Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  maggio 24 Sabato calendario

Umberto Eco: "Le parole politicamente corrette sono la vera rivoluzione americana"

Intervista pubblicata su Tuttolibri nel 1993
Ci sono situazioni che nascono magiche. Per esempio quando Umberto Eco parla di Italo Calvino ci accorgiamo che Giovanna, giovane figlia dello scrittore, è qui con noi in mezzo alla folla. E quando sta per andare in scena La scoperta dell’America dal Diario Minimo di Umberto Eco, interpretata da quattro attori di Broadway diretti da Arnold Weinstein, noto che l’attore principale, Gary Goodrow è lo stesso che, esattamente trent’anni fa, appariva nella foto di copertina del mio primo libro, Nuovo Teatro Americano, che Umberto Eco, allora direttore editoriale, aveva pubblicato da Bompiani.
Siamo nella sala dell’Istituto di Cultura di New York, gremita all’inverosimile, fino alle scale e all’atrio che dà su Park Avenue. Quasi tutti giovani, in gran parte americani. Sono venuti ad assistere a un «dialogo in pubblico» con Umberto Eco. Ne ha parlato il New York Times e questo spiega la folla. Ci sono due occasioni per questo «dialogo in pubblico». Uno è l’invito ad Harvard. Umberto Eco è il primo italiano a divenire titolare delle celebri Norton Lectures. L’altra è la pubblicazione americana del primo Diario Minimo, che esce col titolo Misreadings. Quel libretto, pubblicato per la prima volta in Italia nel 1963, era la raccolta di note e frammenti apparsi sulla rivista letteraria Il Verri fra la fine degli Anni Cinquanta e l’inizio degli Anni Sessanta. Dunque il primo materiale biografico sulla vita di Umberto Eco. Parte di qui il nostro dialogo.
Quanto conta la vita nell’opera di un autore? Tu, nelle tue Norton Lectures, che hai intitolato “Una passeggiata nel bosco narrativo”, dici che la biografia conta poco, che si può analizzare un’opera ignorando del tutto la vita del suo autore. Eppure “Diario Minimo” è il giornale della tua vita quotidiana a Milano, quando ci siamo arrivati insieme, tu da Alessandria, io da Torino, e di giorno lavoravamo in televisione e la sera vedevamo Luciano Anceschi, Luciano Beno, John Cage, i Novissimi, i protagonisti dell’Avanguardia che stava per nascere...
«Se c’è un rapporto tra la mia vita di allora e quella di adesso, allora la chiave è questa. Ho scritto due romanzi di idee filosofiche. E un certo numero di saggi pieni di spunti narrativi. Ti ricordo quello che il professor Guzzo ha detto durante la discussione della mia tesi di laurea, “Il pensiero estetico in San Tommaso”. Guzzo ha detto: “C’è una brillante immaturità in queste pagine. L’autore ha scritto un trattato filosofico con tecnica narrativa, conduce una serie di indagini, segue molte piste e giunge ad una conclusione, come se fosse un thriller”. Guzzo aveva ragione. Io credo che tutti i miei romanzi siano saggi e tutti i miei saggi siano romanzi. Certo, se vogliamo parlare di vita qui, in Diario Minimo, ci sono, sotto le apparenze di piccoli saggi, frammenti di racconto, finti studi antropologici, finte recensioni, le mie vere storie d’amore, le mie idiosincrasie, le mie abitudini e ossessioni, o almeno il com’ero in quegli anni».
Tutto ciò è nato in un baretto di piazza Verri...
«Piazza Meda».
In un baretto di piazza Meda che si chiamava Verri...
«In un baretto di piazza Meda che si chiamava Blue Bar...»
E al Blue Bar, più o meno ogni sera ci incontravamo con Anceschi, Balestrini, Pagliarani...
«Con Anceschi, con Balestrini, con Pagliarani, con Sanguineti, con Guglielmi, il gruppo dei Novissimi... e Anceschi ci faceva vedere i saggi che aveva ricevuto, il materiale che avrebbe pubblicato su Il Verri. A un certo punto mi dice: “Ma non saremo troppo seri con tutti questi saggi, tutti questi dibattiti sulla critica e sulla poesia?”. E allora abbiamo inventato Diario Minimo, che era una sezione della rivista, le ultime pagine. Le facevano a varie mani, le facevo io, le facevi tu, altri del gruppo partecipavano a Diario Minimo. Vittorio Sereni, che era un grande poeta, lavorava da Mondadori e a volte veniva al Blue Bar, una volta mi ha detto: “Perché non lo pubblichiamo nel Tornasole!”.
C’è molto materiale sulla mia vita di allora, in quelle pagine. Io non le ho mai prese sul serio, ma quando mia figlia, che studia architettura a Milano, mi ha raccontato che si discuteva in classe del “paradosso di Porta Ludovica” – da una storia che c’è in quelle pagine quando mi sono trovato citato, per cose scritte in Diario minimo in trattati di filologia e di antropologia, allora mi sono accorto che qualcuno mi aveva preso sul serio».
Io ricordo “Diario Minimo” come un vero diario. Ecco, non c’erano i fatti personali, c’erano le idee con cui vivevamo in quegli anni, le immagini, il modo in cui parlavamo e inventavamo le cose, una sorta di cronaca finta e vera. Finivano sulle pagine di “Diario Minimo” le cose di cui parlavamo, discutevamo e ridevamo...
«Sì. Non bisogna dimenticare che allora lavoravamo in televisione, alla Rai di corso Sempione. Io ero il funzionario di servizio. Dovevo occuparmi delle annunciatrici e dei programmi religiosi. Ovvero, avrei dovuto lavorare ai programmi culturali, e quelli religiosi erano una parte dei culturali. Ma io ho scelto i religiosi perché ovviamente erano trasmessi di domenica, e io me ne stavo in ufficio da solo e avevo più tempo. In cambio mi permettevano di andare il giovedì a insegnare a Torino. La vita di allora era un fare la spola fra l’alta cultura, la cultura di massa e la cultura popolare. Bisognava trovare un filo per collegare queste tre culture, queste tre vite...».
E questo era il diario di Eco, i risultati provvisori di un lavoro in corso. Ma qui c’è il seme di tutto. Ci sono gli elementi degli studi massmediologici, c’è il lavorare a montare e smontare i meccanismi di narrazione, c’è il gusto del gioco, ci sono gli spunti che molti anni dopo continuano a comparire, ogni sei o sette rubriche, ne “La bustina di Minerva” sull’"Espresso": i giochi con le parole, con le vocali, con il cambio di significato, con la trasformazione dei proverbi...
«La chiave di tutto Diario Minimo è il rovesciamento. Prendi una situazione, la rovesci radicalmente e poi la narri dal basso in alto con lo stesso rigore con cui era narrato dall’alto al basso».
Forse questo ci dà un’idea delle varie stagioni che la vita italiana ha attraversato. Noi ci trovavamo di fronte un mondo chiuso, compatto, politicamente nuovo, perché era dopo la Resistenza e dopo il fascismo, ma culturalmente antico, paludato di rigori accademici, di gerarchie rigide. Ridere, parodiare, non rispettare, reinventare l’immagine delle cose era la grande risorsa.
«Franco Fortini mi ricorda che cambiare la sintassi non vuol dire fare la rivoluzione. Vorrei osservare che tutta l’ondata del “politically correct” in America (le cose che è permesso dire, le cose che è vietato dire in un college, nella vita pubblica e in quella politica) stanno cambiando tutto, qui. Si tratta di parole, ma sono una vera rivoluzione».
Mi sembra che la tua attività fino a questo punto si possa dividere in quattro grandi capitoli. Il primo è dal periodo della Rai a “Diario Minimo”. Il secondo è da “Opera aperta” alla fine del Gruppo 63. Il terzo va dalla “Struttura assente” al “Nome della rosa”. Il quarto dal “Pendolo di Foucault” alla “Passeggiata nel bosco narrativo” di Harvard...
«Se la metti così, sono molto preoccupato per il quinto capitolo... No, Diario Minimo non è un periodo che finisce. C’è il Nouveau Roman, qui, di cui abbiamo poi tanto discusso nel Gruppo 63. C’è Joyce qui, a cui ho sempre lavorato prima e dopo. Come editore di giorno ero impegnato a mettere insieme veri testi di antropologia culturale. E la sera li rifacevo a rovescio per queste pagine. Tutto qui è anamorfico, è struttura allo specchio. Del resto i lettori italiani lo hanno visto nel Secondo diario Minimo. È come una pratica ascetica. Non identificarti troppo col tuo lavoro, non prenderti sul serio. Di tutto ciò che fai, fai anche la parodia. Smonta il dogmatismo... Ecco, è il mio lato notturno. È un pretesto per tutto quello che ho fatto dopo».
Veniamo al lavoro di Harvard. Nelle “Lezioni americane” che stava preparando, Calvino fa un elogio della “quickness”, della sveltezza. Il tuo, invece, è un elogio dell’attardarsi...
«È vero. Intendo rivalutare l’indugio, il guardarsi intorno, l’attendere. Intendo la delectatio amorosa. Naturalmente c’è indugio e indugio. Carolina Invernizio indugia e perde tempo. Dante indugia e crea il tempo. Io credo nell’indugio. In questo senso tutta la mia vita è un indugio».
"Il pendolo di Foucault": un ordito di complotti, ognuno porta all’altro, ognuno nasce da un sospetto e porta a un sospetto, ognuno indica un colpevole. È una metafora addirittura profetica, dato l’anticipo con cui lo hai scritto, dell’Italia di oggi?
«L’ossessione del complotto non è solo italiana, non è solo di oggi. Si scopre sempre, o quasi sempre, che non c’è niente dietro, anche se le conseguenze del falso complotto possono essere enormi, il fatto è che ci vuole una mente filosofica, si deve essere almeno Spinoza per non andare sempre in cerca del colpevole, Io perdo la penna, l’ho persa io, ma sento il bisogno di urlare: chi mi ha preso la mia penna?».
"Diario minimo” era un ritratto dell’Italia di allora. E quella di adesso come la narreresti, ora, in America?
«Ti dico, non capisco la meraviglia degli americani per il periodo che stiamo vivendo. Prima di tutto, attraverso la guerra fredda ci hanno spinto a fare esattamente quello che è stato fatto: una barriera da difendere ad ogni costo contro i comunisti che non dovevano entrare. Dunque gli americani farebbero meglio a stupirsi un po’ meno. Ai loro occhi quello che è accaduto nel nostro recente passato non dovrebbe apparire così inconcepibile. Ma gli italiani? Perché così attoniti e stupiti e indignati? Ma dov’erano? Ma chi ha eletto tutta quella gente? Certo, possiamo decidere di processare tutti...
Foucault, Michel, non quello del Pendolo, diceva che il potere non è un piccolo gruppo, il potere è dovunque, in democrazia. Nessuno è innocente, e mi meraviglio che tanti si meravigliano. In democrazia sono tutti presenti, tutti votano. Ricordate quando Montanelli ha detto: “Turatevi il naso e votate Democrazia Cristiana”? Era la guerra fredda, d’accordo. Ma è difficile distinguere con una bella linea fra “noi” e “loro”.
Va bene, adesso mettono in prigione tutti. Può essere un’idea. Però vorrei ricordare che l’Italia non è il solo Paese corrotto. Applicando lo stesso metodo si troverebbe di che lavorare – e bene – in Giappone, in Francia, in America, in Germania. Che cosa vi devo dire? L’esagerazione è un tratto tipico della virtù. In conclusione, io per quello che accade, mentre mi trovo qui e vedo l’Italia osservata e giudicata dagli altri, provo vergogna, ma anche una punta d’orgoglio. Però insisto. Intendo riferirmi a tutti, a noi tutti. Non a un Paese improvvisamente diviso fra “noi” innocenti e “loro” colpevoli».