualsiasi cosa io dicessi porterebbe ad aspettative di un certo tipo da parte del pubblico, dei lettori e dei fan di mio padre. Lui non voleva pubblicare per forza. Mio padre voleva che il lettore arrivasse al suo materiale con la mente sgombra, magari con una certa conoscenza degli altri suoi libri, ma non in modo alterato o distorto da qualcos’altro. Per questo voglio evitare qualsiasi fraintendimento. Se qualcosa venisse male interpretato, gli mancherei di rispetto e farei un enorme disservizio al lettore. Quando leggo opere come la biografia di Shields e Salerno (pubblicata in Italia da Isbn con il titoloSalinger), un testo scritto in modo ansimante e autocelebrativo, beh… Hanno solo parlato con un mucchio di persone, annotando quello che dicevano.
Hanno fatto un pastone di tutti quei pensieri e li hanno presentati come fatti. Non so che fonti avessero, ma alla fine del libro annunciavano quali opere di mio padre sarebbero state pubblicate… insomma ero diviso tra la voglia di piangere e la voglia di assassinarli».
Magari nei panni di Capitan America…
«Sì, avrei preso il mio scudo e li avrei decapitati. Credo che il lettore intelligente e di buon gusto capisca subito questo genere di cose. Mio padre non scriveva libri da spiaggia. Non era quel tipo di scrittore. Era sconvolgente.
Voglio solo dire che i lettori che capiscono davvero la scrittura di mio padre e la amano capiranno e ameranno il nuovo materiale».
Siamo in tanti a non vedere l’ora. Pensa che i nuovi lettori che non conoscono perfettamente il lavoro di suo padre, leggendo il nuovo materiale possano ancora trovarci l’anima di suo padre, il suo messaggio?
«InIl giovane Holden, il consiglio che il professor Antolini dà a Holden cercando di risollevargli il morale e dargli una direzione è: “Scoprirai di non essere stato il primo a sentirsi confuso, e spaventato, e perfino disgustato dai comportamenti umani. Non sei affatto solo, in tutto questo, e scoprirlo sarà emozionante e stimolante».
Antolini dice a Holden che altre persone si sono sentite come lui e che alcuni di loro hanno lasciato qualcosa di scritto, degli indizi su come si sono tirati fuori da un certo stato mentale, o dalla depressione, o anche da pensieri suicidi. Poi aggiunge: “Se avrai qualcosa da offrire, qualcun altro imparerà da te. È un magnifico accordo reciproco”. Mio padre ha fatto questo per tutta la vita: ci ha lasciato indizi. Era un avventuriero dello spirito. Unavventuriero dell’intelletto. Leggeva voracemente, leggeva di tutto; assorbiva e riversava certe cose nei suoi personaggi. Disseminava indizi. Ed è proprio questo ciò che mi fa andare avanti e mi mantiene alto l’entusiasmo – ora che ci penso ho le lacrime agli occhi. Perché è una cosa così bella. Tutto ciò che ha lasciato (pezzi lunghi, frammenti, appunti) verrà condiviso. Scriveva sempre, dappertutto, anche in macchina, prendeva un blocchetto e scriveva. Non farò interventi aggressivi. Non lascerò che un editor o un editore trasformino questi scritti in qualcosa che lui non voleva».
Ha detto più volte che non ci sarà né editing né revisione.
«I testi rimarranno così come sono.»
Quando legge questi nuovi pezzi di suo padre, sente la sua voce?
«Oh, assolutamente sì. Che privilegio! La cosa divertente è che lui scriveva qualcosa su uno di quei foglietti, poi in un angolo metteva una sigla che stava a indicare come aveva intenzione di usarlo e per quale personaggio. Sono come dei mattoni. Ed è divertente metterli insieme. Voglio però precisare che mio padre insieme ai mattoni ha lasciato le istruzioni per l’uso. Ma, ancora una volta, sarà il lettore ad assemblare tutto per sé».
È un lavoro che nessun altro poteva fare. Suo padre era sicuro che fosse lei la persona giusta.
«Era un uomo molto lucido ma critico. Il suo affetto per me e il suo rispetto sono stati sufficienti a fargli prendere questa decisione. Non credo che idealizzasse il mio ruolo e le mie capacità. Allo stesso tempo sono consapevole di non essere stato una scelta obbligata. Non sono la persona perfetta, ma ero la migliore disponibile. Il migliore disponibile, questo sì. È un lavoro durissimo».
Com’è il lavoro giorno per giorno?
«Vado avanti con le trascrizioni e le annotazioni sulle trascrizioni ma poi salta fuori un progetto in un Paese lontano, torno e riprendo da dove avevo lasciato. Quando mi sveglio non so su quale sfaccettatura del lavoro di mio padre cadrà la mia attenzione quel giorno. A volte sono tirato in una direzione completamente diversa da quella che vorrei intraprendere».
Immagino che riceva continue testimonianze dei lettori.
«Sì, moltissime. Ero in Romania qualche anno fa per un film e ho partecipato a una tavola rotonda con Mircea C?rt?rescu. Durante la serata ha parlato di quanto amavaIl giovane Holden. A un certo punto ha detto: “Tutti lo amano”. Io ho risposto: “No, non tutti. Non tutti amano Il giovane Holden”. Lui però ha detto: “Tutti i buoni lettori amano Il giovane Holden”. Poi ha aggiunto: “Ma il libro che mi ha cambiato la vita, il libro che leggo almeno una voltaall’anno e che per me è una Bibbia”, ha detto, “èFranny e Zooey”.Mi ha fatto piacere, e mi ha fatto ancora più piacere quando ho letto alcuni suoi libri».
So che da anni cerca dei lettori per gli audiolibri delle opere di suo padre. Ha mai pensato di leggerli lei?
«Beh, ci ho pensato. Sto facendo qualche prova, per disperazione, più che altro, perché non riesco a trovare nessuno. Dovrebbe farlo qualcuno più giovane di me, per Holden, soprattutto. Ho sempre le intonazioni di mio padre in testa».
Come leggeva i propri testi J.D. Salinger?
«Li leggeva ad alta voce e in modo magnifico. Aveva una voce baritonale e profonda, molto risonante. Per come era fatto non si sarebbe mai esibito. Avrei dovuto registrarlo. Sarebbe stato bellissimo».
Le manca Cornish, vivere lì?
«Moltissimo».
Davvero?
«Sì. È un posto incredibilmente bello. Ho cercato di ricrearlo qua e là, ma per fortuna posso sempre tornarci. La vedova, Colleen O’Neill, e io siamo molto uniti e lavoriamo bene insieme. Vive nella sua vecchia casa. È rimasta lì. Posso andare a trovarla quando voglio e passeggiare. Il posto è quasi lo stesso. I boschi sono certamente gli stessi. Veramente intatti».