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 2025  maggio 25 Domenica calendario

Un calcio alla povertà. La sfida dell’Africa

Ragazzi e ragazze kenyoti sono arrivati a Dar es Salaam, qui in Tanzania, a tarda sera stremati a bordo di una vecchia corriera dalle contee di Mombasa e Kwale: hanno attraversato la frontiera dopo un viaggio di seicento chilometri. Quelli tanzaniani erano a Dar es Salaam già nel pomeriggio: vengono da Tanga e Mtwara, a nord, e dal profondo sud del Paese al confine con il Mozambico. Il suono dei loro passi atletici riecheggia lungo i corridoi e negli appartamenti dell’ostello Cefa. I calciatori e le calciatrici mozambicani, al contrario, sono stati costretti a rimanere nei loro villaggi di Pemba e Metuge: troppo pericoloso spostarsi in zone di conflitto a nord del Paese, nei distretti di Macimbo da Paraia, Palma e Muidumbe. La regione di Cabo Delgado, infatti, è da sette anni teatro di violenti scontri tra i guerriglieri islamisti di Al-Shabaab e l’esercito governativo, conflitto che si è riacceso recentemente con rapimenti e decapitazioni, attacchi armati al personale militare, ai civili e alle infrastrutture, comprese scuole e ospedali, e oltre 60 mila bambini sfollati a causa dei combattimenti.
È proprio nelle aree a rischio di questi tre Paesi africani che ha preso vita il progetto Kujenga Amani (che in swahili significa «Costruire la pace»), un’iniziativa promossa da Cefa e co-finanziata dall’Unione Europea. Si sviluppa lungo la costa dell’Oceano Indiano dell’Africa orientale promuovendo anche tornei di calcio tra squadre locali, maschili e femminili, lì dove il contesto socioeconomico è caratterizzato da profonde disuguaglianze, instabilità politica, povertà diffusa e impatti significativi del cambiamento climatico.
Nell’ostello alloggiano le squadre coinvolte nel progetto arrivate per la fase finale, gli insegnanti e i leader religiosi, gli allenatori come Mohamed Ali Mwachausa, un ragazzone alto, il pizzetto curato e un cappellino nero, coach di SambaSport Youth Trust, la squadra che nel distretto keniano di Kwale utilizza il football per «migliorare il comportamento dei giovani». Giocare insieme significa imparare anche a risolvere i conflitti, a capire come gestire le emozioni senza violenza. Il calcio è lo sport più popolare e quello più economico in Kenya: «Se non hai il pallone, lo costruisci con gli stracci», dice. Anche lui prima di allenare era un giocatore: «Un’ala alla Roberto Baggio», ammicca.
Per spiegare cosa succede in quella parte di Africa racconta che «è una zona dove il 25% dei giovani usa eroina, una ragazza su quattro abbandona la scuola perché ha una gravidanza precoce, dilagano le gang giovanili, oppure i ragazzi soffrono di depressione. Devi tenere conto che qui l’85% delle ragazze denuncia di avere subito violenza. Inoltre, a Bongue, regione molto povera, i ragazzi vengono reclutati come mercenari dai gruppi terroristici islamisti». Cova una ribellione giovanile, aggiunge Mwachausa, che non trova sfogo da nessuna parte, soprattutto perché i ragazzi si sentono abbandonati dai governi.
Come mi ha spiegato Irene Sciurpa, program manager di Cefa in Kenya, «la politica è in mano agli anziani; i giovani, che rappresentano il 70% della popolazione, sono esclusi. Un anno fa a giugno ci sono state molte proteste contro il governo, i ragazzi hanno riempito le strade di Nairobi e delle grandi città», racconta, ma i giovani scesi in piazza sono stati massacrati, uccisi, rapiti. Alcuni di loro sono stati fatti letteralmente a pezzi e abbandonati nella discarica di Dandora.
Dopo gli scontri e l’assalto al Parlamento il governo ha ritirato la legge Kenya Finance Bill 2024, che tra i provvedimenti voleva aumentare l’Iva al 16% sul pane e istituire la tassa del 2,5% sui veicoli a motore assemblati nel Paese. Alcuni ministri sono stati licenziati.
I ragazzi del Kenya giungono qui in Tanzania da villaggi lontani. È la prima volta che viaggiano in un Paese straniero, si sono svegliati all’alba desiderosi di arrivare al campo sportivo dell’Università e cominciare a subito a tirare calci al pallone. Ma piove da tutta la notte sulle strade sterrate e piene di buche del quartiere di Mikocheni, sulle motorette bajaj che corrono infilandosi frenetiche nel traffico caotico delle vie tumultuose; piove forte anche nei mercati di abbigliamento usato, con cataste di scarpe ai lati della strada, piove sulle bancarelle dei venditori ambulanti, così come il temporale si è inchiodato sull’Oceano Indiano di fronte e sugli isolotti intorno, a poche miglia da Zanzibar e Mafia.
Negli ultimi anni il calcio, radicato da sempre nella cultura africana, è cresciuto moltissimo anche a livello sociale.
Prima di iniziare la partita della semifinale, le ragazze della Tanzania si riuniscono in capannelli per fare quella che in altri contesti si chiama «analisi dei problemi», una sorta di autocoscienza. Dicono che nei villaggi incontrano soprattutto tre difficoltà: bassi livelli di istruzione tra i giovani (già poter giocare in un campus universitario come questo è per loro un fatto simbolico), alto tasso di disoccupazione giovanile che produce molta criminalità, un sentimento di sfiducia nei confronti del futuro. Un ragazzo keniano dichiara concitato al microfono che nel suo villaggio i giovani fanno proselitismo per arruolare i ragazzi nelle baby gang criminali, nelle scuole si abusa di sostanze e alcolici, le autorità sono assenti e corrotte. Alcune ragazze sostengono che c’è molta sfiducia perché i giovani non hanno voce in capitolo, e le donne in maniera particolare.
Un altro problema è che in Tanzania sopravvive una società tribale, organizzata in clan, con molte tensioni interne e questioni gerarchiche che creano accesi conflitti generazionali.
La simpatica Kadzo Jelly, coordinatrice locale Cefa del progetto in Tanzania, prima della partita mi spiega che la scelta delle zone dove si trovano le squadre e le atlete che hanno partecipato al torneo è caduta su villaggi dove è diffusa la violenza di genere e c’è molta dispersione scolastica. «In alcune regioni le donne non possono muoversi dopo il tramonto a causa delle aggressioni sessuali e delle gang di ragazzini che girano armati di machete, rubano, aggrediscono e violentano».
Mi spiega che il Cefa lavora con sette organizzazioni locali, soprattutto con giovani leader, attivisti che si battono per la difesa delle terre, vendute dal governo ad aziende e multinazionali senza il loro consenso. La politica in Tanzania è inquinata da livelli molto alti di corruzione, la gente è disillusa.
A Kwale pensavano di non trovare ragazze che giocassero a calcio: «È una società musulmana e patriarcale, assediata da turismo sessuale ed estremismo religioso violento. Inoltre sembrava difficile riuscire a selezionare ragazze dai 18 ai 21 anni che non fossero già madri; invece abbiamo insistito, scegliendo di reclutare quelle più giovani, anche di 16 e 17 anni». Le resistenze sono state molte, i genitori erano contrari, non volevano che queste ragazze andassero a fare le calciatrici. Dicevano: «Finché giocano nel cortile... – ripete Kadzo – ma indossare la divisa, le scarpette chiodate... se giochi a calcio sei lesbica, dicevano ad alcune di loro, molte sono state molestate, spogliate, ma siamo andati casa per casa e alla fine li abbiamo convinti».
Adesso il campo è un acquitrino, il gioco molto veloce e fisico, senza schemi, lunghi lanci e tentativi di incursioni, un batti e ribatti continuo, lotte di corpi alla caccia del pallone nel fango, spinte, colpi di testa, marcature molto strette, qualche fallo di troppo. In un terreno molto appesantito si gioca senza tregua, un campo di battaglia sotto la pioggia incessante, la palla si blocca nel pantano, oppure schizza via lontano sobbalzando.
Le ragazze tanzaniane che vengono dalla regione di Tanga vincono il derby su quelle di Mtwara per 3-1, e quando l’arbitra fischia la fine girano per il campo impazzite gridando e cantando, allora i musicisti dell’orchestra alzano il volume delle chitarre, i ritmi dei tamburi, così come le intonazioni squillanti delle vocalist. Alla fine, decideranno di affrontare la finale mischiando le giocatrici delle due squadre: per spirito «patriottico», diciamo, sceglieranno le calciatrici più forti.
Anche i ragazzi di Tanga vincono in maniera netta 2-0 dopo aver dominato per tutti i novanta minuti di gioco. Finisce con un gran temporale, mentre i musicisti continuano imperterriti a suonare e cantare sotto il tendone e gli atleti vincitori a ballare allegri alzando le braccia sotto la pioggia battente.
Il giorno dopo Salma Shedrak sta per entrare in campo per giocare la finale. È una ragazza alta e slanciata, ha diciotto anni, attaccante ambidestra, dotata di una notevole potenza di tiro. Quest’anno è stata capocannoniera della nazionale femminile del Kenya under 17 con 9 gol. Tra le ragazze è una delle più forti. «Nella mia famiglia siamo tutti calciatori – mi racconta —, mio padre e mia madre, ma anche mio fratello. Tutti. Io non ho avuto problemi, al contrario di altre ragazze, perché ci sono genitori che sostengono che se le ragazze fanno sport non possono rimanere incinte».
La squadra dove gioca sostiene i suoi studi, la mattina va a scuola e il resto del giorno si allena: questa è la sua vita. Prima di entrare in campo, determinata, pronta a dare il massimo, sistema la fascia azzurra che tiene insieme i capelli rasta, poi comincia a correre. La partita inizia con un ritmo molto veloce, entrambe le squadre giocano palla su palla cercando di contrastare l’avanzata delle avversarie, le azioni sono molto concitate con pochissime triangolazioni, forse anche perché i ragazzi e le ragazze della Tanzania vengono da regioni e squadre diverse e non hanno mai giocato insieme. Comunque, corrono da una parte all’altra del campo senza arrendersi mai. La partita delle squadre femminili finisce 0-0, poi si va ai rigori. Dietro la porta e lungo le linee laterali si accalcano i tifosi vocianti, molti agitano bandiere e cartelli, ogni tiro è un boato, ogni parata un tripudio, ogni rincorsa uno spasimo, mentre l’orchestra continua a suonare a ritmi sempre più elevati. L’ultimo tiro finisce alto, sopra la traversa: vince la Tanzania 4-3.
Subito dopo inizia la finale maschile. Prima di entrare in campo i giocatori si raccolgono, alcuni inginocchiati pronunciano una preghiera con un’espressione estatica di raccoglimento interiore. Il gioco è come sempre molto atletico, si corre parecchio, la mezzala kenyana Mohamed Moses è un mediano di spinta e fa un buon lavoro a centrocampo. È quello che ieri mi ha detto che per lui il calcio è stato una salvezza, «non uso droghe, non uso sostanze», mentre molti suoi amici si fanno con le colle sintetiche. Con molta dignità mi ha confessato che suo padre e sua madre sono talmente poveri che con cinque figli da sfamare «ogni giorni provano a portare qualcosa sul tavolo». Lui li aiuta con il piccolo rimborso che percepisce giocando: il suo sogno più grande è trasferirsi in Inghilterra, giocare nell’Arsenal.
Lo vedo che si destreggia con grazia e un elegante tocco di palla, dribbla e scatta in avanti. Si fanno molti lanci, gioco aereo e pochissimi tiri in porta. Gli scontri sono duri, i passaggi spesso imprecisi, il Kenya per tutta la durata del primo tempo sembra più offensivo, ma all’inizio del secondo la Tanzania va in gol dopo una mischia in area: è Yasin Chibwata a mettere la palla in rete. Il pareggio arriva subito dopo con una rovesciata in area di Yahya Msagati «Haaland», nomignolo che gli hanno affibbiato per via della somiglianza di stile di gioco con il nazionale norvegese Erling Braut Haaland, campione del Manchester City. Poi un centrocampista della Tanzania viene espulso per un’entrata a gamba tesa: esce dal campo piangendo.
Ma come talvolta accade, quelli che rimangono in dieci vincono la partita. Infatti, pochi minuti prima del fischio finale dell’arbitro, grazie a un calcio di punizione i tanzaniani siglano il 2-1 definitivo. Il gol della vittoria lo segna Rajab Juma, un ragazzo di grande potenza fisica con il quale ho parlato durante le semifinali. Mi ha raccontato del suo piccolo villaggio nella regione di Tanga dove i giovani sono spesso analfabeti, non vanno a scuola e c’è molta disoccupazione, dove il desiderio più grande – come per molti ragazzi in altre parti del mondo – è fare il calciatore professionista. Si lamentava, come spesso in questi giorni, per il gap generazionale che penalizza i giovani nelle decisioni politiche. «Ma un cambiamento sta iniziando», mi ha detto alla fine Rajab. «Il primo passo è portare la consapevolezza tra i giovani, prendere coscienza di non essere rappresentati e accettare la sfida di provare a contare».
Finita la partita parlo anche con quello che mi hanno detto essere uno dei calciatori più forti del torneo, il kenyano Juma Bakar Jabir. «Abbiamo perso ma è stata una partita combattuta», dice con un po’ di amarezza uscendo dal campo.
Arriva da un villaggio molto povero, senza ospedale, pieno di bande giovanili. «Inalano colla, rubano e uccidono», mi racconta mentre con un asciugamano deterge il sudore. Anche per lui il calcio è stato una salvezza. È un attaccante, sulla maglia ha il numero 11, gioca esterno ma a volte centravanti. Secondo il suo allenatore Lucas Baraka, che lo segue da quando ha dodici anni e crede fortemente nel suo talento, «è molto veloce e versatile, ha anche una forte intelligenza di gioco»; è sicuro che un giorno diventerà un campione. Il suo giocatore preferito è Cristiano Ronaldo, «il mio idolo», dice Jabir sorridendo. Adesso gioca in una squadra professionista di una lega minore che però in questo momento è prima in classifica, spera che presto riusciranno a partecipare al campionato principale, la nostra serie A. «Questa è stata una giornata memorabile – racconta —. Ho incontrato tanti giovani come me che non accettano il degrado dei luoghi dove vivono e vogliono portare valori nuovi alla comunità». Quando gli chiedo qual è il suo sogno non ha dubbi: «Vorrei andarmene da dove vivo, giocare ad alti livelli, entrare in un grande club come il Manchester City», la squadra che lo incantava quando nel villaggio guardava le partite sullo schermo di un vecchio televisore insieme con gli altri ragazzini. Nella squadra dove gioca, dice orgoglioso, è soprannominato KDB, l’acronimo di Kevin De Bruyne, nazionale del Belgio e capitano della squadra inglese che ha appena lasciato, nato da madre africana del Burundi, considerato uno dei centrocampisti più forti di tutti i tempi.