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 2025  maggio 18 Domenica calendario

I manager contano più dei pusher

Quando scoppiò la faida di Scampia, Procura, carabinieri e polizia scoprirono durante le indagini quanto fosse smisurato l’impero economico del clan Di Lauro, ma anche quello degli scissionisti che con i Di Lauro avevano fatto affari per anni e poi se ne erano allontanati scatenando la guerra. Il cartello Amato-Pagano aveva fatto investimenti in Spagna, non soltanto creando basi strategiche per l’importazione della droga, ma anche immettendo enormi capitali in attività imprenditoriali.
Oggi dall’inizio di quella guerra che causò oltre cento morti sono passati più di vent’anni, ma la camorra potrebbe nascondere qualcosa di simile a ciò che c’era a Scampia prima che si iniziasse a sparare: un’altra enorme cassaforte imbottita di milioni della quale non si ha ancora sufficiente contezza e che è quindi difficile attaccare con sequestri e confische.
Ciò non significa che il potere camorristico a Napoli e dintorni abbia segreti per inquirenti e investigatori. Chi comanda e dove è noto, e nota è la direzione da dare alle indagini. Oggi la città è divisa tra due grandi clan. Anzi, per meglio dire, ce n’è uno che esprime una enorme potenza sia economica che nel controllo del territorio: il cartello denominato Alleanza di Secondigliano, che comprende famiglie di camorra storiche come i Mallardo, i Contini-Bosti e i Licciardi. Altre zone restano invece nelle mani del clan Mazzarella, altro sodalizio la cui nascita risale a quando la camorra faceva affari soprattutto con il contrabbando di sigarette, e cioè a poco più della metà del secolo scorso.
Oggi gli interessi di quelli che comandano – tanto tra i Mazzarella quanto nell’Alleanza – vanno invece in direzione dell’economia legale. Nel solo 2024 per frenare i tentativi di infiltrazione dei clan, il prefetto di Napoli Michele di Bari ha emesso 203 interdittive antimafia, e soltanto un ricorso (su 93 presentati) è stato accolto dal Tar che ha annullato il provvedimento.
Una ulteriore prova di come la camorra punti ormai soprattutto ai soldi puliti. Investendo i propri capitali, scrive la Dia nell’ultima relazione semestrale presentata al Parlamento, in attività come l’edilizia, gli appalti pubblici (molto ambiti quelli per le attività di pulizia e ristorazione negli ospedali), la grande distribuzione, bar e ristoranti, il commercio dei carburanti, la gestione dei rifiuti e perfino l’assistenza socio-sanitaria e il terzo settore. E non solo. Dalle più recenti indagini antimafia emergono altri settori sui quali la camorra ha messo le mani. Come le cosiddette «società cartiere», che consentono – scrive la Dia – «l’emissione di fatture per operazioni inesistenti allo scopo di riciclare denaro o realizzare frodi fiscali, truffe assicurative, nonché ottenere il controllo delle aste fallimentari e delle procedure di esecuzione immobiliare».
È in questo mondo che sono concentrati gli interessi dell’Alleanza di Secondigliano e dei Mazzarella. Dei quali, in una recente ordinanza di custodia cautelare richiesta dalla Dda di Napoli, il gip scrive che pur essendo stati «in passato contrapposti», oggi hanno «relazioni di coesistenza, cooperazione e integrazione nelle rispettive attività illecite».
Insomma, gli affari vengono prima delle rivalità. E gli affari oggi sono questi. Piazze di spaccio ed estorsioni sono diventate materia delegata alle tante famiglie che in ogni quartiere controllano territori a volte grandi anche quanto una sola strada e che vivono come satelliti dei clan principali. Lì le rivalità non soltanto rimangono ma sono anche ben viste dai vertici dell’organizzazione.
Non è un caso che i giovanissimi abbiano facoltà di invadere il territorio degli altri portandosi dietro le pistole e sparando anche quando non è necessario. Quelle scorribande non sono sbruffonate di ragazzini che giocano a fare i camorristi. Sono segnali che i clan si scambiano mandando allo sbaraglio i più inesperti. Salvo poi, se qualcuno dovesse rimetterci la pelle, punire il responsabile. Come è accaduto per la morte di Emanuele Tufano, quindici anni, ucciso durante un’incursione di ragazzi del Rione Sanità (controllato da famiglie che fanno riferimento all’Alleanza) nella zona del Mercato (territorio dei Mazzarella). Emanuele stava con il gruppo della Sanità e a sparargli, involontariamente, fu uno dei suoi amici. A quel punto nel Rione è stata fatta una sorta di indagine interna, e poiché non si è riusciti comunque a individuare chi aveva fatto l’errore fatale, si è deciso di uccidere in ogni caso uno dei partecipanti a quel raid, scegliendo l’unico che non aveva legami di parentela con le famiglie che nella zona contano di più. Tutto è stato deciso all’interno della Sanità, senza coinvolgere i capi del cartello. Perché i l quartiere è dei quartieran i, si dice a Napoli. E i grandi clan hanno fatto proprio questo detto, ma non certo per generosità: solo perché in altre e più grandi operazioni c’è da guadagnare molto di più.
L’arricchimento è da sempre l’unico interesse delle mafie, ma a Napoli c’è un ulteriore motivo. La camorra sta provando a ripulirsi anche per farsi trovare pronta semmai dovesse partire davvero il progetto Bagnoli. Un intervento che si propone di cambiare radicalmente volto a una parte della città dovrà necessariamente portare da queste parti quantità di denaro paragonabili solo a quelle che scorsero a fiumi per la ricostruzione del dopo-terremoto. Ed è noto come la camorra si mobilitò per entrare in quella partita. Allora ci riuscì, e sappiamo come è andata. Stavolta lo Stato non potrà permettersi di fare arrivare i propri soldi nelle tasche sbagliate, e certamente il monitoraggio di ogni concessione dovrà essere accuratissimo. Ma anche la camorra non vorrà permettersi di restare spettatrice dove si sente padrona di casa. E se nel frattempo sarà riuscita a creare società presentabili anche ai più alti livelli imprenditoriali, avrà più chance di bucare i controlli.
È come se ci fosse un doppio livello di interesse. La camorra si fa imprenditrice perché il futuro è nelle operazioni apparentemente lecite, e quindi lo farebbe anche se all’orizzonte non ci fosse la speranza di inserirsi in un affare che capita una volta ogni cinquant’anni, se capita. E lo fa anche perché la faida di Scampia (che in realtà sono due, perché dopo quella del 2004 tra Di Lauro e scissionisti, ce n’è stata anche un’altra nel 2012 tutta interna agli scissionisti) ha insegnato che a spararsi continuamente si perde tutti. Oggi i superstiti di quella guerra, da una parte e dall’altra, devono accontentarsi di piccole cose. Mentre a Scampia le piazze di spaccio non esistono più e sono state smantellate quasi tutte anche al Parco Verde di Caivano, dove si erano trasferite.
Insomma, la droga è sempre un business ma i manager possono far arricchire più dei pusher. Non tutti i clan, però, hanno i numeri per riconvertirsi in aziende dove i broker sono broker per davvero, e gestiscono operazioni finanziarie e non partite di cocaina.
Non tutti, ma alcuni sì. E il clan che sicuramente potrebbe permettersi anche in questo momento di sedersi a qualunque tavolo dove ci sia da puntare altissimo è quello dei Moccia di Afragola, che controllano l’intera provincia a nord di Napoli, fatta di paesi come Afragola, Casoria, Crispano, Caivano, Frattamaggiore, Frattaminore, Cardito e Arzano. E che pur avendo quindi in Campania un’influenza territoriale vastissima, hanno investito gran parte dei loro capitali lontano da Napoli, soprattutto a Roma. Oggi oltre che un clan i Moccia possono essere considerati una holding, e la loro potenza organizzativa ed economica è tale che gli investigatori continuano a inquadrarli tra le cosche più potenti in assoluto, nonostante negli ultimi anni abbiano subito centinaia di arresti e confische che avrebbero mandato in crisi qualunque altra organizzazione camorristica. Solo a Roma ci sono oggi quattordici ristoranti – dati in gestione a imprenditori del settore – che una volta appartenevano ai Moccia. E non è che stavano oltre il Raccordo Anulare o nei quartieri di nuova costruzione: erano in pieno centro storico. Un esempio: in via di Tor Millina, cinquantasette metri da piazza Navona, i Moccia avevano tre ristoranti e una gelateria: tutto confiscato. Insieme a società satellite e attività di commercio all’ingrosso. E chissà che cos’altro c’è che finora è sfuggito agli investigatori.
Perché certo i Moccia a Roma hanno un profilo ben diverso da quello di Michele Senese, il pazzo, il camorrista sicuramente più noto della Capitale, afragolese anche lui e formatosi proprio nel clan del suo paese, dove fin da giovanissimo mostrò di avere i numeri per diventare un capo. E infatti lo è diventato, e pure se sta in carcere continua a comandare attraverso il suo uomo di fiducia, Peppe Molisso. Ma quello di Senese è un clan che si muove prevalentemente sugli scenari criminali abituali della malavita romana: soprattutto droga, poi estorsioni e altri traffici illeciti. E omicidi.
I Moccia sono invece in un’altra dimensione: quella dei camorristi imprenditori. Che, chiaramente, sempre camorristi rimangono, e quindi se a Roma riciclano grandi capitali in attività legali e stringono legami (come emerso in alcune inchieste) con altri gruppi imprenditoriali o finanziari non di provenienza criminale, ad Afragola e in tutti gli altri centri in cui comandano, continuano ad accumulare ricchezza con i metodi tradizionali dei clan. Senza però esporsi direttamente. I Moccia, secondo quanto emerso dalle indagini della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, hanno creato da tempo una sorta di confederazione camorristica composta da numerosi gruppi minori, formati in qualche caso anche da una sola famiglia, e dotati ciascuno di una ben definita competenza territoriale e un’ampia (ma non totale) quota di autonomia.
Detta così potrebbe sembrare qualcosa di simile all’organizzazione dell’Alleanza di Secondigliano, dove ai clan di vertice fanno riferimento piccole cosche – anche in quel caso spesso famiglie – che gestiscono quartieri e singole strade. Ma la struttura messa in piedi dai Moccia è diversa, ed è bene illustrata in un’ordinanza di custodia cautelare contro quarantacinque affiliati accusati di associazione mafiosa e altri reati. In quel provvedimento il gip delinea la forma piramidale dell’organizzazione, e parla di «aggregato di plurimi gruppi criminali locali, ciascuno dei quali guidato da un “senatore”. I rapporti con la base del gruppo sono curati da “luogotenenti”, legati al “senatore” da un vincolo fiduciario. I “senatori” sono tenuti a rendere conto del proprio operato a un superiore, che funge da “coordinatore”, nominato direttamente dalla famiglia Moccia e loro referente diretto».
È questa capacità di governare un esercito criminale di proporzioni enormi in un territorio vastissimo abitato da circa trecentomila persone, che ha fatto dei Moccia una delle famiglie criminali più potenti e più ricche non solo della provincia di Napoli e non solo della Campania ma dell’Italia intera. Ecco perché negli uffici della Procura guidata da Nicola Gratteri i magistrati della Dda sanno che la grande scommessa di rigenerazione urbana e risanamento ambientale di Bagnoli sarà da vincere anche per la difesa della legalità.
E sanno anche che il mostro camorristico ha molte teste, e qualcuna potrebbe anche non essere stata ancora fotografata in ogni dettaglio. Il pensiero, in questo senso, va soprattutto al Rione Traiano, periferia che guarda verso quella parte di area flegrea non affacciata sul mare. Case popolari come si facevano negli anni Cinquanta – quindi senza le fallimentari pretese architettoniche di Scampia, nata una quindicina di anni più tardi – il Rione Traiano è al centro tra i quartieri di Pianura e Fuorigrotta, dove da qualche tempo si è cominciato a sparare, segno che ci sono equilibri criminali da ridefinire.
Al Rione Traiano invece no, al Rione Traiano si fanno affari, e si fanno soprattutto – se non esclusivamente – con la droga. Qui le piazze di spaccio, ma soprattutto il rifornimento di grossi quantitativi ai clan di altri quartieri, hanno resistito a operazioni che hanno portato in carcere trenta o quaranta affiliati per volta. Anche a Scampia era così prima della faida. Ed ecco perché c’è il sospetto che il Rione Traiano sia diventato un altro forziere della camorra. E che da quelle parti ci sia qualcuno pronto a inventarsi imprenditore capace di sbaragliare la concorrenza con vagonate di milioni.