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 2025  maggio 18 Domenica calendario

Il chiurlo

Nel 1939 la Società ornitologica del Nebraska dichiarò la scomparsa del chiurlo eschimese. «È ormai opinione unanime di tutti gli ornitologi competenti che il chiurlo eschimese ( Numenius borealis ) sia sull’orlo dell’estinzione, e molti di loro sono convinti che i pochi uccelli isolati che forse ancora esistono non consentiranno mai alla specie di rimpinguare le fila, e che già fin d’ora sia in pratica un uccello del passato». Come le altre specie di uccelli, anche i chiurli eschimesi – zampe grigie, becco sottile e lievemente ricurvo – almeno fino alla fine dell’Ottocento sembravano inesauribili. Si muovevano in stormi di enormi dimensioni e popolavano in abbondanza il Canada e l’Alaska. Tuttavia, anno dopo anno, sono stati uccisi a milioni e per ragioni incomprensibili. I pescatori, per esempio, usavano metterli sotto sale nei barili, «e nel corso di una sola giornata, venticinque o trenta uomini riuscivano a ucciderne fino a duemila per i magazzini della Hudson’s Bay Company a Cartwright, Labrador». L’ultima volta che un chiurlo eschimese è stato avvistato con un sufficiente margine di certezza era il 1963, a Barbados. Poi più niente.
Alcune notizie sull’estinzione del chiurlo veniamo a saperle da un sorprendente libro di Fred Bodsworth, scrittore e naturalista canadese, pubblicato per la prima volta nel 1955, ora tradotto per Adelphi da Cristiana Mennella e corredato di splendidi disegni. Bodsworth racconta la prodigiosa epopea di uno degli ultimi esemplari di chiurlo, in volo sui continenti, dall’Antartide all’Artide, tra venti e lampi e ogni sorta di scompiglio meteorologico, per portare a termine la sua consegna di specie: trovare una compagna di chiurlo eschimese – e non hudsoniano, di fattezze troppo diverse dalle sue – per non estinguersi. «Nel suo cervello minuscolo e rudimentale si era fatto strada un principio di ragionamento. Perché era sempre solo? Quando il fuoco violento del periodo degli amori ardeva intensamente in ogni cellula, dov’erano le femmine della sua specie che l’istinto gli prometteva a ogni primavera? E adesso che era venuto il momento di formare gli stormi, perché tra le miriadi di uccelli costieri e di altri chiurli non riusciva a riconoscerne neppure uno che fosse piccolo e marrone chiaro come lui?».
Il punto è che il nostro chiurlo non ha nessuno con cui mettersi in viaggio. Non ha uno stormo tutto suo, non ha nemmeno un amico. Il suo istinto si ribella all’idea di volare da solo, ma che può fare? Proverà un’ultima volta a lanciare il suo richiamo nella notte fredda, e se come teme nessuno dei suoi risponderà si metterà in viaggio ugualmente. Oppure potrebbe unirsi a una specie diversa dalla sua per affrontare il viaggio, perché no? Potrebbe accodarsi allo stormo del piviere dorato, compagno di migrazione adatto a lui per velocità di volo e preferenze alimentari, ma soprattutto instancabile e resistente quanto lui. Perché non gli è venuto in mente prima? Lancia così un richiamo, stavolta sommesso giacché non vuole dare l’idea di essere disperato, e attende. I pivieri dorati – un gruppo di 40 o 50 esemplari – non sembrano avere niente in contrario, anzi rispondono con un cicaleccio in coro. È fatta! Non è più solo, almeno per il momento. Lui sa, come sa il piviere dorato, che a differenza degli altri migratori bisognerà evitare le facili rotte, toccherà dirigersi a est, verso le coste rocciose di Terranova e del Labrador, o della Nuova Scozia, e poi puntare a sud, passando sopra l’Atlantico e percorrendo quattromila chilometri senza scalo. In 48 ore raggiungeranno le coste settentrionali del Sudamerica, e se alla partenza avevano il petto gonfio e tondo, all’arrivo si ritroveranno scarni e con ossa sporgenti. In tre giorni perderanno oltre un terzo del peso, ma non importa, quel che conta è la meta, quel che conta è riuscirci.
«Il chiurlo mantenne la rotta verso sud. Quando le colline ondulate del Labrador scomparvero alle spalle, venne meno l’ultimo punto di riferimento, ma lui continuò a guidare lo stormo con precisione infallibile. Da qualche parte nel gioco cosmico delle forze generate dalla rotazione terrestre e dal campo magnetico c’era una sorta di navigatore con il quale certe parti nascoste del suo cervello erano sottilmente sintonizzate. Teneva la direzione con naturalezza, senza uno sforzo consapevole. Un istinto cieco, millenario, compiva subconsciamente un’impresa che non era alla portata delle coscienze più sviluppate del mondo animale». Il chiurlo di Bodsworth non ha l’audacia, la sfrontatezza, la spasmodica fame di libertà, o la baldanza, di Jonathan Livingston. Però è un personaggio altrettanto memorabile, un esserino del vento non audace, ma tenace, torturato come tutti noi dall’angoscia della solitudine, felice fino quasi a commuoversi quando, giunto alla meta, finalmente trova la sua compagna, anche lei venuta da grandi lontananze senza sapere cosa cercare. Ed è proprio nelle pagine che raccontano l’incontro e la nascita di questo amore, a lungo sognato e cercato, che Bodsworth rivela le indiscutibili doti di narratore.
«Il chiurlo stava mangiando alacremente in riva al mare... un attimo dopo la femmina era lì, a meno di un metro da lui, così vicina da poter distinguere ogni singola penna delle ali, rimaste tese subito dopo l’atterraggio... Quel riconoscersi non implicava un ragionamento. Fu istantaneo e intuitivo. Fu la combinazione fra voce, postura e movimenti dell’altro uccello, non il suo aspetto, a segnalargli all’istante che era arrivata la compagna». Nessuno dei due ha mai visto un membro della propria specie né sa come muoversi, ma quando si ritrovano l’uno accanto all’altra qualcosa che li precede li aiuta: la memoria ancestrale, per meglio dire l’istinto delle generazioni passate facilita e incoraggia il riconoscimento tra di loro. «Quando scese il buio atterrarono sul fianco erboso di un pendio e dormirono vicini, i colli che quasi si sfioravano. Per il maschio fu come rinascere e iniziare una nuova vita. (…) Chiacchieravano al buio, costantemente, scambiandosi soavi note sussurrate... e il maschio cominciò a dimenticare di aver conosciuto lo strazio della solitudine. Incontravano moltissimi pivieri, ma erano così appagati dalla reciproca compagnia che si bastavano e non tentavano di unirsi a uno stormo più grande. Di solito volavano da soli».