il Fatto Quotidiano, 24 maggio 2025
Intervista ad Albert Watson
Albert Watson è il maestro dello scatto che entra nell’immaginario collettivo. Scozzese di nascita, newyorchese d’adozione, 82 anni portati col piglio di una rockstar. In oltre cinque decenni di carriera ha firmato fotografie diventate icone assolute: sua è la nuca tatuata di Mike Tyson, Prince con la camicia a pois e Uma Thurman nel poster cult di Kill Bill di Tarantino. Ritratti divenuti frammenti di cultura pop, capaci di svelare l’essenza di un’epoca e dei suoi protagonisti. E ora, quello stesso sguardo che ha definito icone globali si prepara a svelare l’anima della Città Eterna con la mostra Roma Codex.
Mr. Watson, ripensando alla sua infanzia in Scozia, quando ha capito che la fotografia era la sua vocazione?
Ottima domanda, nessuno me l’aveva mai posta prima. Mio padre aveva una piccola macchina fotografica, una box brownie. Un giorno la trovai in un cassetto e iniziai a fotografare le mie sorelle. Anche se molto primitiva, quell’esperienza mi colpì profondamente: ricordo come fosse ora la gioia e il divertimento che provai.
Lei è parzialmente cieco da un occhio, è il suo “superpotere”?
Spesso i fotografi utilizzano un solo occhio per scattare. Quindi, avere un occhio solo non è mai stato un problema. Anzi, direi che la fotografia era il lavoro perfetto per me.
Ha ritratto icone come Naomi Campbell, Kate Moss, Nicole Kidman, Monica Bellucci… ci sveli un retroscena.
Kate Moss fu incredibile. La fotografai a Marrakech dalle 7 e 30 del mattino alle 22. Restammo tutto il giorno sul set, con il caldo e l’ansia di finire il servizio in tempo, senza che lei si lamentasse mai. Solo alla fine della giornata mi confidò: “Sai, oggi è il mio 19° compleanno”.
La sua foto di Hitchcock con l’oca è entrata nella storia.
Era il primo personaggio davvero famoso che scattavo. La mia foto doveva accompagnare un articolo in cui lui dava la sua ricetta per cucinare il cappone a Natale. Così mi venne l’idea. Gli proposi di tenere per il collo un’oca morta come se l’avesse appena strangolata e la cosa lo incuriosì. Ma la cosa interessante è che quando finimmo mi disse: “Vorresti una tazza di tè?”. Mi ha invitato nel suo ufficio e mi sono seduto con lui a parlare di film, a sorseggiando tè con biscotti.
Tra i suoi lavori più famosi c’è la celebre fotografia di Steve Jobs per la copertina del libro omonimo. Che cosa le disse durante quella sessione?
Fu gentilissimo. Dopo aver visto la Polaroid che gli avevo scattato, mi disse: “Adoro questa foto, per favore non darla a nessun altro oltre la rivista, vorrei usarla personalmente in futuro”. Poi purtroppo, qualche anno dopo, è diventata il suo necrologio.
Qual è stato lo shooting più difficile o i vip più complessi da gestire sul set?
Probabilmente il matrimonio reale del Principe Andrew e Sarah Ferguson a Buckingham Palace. Dovevo gestire 61 persone inclusa la regina Elisabetta, poi 49, poi 38, fino alla sola sposa, il tutto in soli 30 minuti. Fu estremamente stressante.
Qual è il ritratto a cui è più legato?
Forse proprio Hitchcock, perché ero molto giovane. Quel servizio mi diede una sicurezza fondamentale per il resto della carriera.
Per la sua nuova mostra romana ha fotografato molte star italiane. C’è stato un momento particolarmente “italiano” che le è rimasto impresso?
Paolo Sorrentino è arrivato sul set in sella alla sua moto, era molto interessato alla mia fotografia. Non dimenticherò mai la faccia che ha fatto quando si è visto nel mio scatto: quasi non si riconosceva.
Com’è stato il suo approccio al progetto su Roma, sapendo che si tratta di una città così iconica e già tanto fotografata?
Ero nervoso perché non volevo fare una semplice guida fotografica di Roma. Nei 34 giorni di riprese che avevo a disposizione, volevo toccare la superficie, incontrare persone interessanti e fotografare i monumenti da angolazioni diverse, evitando gli scatti più ovvi. Il mio intento non era raccontare Roma in senso stretto, ma raccontare me stesso come fotografo a Roma. Ho cercato soggetti particolari, ragazzi pieni di tatuaggi, un bambino in un bar, un artista del circo… agli allievi di una scuola di cinema ho chiesto di interpretare un esorcismo.
C’è stato un momento particolare che ricorderà per sempre?
Quando ho fotografato La Pietà di Michelangelo. Avevo già visto l’opera, ma trovarmela davanti e poterla fotografare è stato straordinario
C’è qualcuno che non ha ancora fotografato e che le piacerebbe ritrarre?
Non ho mai fotografato Trump. Sarebbe interessante farlo non per simpatia, ma per l’unicità e la complessità del personaggio.
Cosa pensa dell’IA? La considera una minaccia per il suo mestiere o un’opportunità creativa?
Una volta ho fatto un esperimento, ho caricato alcune mie foto e gli ho chiesto di migliorarle: su 50 risultati, 48 non erano affatto interessanti, anzi, erano quasi stupide. Ma in due o tre occasioni ho scoperto che forniva un punto di vista diverso. Un colore, una composizione… spunti interessanti, insomma. È stato quasi, in un certo senso, come lavorare con un ottimo curatore.
Infine, qualche rimpianto?
Forse solo non aver fotografato il Papa durante il mio recente progetto romano. Ho ritratto un cardinale e dovevamo fotografare anche Francesco, ma nel mentre si è ammalato. Guardando indietro, però, non ho veri rimpianti. Ogni esperienza mi ha insegnato qualcosa.