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 2025  maggio 18 Domenica calendario

La mafia è tornata all’antico

Il 29 marzo 2023 Luca Bellomo – nipote acquisito di Matteo Messina Denaro per avere sposato Lorenza Guttadauro, figlia della sorella del boss Rosalia – entrò in una pescheria di Palermo. Suo zio era stato arrestato da poco più di due mesi, lui l’avevano scarcerato da un paio di settimane dopo dieci anni di pena scontati per averne curato gli interessi economici durante la sua trentennale latitanza.
La pescheria era di Renzo Lo Nigro, già condannato per mafia e tornato in libertà ad agosto 2021, di nuovo sotto indagine e intercettato dalla polizia. Bellomo cercava lui, ma quando lo vide Lo Nigro non lo riconobbe.
«Gli ho detto “Chi sei?”. Minchia, appena ha detto “Luca” ho fatto un salto sulla sedia!», raccontò la sera a sua moglie.
Il colloquio tra i due non venne registrato perché dopo i saluti si allontanarono per una passeggiata lasciando i telefonini nel negozio, ma a sua moglie Lo Nigro fece un rapido resoconto. Luca Bellomo gli spiegò che Castelvetrano e Campobello di Mazara erano sottosopra dopo l’arresto di Messina Denaro: «Dice “c’è un casino, fortunatamente io sono qua a Palermo, perché perquisizioni... case rotte... muri buttati a terra... stanno distruggendo tutte cose là...”. È venuto a prendere un poco di pesce per suo suocero».
Il suocero è Filippo Guttadauro, trattenuto in misura speciale detentiva per la sua «pericolosità sociale» dopo aver esaurito la condanna a 18 anni per mafia.
«È in carcere pure lui?», domandò la moglie di Nigro. «Tutta la razza! Tutti arrestati sono!», rispose il marito. «Lui lo voleva pagare il pesce, ma io gliel’ho regalato, “la prossima volta paghi, però oggi ho piacere io”».
Convenevoli e cortesie a parte, la visita di Bellomo a Lo Nigro aveva uno scopo: «Dice “sono venuto subito perché a Palermo l’unica persona che voglio vedere sei tu”...». Aveva da riferirgli un’ambasciata ricevuta in cella, prima di uscire, da Giovanni Musso, un capomafia del quartiere Noce legato a Lo Nigro, a proposito di un bene che gli avevano confiscato: «Dice... c’era il discorso di un forno... ora mi devo informare com’è».
A due anni da quel colloquio, Bellomo è ancora libero, mentre Lo Nigro è tornato in carcere, arrestato ad aprile con l’accusa di «avere fatto parte del mandamento mafioso della Noce e avere, tra l’altro, partecipato a riunioni aventi ad oggetto lo scambio di informazioni e la programmazione di attività criminali». Nel conto degli indizi, per dimostrarne il calibro all’interno di Cosa nostra, c’è pure l’incontro con il nipote di Messina Denaro.
La ristrutturazione
È una delle immagini che fotografa lo stato della nuova mafia, all’indomani della cattura e morte dell’ultimo stragista rimasto in circolazione. Che aveva avviato la sua ristrutturazione da prima, quando il padrino di Castelvetrano era uccel di bosco e continuava a far valere il proprio ascendente criminale. Oggi viene ricordato quasi esclusivamente per le donne da cui era circondato e amato, smascherate una dopo l’altra come altri presunti complici, ma i misteri legati alla sua figura e al suo potere sul territorio restano tanti. A cominciare da chi, dove e come ha amministrato il «tesoro» (di soldi, imprese, immobili e forse carte segrete, come il famoso o fantomatico «archivio di Totò Riina», del quale non s’è trovata traccia) che gli ha consentito una vita da fuggiasco tanto duratura.
Matteo Messina Denaro era diventato il simbolo vivente e nascosto della mafia stragista e imprendibile, caduto davanti alla clinica dov’era costretto a curare la malattia che l’ha ucciso dopo appena otto mesi trascorsi in galera. Ma non era il capo della mafia, come spiegarono i magistrati di Palermo subito dopo il suo arresto, perché la mafia da tempo non ha più un solo capo. Da Riina e Provenzano in poi, i due corleonesi che uno a suon di bombe e omicidi, l’altro con il suo carisma persuasivo, erano riusciti a tenere tutti sotto controllo; compreso Messina Denaro, che dopo aver assecondato gli impulsi sanguinari di Riina continuava a rivolgersi a Provenzano con deferenza e rispetto, anche quando aveva rimostranze da fare.
Oggi è tornato tutto come prima del «golpe» corleonese e delle stragi del 1992-1993, e chiedersi chi è il nuovo capo di Cosa nostra dopo la capitolazione del boss invisibile non aiuta a capire. Perché di capi – sebbene «piccoli capi», rispetto a quelli del passato – ce ne sono tanti (e ce n’erano già prima). Che comandano o aspirano a farlo; tentano di ricostituire la vecchia Cupola sebbene vengano ogni volta bloccati da arresti e sentenze; provano a sfruttare le nuove tecnologie (ad esempio le chat criptate, anche con chi è in carcere) per amministrare gli affari a distanza e senza pestarsi i piedi; alimentano il ciclo mafioso riprendendo traffici e trame a ogni «fine pena», come se niente fosse; fanno valere le vecchie regole e cercano di risolvere i conflitti evitando spargimenti di sangue, anche se a volte qualche morto ci scappa.
«C’è una nuova leva di mafiosi e potenziali mafiosi che sta prendendo piede», ha avvertito il procuratore di Palermo, Maurizio De Lucia, dopo l’operazione che a febbraio ha portato alla cattura di 181 persone, metà delle quali con meno di quarant’anni d’età. Significa che ai tempi degli attentati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano bambini, cresciuti con la fascinazione della mafia stragista che sembrava invincibile e invece è stata vinta, e ora ne hanno riscoperto le origini meno rumorose ma ugualmente inquinanti e perniciose.
Folla di questuanti
Renzo Lo Nigro non aveva compiuto vent’anni quando esplosero le bombe di Capaci (23 maggio 1992) e via D’Amelio (19 luglio 1992), e dagli indizi a suo carico emerge un approccio alla Cosa nostra del XXI secolo paragonabile a un contropotere ancora forte e percepito sul territorio, ma senza creare il trambusto che la fece diventare un’emergenza nazionale. Tanto da indurre la giudice di Palermo che l’ha rispedito in galera a lanciare uno sconfortato allarme per «la sopravvivenza della mafia tradizionale, intesa quale riflesso di un’autorità che promana dal sodalizio criminale, grazie alla connivenza complice di una parte della popolazione, rappresentata dalla pletora di questuanti che si rivolgeva a Lo Nigro e altri per avere soddisfatte le proprie piccole grandi istanze: dal proprietario di immobili che li voleva liberati dagli affittuari morosi alla ragazza che si voleva vedere agevolata dall’agenzia immobiliare, superando altri interessati all’affitto dello stesso appartamento; dalla coppia che aveva litigato a scuola con il padre di un altro bimbo ai soggetti che, vantando crediti non soddisfatti dai propri debitori, volevano ottenerne subito il pagamento; per finire con i vari individui interessati alla gestione di un’attività commerciale, e dunque ad aprire una pizzeria o un negozio, interessati ad avere un’entratura di tipo mafioso e la relativa autorizzazione». È la descrizione impietosa e inquietante di «una mafia al tempo stesso arcaica ma modernissima, a cui si demanda il compito di risolvere, velocemente e senza attivare procedure legali, le più svariate problematiche, in una prostrazione della dignità e abdicazione al rispetto dei propri diritti davvero sconsolante, indicativa di un preoccupante degrado sociale».
«I soli a risolvere problemi»
Tornato in attività dopo la parentesi detentiva, un emergente come Lo Nigro aveva affrontato i conflitti interni alla reggenza del mandamento della Noce senza contrapposizioni frontali, fingendo di volere rimanere fuori dai giochi: «Loro devono sapere che ne sono uscito... non voglio confidenza da nessuno», diceva alla moglie, magari immaginando di essere intercettato ma tessendo al tempo stesso alleanze con un boss scarcerato nel 2022, Carlo Castagna, e riallacciando attività nel quartiere. Adoperandosi per soddisfare le esigenze di chi gli chiedeva una mano, come ha riassunto la giudice, che in fondo è un po’ la «ragione sociale» della mafia, fondata sulla ricerca del consenso. Ma anche dedicandosi a nuovi affari: l’acquisizione della pescheria, tramite prestanome e una società occulta; l’imposizione delle proprie forniture e l’intimazione ai concorrenti a farsi da parte; l’esazione del «pizzo» da altri commercianti della zona («Informati chi sono!», gridò a un tabaccaio che pensava di essere al sicuro grazie alla parentela con un altro mafioso); l’avvio di uno spaccio di droga parallelo e alternativo rispetto a quello gestito dal clan: «Gli diamo dieci grammi... gli diamo la stessa per come è... dobbiamo rompere la piazza a quelli», diceva a Castagna, che appena tornato libero s’era messo al suo fianco nel recupero crediti e nell’elargizione di benefici ai «questuanti».
Intercettato mentre parlava con una coppia che gli aveva chiesto appoggio per l’acquisto di una pizzeria, nel giugno 2023 Castagna s’è lasciato andare ad un’esclamazione forse eccessiva ma sintomatica della propria influenza e autoconsiderazione: «La Noce è mia! È di proprietà mia!». Ottenendo il riconoscimento da parte della donna: «Siete le uniche persone che riescono a risolvere tutti i problemi! Mi dispiace ma è così».
Una capacità esercitata attraverso la forza di intimidazione e il rispetto dei precetti mafiosi. Come il mantenimento dei detenuti e dei loro familiari, di cui pure Lo Nigro ha beneficiato quando era dietro le sbarre: «Cento lire a me non mi sono mancate mai». E prima di chiedere la tangente al tabaccaio s’era premurato di non interferire con le pretese di altri: «Mi sono informato e dice “via libera, non appartiene... non ci interessa a noi...”».
Ma è anche una condizione che qualcuno contesta all’interno della stessa organizzazione. Perché sono comunque tempi di «vacche magre» rispetto ai guadagni di una volta, e c’è chi non se ne capacita.
Ideali e sparatorie
Giancarlo Romano era un capomafia in ascesa del quartiere Brancaccio, dove un tempo regnavano i fratelli Graviano che ora scontano l’ergastolo al 41 bis per le stragi commesse quando lui non andava nemmeno alle elementari. Nell’ottobre 2023 gestiva il racket delle scommesse abusive online, ma inseguiva gli ideali di una Cosa nostra molto più grande e potente di quella in cui si trovava immerso. «Oggi il livello è basso, arrestano a uno e si fa pentito», si lamentava con l’amico Alessio Caruso, suo braccio destro appena ventiseienne. «Livello misero, basso... Siamo troppo bassi, siamo a terra ragazzi, non a terra noi come zona, tutta Palermo è a terra... Noi pensiamo che facciamo il business, oggi sono altri... Quelli si fanno il business, noi siamo gli zingari... Ma tu devi campare con la panetta di fumo, cioè così siamo ridotti? Le persone di una volta, quelli che disgraziatamente sono andati a finire in carcere per tutta la vita, ma che parlavano della panetta di fumo? Cioè, se ti dovevano fare un discorso di fumo, te lo facevano perché doveva arrivare una nave piena di fumo... Se tu parli con quelli che fanno business ti ridono in faccia, ma questo business è?».
Romano si rammaricava perché pensava di essere di un’altra pasta: «Noi abbiamo dei valori, e io sono pronto a fare una guerra come Saddam Hussein... Abbiamo degli ideali nostri, che non li facciamo morire mai, perché in futuro noialtri preghiamo il Signore che certe cose non finiranno mai... Siamo noi contro lo Stato, perché siamo contro la polizia...». E nella sua testa, almeno a parole, aveva grandi progetti criminali, di più alto livello: «Io spero sempre nel futuro, in tutta Palermo», diceva a Caruso. «Ti devi fare il cervello tanto... perché noi dobbiamo crescere... A scuola te ne devi andare... Conoscerai dottori, avvocati, quelli che hanno comandato l’Italia, l’Europa... Per dire quando si parla dei massoni, i massoni sono gente con certi ideali ma messi nei posti più importanti... Se tu guardi Il Padrino, il legame che aveva... non era il capo assoluto... lui è molto influente per il potere che si è costruito a livello politico nei grossi ambienti».
Affermazioni che fanno il paio con quelle di Gioacchino Badagliacca, il quarantottenne fresco di una nuova condanna a 16 anni di galera che intercettato nel 2022 diceva, sincero o meno che fosse: «Io non ho mai creduto nella Cosa nostra a fini di lucro... per nobili principi, per me questo è Cosa nostra... Ci ho sempre creduto dal profondo del mio cuore, e mi sono fatto dieci anni di carcere»; con la benedizione dello zio Pietro, oggi ultraottantenne: «Ti giuro sull’onore di Cosa nostra... è superiore alla famiglia privata».
Oggi Gioacchino e Pietro Badagliacca sono entrambi reclusi, destino a cui s’erano votati quasi con rassegnazione, mentre Giancarlo Romano – nonostante sognasse in grande e aspirasse a vestire i panni di don Vito Corleone – ha fatto una brutta fine. Cinque mesi dopo i suoi proclami registrati da una microspia dei carabinieri, il 27 febbraio 2024 è stato ammazzato in un conflitto a fuoco da Far West nel quartiere dello Sperone che confina con Brancaccio. Rivendicava un credito di qualche migliaio di euro da una famiglia che gestiva il gioco clandestino, e aveva mandato Caruso a picchiare uno dei componenti. Il quale, subito dopo, andò insieme al padre in una tabaccheria per sparare a Caruso, ma colpirono un cliente per errore e fuggirono. A quel punto partì l’ulteriore spedizione punitiva di Caruso e Romano, culminata in una sparatoria dove però gli aggressori ebbero la peggio: Romano morto sul colpo e Caruso ferito gravemente. Sei giorni dopo, in ospedale, gli fu recapitato un ordine di arresto che avrebbe raggiunto anche Romano se fosse rimasto vivo, insieme ad altri compici. Le accuse rivolte a Caruso di traffico di stupefacenti e estorsione (anche nei confronti di alcuni commercianti che negavano di aver subito le richieste del «pizzo», e per questo sono finiti sotto processo), condite dall’aggravante del metodo mafioso, gli sono valse nel marzo scorso la condanna in primo grado a dodici anni di carcere.
’Ndrangheta e albanesi
La droga resta un punto fermo degli affari di Cosa nostra, al quale sono legati gli «uomini d’onore», i più consumati e i giovani ancora aspiranti. In ogni blitz delle forze di polizia c’è un capitolo dedicato al commercio di hashish, eroina o cocaina, realizzato grazie agli agganci con altre organizzazioni criminali che nel frattempo hanno conquistato le prime posizioni in questo settore. A partire dalla ’ndrangheta e dai clan albanesi.
Da anni la mafia non ha più il controllo diretto del commercio internazionale degli stupefacenti, ma continua a inseguire quel business che resta tra i più fruttuosi. Come dimostrano le vicende di Giuseppe Guttadauro soprannominato ’u dutturi, già medico all’ospedale Civico di Palermo, che si appresta a compiere 77 anni il prossimo agosto. Scontando la quarta condanna per associazione mafiosa arrivata nel 2023, dopo quelle inflittegli nel 1997, nel 1999 e nel 2007. L’ultima l’ha subita per avere fatto parte, coadiuvato dal figlio trentaseienne Carlo Mario, di Cosa nostra e «segnatamente della famiglia di Roccella, occupandosi delle problematiche più delicate che hanno coinvolto la gestione del mandamento di Villabate-Bagheria, contribuendo alle attività illecite degli affiliati, in particolare nel settore delle sostanze stupefacenti, intrattenendo rapporti con altri esponenti mafiosi a cui ha delegato lo sviluppo della vita operativa della consorteria criminale nonché intervenendo nella risoluzione, con modalità illecite, di diverse problematiche anche a carattere economico».
Di droga ’u dutturi discuteva nel 2018 – a Roma, ai bordi della Piscina delle Rose all’Eur, intercettato dai carabinieri del Ros – con il narcotrafficante albanese Besart Bersni Memetaj, al quale chiedeva: «Ma tu, chi è che ti fa fare affari... come sei combinato? Tu sei forte? Come persone... come famiglia siete forti?». E quello assicurava: «Siamo molto forti come famiglia».
Guttadauro raccontava dei suoi contatti calabresi e proponeva il trasporto aereo di piccoli quantitativi, dieci chili alla volta, tramite uno steward dell’Alitalia a lui fedele, ma l’albanese ribatteva di avere ben altre disponibilità: «Noi abbiano lo scarico preciso a Rotterdam... gli amici nostri... questi salgono mille chili al mese... mille chili al mese sono sempre... sono assai».
«Ti devi evolvere»
La stessa microspia dell’Arma, sempre nel 2018, registrò altre conversazioni nelle quali ’u dutturi ricordava al figlio Francesco i danni fatti a Cosa nostra da Totò Riina spodestando il vertice dell’organizzazione a suon di morti ammazzati: «Quello una bestia era! E ha combinato quel fatto... È finita, ha distrutto tutte cose... ormai...». Poi, proseguì, arrivò la mazzata del maxi-processo a completare la fine della vecchia mafia, che non si riuscì a evitare nonostante le garanzie promesse da un politico compiacente come Salvo Lima. Assassinato nel marzo 1992, come prologo alle stragi.
Il figlio Francesco ribatté che «deve nascere uno scienziato per fare... ci vuole uno scienziato vero per riordinare “i giocattoli”», ma suo padre non era d’accordo, argomentando come fosse inutile inseguire gli antichi fasti. Meglio adeguarsi ai tempi; anzi, evolversi: «Ti devi evolvere hai capito? Il problema è rimanere con quella testa... ma l’evoluzione».
È la mentalità mafiosa di un vecchio boss come Giuseppe Guttadauro che ricalca quella del giovane Giancarlo Romano, il quale evocava le gesta del Padrino ma è finito ammazzato in una lite da qualche migliaio di euro; e di Renzo Lo Nigro, a cui si rivolgevano gli abitanti della Noce per risolvere i propri problemi, confidando più nella cosca che nello Stato. E che regalava il pesce al nipote di Matteo Messina Denaro, per portarlo in carcere a suo suocero, Filippo Guttadauro. Il fratello di Giuseppe ’u dutturi. Intrecci di aristocrazia mafiosa e onorata società, che aiutano a dare peso alla Cosa nostra di ieri e futuro a quella di oggi.