La Stampa, 24 maggio 2025
Amanda Lear: "La pittura mi salva da droghe e analisi Dalì mi diceva che era roba da maschi"
La galleria è piccola e affollata. Fuori piove e non c’è possibilità di sfogo. Ma tutti starebbero comunque dentro, stipati attorno all’ospite d’onore: Amanda Lear. Suoi i quadri alle pareti. Un aspetto di lei che molti ignorano. Dopo aver esposto anche ad Art Basel 2024, è la prima volta in Italia: a Milano lo Spazio Guido Tommasi Editore ospita fino all’8 giugno In the Eyes of Amanda Lear, 50 opere realizzate in vari momenti della vita dalla poliedrica artista: parecchi ritratti dei famosi che ha conosciuto, panorami provenzali, nudi maschili, gatti, qualche autoritratto. «Vivo in Provenza – spiega – adoro la sua luce e il paesaggio. Non potrei mai dipingere a Parigi». Da 60 anni sotto i riflettori, è donna dalle tante facce: ironica e un po’ dissacrante, misteriosa e controversa, modella, musa, personaggio del jet set, cantante e attrice. Solo di lei come pittrice si sa meno. Eppure è categorica: «Sono una pittrice che canta. Da ragazzina ho studiato alla Scuola di belle Arti di Parigi e non ho mai smesso di dipingere. Per me è una terapia: mi tiene lontana da analisti e droghe. Un pennello in mano e mi rilasso».
In mostra i ritratti di famosissimi, icone del loro tempo. E tale è considerata anche lei.
«Ma quale icona. Icone sono simboli religiosi che stanno sui muri e davanti a cui pregare. Io un’immagine fissa su un muro?».
Li ha conosciuti tutti?
«Certamente. Tina (Turner) era una grande amica. E con Lennon, Hendrix, Bowie eravamo tutti a Londra nei ‘60: anni incredibili in cui era la capitale di tutto. E io, una giovane fotomodella, ero al centro di quel momento».
Jimi Hendrix?
«Non è che lo conoscessi benissimo. Come tanti, perduto nel mondo pazzo del rock, circondato di troppi fan e ragazze adoranti. Una volta mi chiese di ospitarlo per qualche giorno da me: aveva bisogno di sparire, c’era una fidanzata troppo invadente che lo perseguitava. E così fu che per un po’ dormì sul divano di casa mia».
E David Bowie?
«Fu Marianne Faithfull a presentarci: mi chiamò a notte fonda, mi aveva visto in un una foto e voleva conoscermi. “Sto dormendo”, mi lamentai. Me lo passò. Tra noi fu grande amore. L’ho dipinto che pare un vampiro perché lo era: non di sangue, ma di energia e di idee. Anche da me prese molto, ma anche mi diede: fu il primo a spingermi a cantare. Ci siamo lasciati dopo un paio d’anni: troppo preso dalla sua carriera, non c’era posto per me. E anch’io: dovevo pensare alla mia musica, la disco (che non era certo il suo genere). Era un artista completo: nel rock uno dei pochi che non si interessasse solo di musica, ma anche d’arte, letteratura, cinema».
Tra i quadri anche John Lennon. Che ricorda di lui?
«Geniale, poco loquace, un po’ chiuso».
Troppo assorbito da Yoko Ono?
«Non so perché tutti la odiassero e avessero deciso che era colpa sua se i Beatles si erano sciolti. Ricordo che offrì a Dalì un sacco di soldi per un pelo dei suoi baffi. Il Maestro era diffidente, non voleva. “Dicono sia una strega. Con i peli si possono fare filtri e malefici”. “Ma sono tanti soldi”, gli feci osservare. Così prese in giardino il filo secco e annerito di un fiore, lo mise in una bella scatolina e glielo fece avere. Si divertì molto di quell’imbroglio».
Come fu il rapporto con lui?
«Ho fatto parte del suo più stretto giro di amici per anni. Mi ha fatto conoscere tante personalità diverse, da Onassis a Warhol. Lo trovavo non bello e anche un po’ ridicolo. Ma era anche affascinante, magnetico, intelligente, ironico e divertente. Seppure animato da un machismo tutto spagnolo. All’inizio tra noi furono scintille».
Ovvero?
«Gli venni presentata e gli dissi che eravamo colleghi, che anch’io dipingevo. Non gradì. Mi disse poi che la pittura era arte solo maschile. Un po’ me la presi, ma avevo 17 anni e lui era un genio. Quello che diceva era oro colato. Subito mi impose di non sottoporgli mai i miei quadri. Un giorno, dopo anni, lo feci: “Non male... per una donna”, ammise».
E a lei le opere di Dalì piacevano?
«Non tanto. In generale non amo il surrealismo (anche se recentemente, per via della mostra parigina sul suo centenario, l’ho rivalutato). Se per Dalì la pittura era solo Velasquez, Rembrandt, Vermeer (e lui), io preferisco Picasso e l’espressionismo tedesco. E anche tra i surrealisti De Chirico e Max Ernst».
Tra le sue opere molti nudi, per lo più maschili.
«Ai tempi delle Belle Arti i modelli che posavano per noi studenti sono stati i miei primi nudi. Mi appassionai alla statuaria. Attraverso il nudo maschile celebro l’armonia del corpo umano: la schiena soprattutto (non il sedere) e quella specie di movimento sinuoso che scende dal collo e dalle spalle».
Oltre a dipingere come passa il suo tempo?
«Ho appena finito la tournée di Scopone scientifico. Ho visto il film di Comencini con Sordi, la Mangano e una Bette Davis insuperabile. Ho adorato la sua cattiveria, in particolare il personaggio di quella vecchia miliardaria antipatica e crudele. Ho fatto fare un adattamento per il teatro: mi diverte interpretare una così. Anche imbruttirmi non mi spaventa. Vorrei venire in Italia, ma il teatro da voi è in crisi: non ha i soldi per uno spettacolo così».
E con la musica ha chiuso?
«Gli spot Chanel dove canto Follow Me mi hanno rilanciato a livello mondiale. Così Universal mi ha convinta a fare un album: tutti inediti, metà già incisi. Ai tempi pensavo che avrei fatto un solo disco: invece ho alle spalle 22 album e 28 milioni di copie vendute. Non sono solo Tomorrow, come credono in Italia».