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 2025  maggio 25 Domenica calendario

Tutti i figliocci (letterari) di John le Carré

H.G. Wells, figlio d’un negoziante che vendeva porcellane e mazze da cricket – l’attività fallì miseramente – prima di compiere trent’anni aveva già pubblicato La macchina del tempo, L’isola del dottor Moreau, L’uomo invisibile e La guerra dei mondi. Romanzi immediatamente individuati come classici dal pubblico e dai critici (quasi tutti: Virginia Woolf snobbissima lo considerava un parvenu, letterario e non) sono ancora oggi fonte d’ispirazione per gli scrittori di vari generi, dalla fantascienza all’horror. Se l’influenza di Wells (1866-1946) è difficilmente calcolabile – i suoi libri accolti come opere «di genere» sono diventati classici e rappresentano l’aria che hanno respirato tanti scrittori grandi e piccoli – quella di John le Carré (1931-2020) lo è altrettanto. Ma l’ambiguità che fa battere il cuore dell’opera di le Carré – nulla è quel che sembra nel «mondo segreto» dello spionaggio – ha anche accompagnato il suo rapporto difficile con i critici specialmente del mondo anglosassone, perplessi dal fatto che romanzi di qualità così evidentemente alta avessero immediatamente trovato un pubblico enorme (il suo terzo romanzo, del 1963, è già un capolavoro: La spia che venne dal freddo).
Con la «trilogia di Karla» degli anni Settanta ecco che le Carré diventa uno dei più grandi scrittori tout court di lingua inglese (Philip Roth che lo ammirava moltissimo fu tra i primi a capirlo), che come Graham Greene trascende il «genere», con i personaggi ricorrenti tra un libro e l’altro che potevano sembrare cheap soltanto ai critici che non ricordavano, o peggio ancora ignoravano, La Comédie humaine di Honoré de Balzac che di le Carré è uno dei padri nobili.
Se le Carré ha avuto quattro figli (come Wells), uno dei quali scrittore (Nick Harkaway), la lista dei suoi figli letterari è ottima e abbondante: hanno un evidente debito nei confronti di John le Carré autori come Charles Cumming, Mick Herron, Paul Haggis, Jack Carr, Ned Hayes, Paul Vidich, Olen Steinhauer.
Cumming (1971) è il candidato più forte al titolo, straordinariamente impegnativo, di «nuovo le Carré». Ha onorato spesso il maestro, nelle sue interviste, indicandolo come l’autore che è riuscito a elevare la mera narrativa di spionaggio a letteratura e nei suoi romanzi come The Spanish Game (2006) che resta probabilmente il suo capolavoro (elogiato dal «Times» di Londra tramite un paragone impegnativo con La talpa di le Carré) vediamo tutti gli ingredienti giusti: l’attenzione minuziosa ai dettagli pratici dell’attività di spionaggio, il dominio della situazione geopolitica nella quale si muovono i personaggi, la complessità della trama e l’attenzione da miniaturista alla psicologia dei personaggi. E il suo Alec Milius – solitario, sempre a fare i conti con i suoi limiti – potrebbe essere figlio di Alec Leamas o di George Smiley creati da le Carré. Da giovane, Cumming somigliava anche fisicamente al giovane le Carré, con il quale condivide gli studi in atenei importanti e un reclutamento, poi concluso, nel Mi6.
«È così che funzionano le cose nella strada delle spie: è la tua famiglia che devi davvero temere»: una delle citazioni più famose dai romanzi di Mick Herron, un altro dei figli letterari di le Carré che grazie alla serie di Slough House, diventata un serial, ha raggiunto il successo globale (è tradotto in Italia da Feltrinelli, al contrario di Cumming i cui libri non sono pubblicati nel nostro Paese). Herron ha scritto nel 2019 – uscì sul «Times Literary Supplement» – un breve saggio su le Carré che rappresenta una delle più acute analisi del lavoro del maestro senza fare sconti, per esempio, ai tanti personaggi femminili poco edificanti che ne attraversano la bibliografia. I suoi «Slow Horses», sporca dozzina di agenti del Mi5 caduti in disgrazia e relegati a mansioni umilianti, incarna l’attenzione da entomologo di le Carré sulle fragilità del sistema dell’intelligence, la burocrazia che fa emergere i peggiori, il gioco delle parti che favorisce sempre «i cugini», cioè gli americani. Condivide con le Carré il senso – l’anelito – alla libertà che caratterizza tanti personaggi. Il suo Jackson Lamb, greve e impresentabile alter ego del pacatissimo Smiley, dona crudo realismo ai libri e lo mette indubbiamente sul podio dei candidati più solidi al titolo di nuovo le Carré.
Paul Haggis, premio Oscar per Million Dollar Baby e Crash, non è propriamente uno scrittore di fiction ma ha esplicitamente indicato le Carré come ispirazione per il suo lavoro alla sceneggiatura di Casino Royale. Haggis ha spiegato che La talpa ha indirizzato il suo approccio alla rappresentazione della cruda realtà dello spionaggio, donando realismo al fantasioso mondo di James Bond (le Carrè non amava Ian Fleming, che gli pareva grossolano). Ecco allora nello script di Casino Royale firmato Haggis i toni cupi e l’ambiguità morale di le Carré, il senso del tradimento sempre immanente che va contro la lettera dei testi lasciati da Fleming (con enorme successo al botteghino: 543 milioni di euro d’incasso mondiale).
Jack Carr (1975), americano, ex militare dei Navy Seal e scrittore di thriller, ha elencato L’onorevole scolaro di le Carré (Mondadori) come uno dei tre libri che hanno influenzato il suo romanzo Cry Havoc di prossima uscita negli Stati Uniti.
Altri figliocci? Dall’elenco, anche se non l’hanno mai nominato, non possono mancare l’americano Ned Hayes di Peccatori che ha ringraziato le Carré per avergli insegnato l’enfasi sulla psicologia dei personaggi anche nelle trame di genere; Paul Vidich di Beirut Station per l’attenzione alla geopolitica; Olen Steinhauer (Il turista, Giano) e Joseph Kanon (Omicidio a Istanbul, Omicidio a Berlino e Omicidio a Mosca, Il complice: tutti tradotti da Newton Compton).
Ma chi aveva influenzato le Carré? A parte gli amatissimi tedeschi (Thomas Mann), austriaci (Robert Musil) e i francesi dell’Ottocento, uno dei suoi eroi era Graham Greene. L’americano tranquillo e Il nostro agente all’Avana prendono in prestito le forme dello spionaggio per raccontare storie di complessità morale e profondità psicologica alle quali le Carré guardò sempre come modello. Nel 1996 le Carré elogiò la capacità di Greene di catturare il «fattore umano». Condivideva anche l’interesse di Greene per l’esplorazione del tradimento, e del prezzo personale che le spie pagano. Se Greene fu il modello, l’antitesi fu Ian Fleming che le Carré vedeva come il fumo negli occhi. Memorabile un’intervista alla Bbc del 1966 nella quale demolì Bond come «l’incubo febbrile del sadico» e criticò l’opera di Fleming per la sua mancanza di spessore morale, descrivendola come un’adesione a una visione «consumistica e materialista». Per lui Fleming era solo evasione, intrattenimento fine a sé stesso, il contrario della serietà che le Carré ammirava in Joseph Conrad. L’agente segreto fu un altro dei suoi libri della vita. Ma anche un autore più popolare come Eric Ambler era apprezzato da le Carré: i thriller del periodo prebellico come La maschera di Dimitrios (Adelphi) mostrarono al giovane scrittore l’efficacia narrativa del realismo, le storie di persone comuni intrappolate nello spionaggio. Anche La pratica Ipcress di Len Deighton (Garzanti) orientò la scelta di le Carré di raccontare la versione «operaia» dello spionaggio come lavoro, anche se la finezza dell’introspezione che cercava non era presente nelle ottime macchine narrative di Deighton.