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 2025  maggio 24 Sabato calendario

Come sprecare un’egemonia culturale

È decisamente un’altra America, quella di Donald Trump che attacca l’università di Harvard prima tagliandole i finanziamenti federali ed ora vietando il permesso di soggiorno agli studenti stranieri che frequentano o che intendono iscriversi ai suoi corsi. Quello che sta succedendo fa parte, in maniera molto rozza e forse neppure consapevole, della scelta di staccare gli Stati Uniti​​​​​​ dal legame con la cultura euro-occidentale. Questa infatti è stata fondata, dal XVIII secolo in maniera sempre più approfondita e articolata, sulla convinzione che è “l’educazione” (la Bildung se volessimo citare propriamente una delle radici forti) ciò che garantisce alle nazioni classi dirigenti all’altezza di una fase storica in continua evoluzione fornendo ad esse sia gli strumenti della conoscenza critica che quelli della conoscenza scientifica.
Per capire a fondo bisogna spiegare, sia pure nei termini schematici consentiti in questa sede, i due grandi modelli di università che si affermarono nel XIX secolo: quello britannico che puntava sulla formazione delle élite attraverso l’università come conoscenza e convivenza insieme di studenti e docenti (il modello del “college”) e quello tedesco come luogo in cui i grandi scienziati ammettevano i giovani ad accostarsi al loro continuo lavoro di presentazione della ricerca (la “cattedra”).
Negli Stati Uniti i due modelli si erano fusi in una unica istituzione e le loro università si sono sviluppate come al contempo luoghi di acculturazione nella convivenza di élite future e luoghi di attrazione di grandi maestri in grado di “fare scuola” nel senso più alto del termine.
Fino a qualche decennio fa il vanto delle classi dirigenti, anche di quelle politiche, era, in Europa come in America, di provenire da quelle fucine e di mantenere con esse non solo legami, ma anche possibilità di attingere sapere utile. Non la buttiamo nella barzelletta del rinvio all’ “uno vale uno” per spiegare l’abbandono di quelle spiagge, ma certamente il numero di politici che si vantano delle loro origini universitarie è declinante un po’ dappertutto, e non solo per un meccanismo, innegabile, di massificazione dell’istruzione superiore, per cui un titolo di “dottore” non è poi che, di suo, voglia dire più di tanto.
Non si era però ancora arrivati ad un evento così emblematico come l’attacco di Trump al sistema dell’alta formazione. Gli Usa devono gran parte della loro grandezza all’eccellenza nella ricerca e nella istruzione di alta qualità (molto selettiva, e questo va anche ricordato perché il loro sistema scolastico in generale non è esattamente splendido). Non solo questo ha dato loro grandi scoperte ed ha consentito di primeggiare: il ritardo delle capacità di sviluppo, per esempio nell’ambito dell’informatica e non solo in quella, è una radice della loro vittoria nella guerra fredda e in quel che è venuto dopo. Ha anche consentito una egemonia culturale nel modo di pensare di elaborare conoscenze in tutti i campi, facendo dell’inglese la lingua universale e sottraendo alla vecchia Europa il suo primato in quel campo.
Trump butta a mare con leggerezza tutto questo, proprio perché lui e buona parte dei suoi collaboratori (non tutti) sono davvero estranei in senso tecnico a questa filiera. Anche qui se volessimo buttarla in caciara diremmo che è la rivolta degli underdog che hanno fatto i soldi contro i “signori dottori” delle élite, ma faremmo una polemica a buon mercato che ci porta poco lontano.
Il fatto è, a nostro modesto avviso, che la situazione ha due radici su cui varrebbe la pena di riflettere, senza pensare che la loro enunciazione risolva tutto. La prima è che una nuova élite del denaro pensa che con quello si può comprare tutto, anche la conoscenza, che oggi per essere produttiva di risultati materiali ha bisogno di grandi investimenti. Secondo questa logica, non conta che si producano in proprio gli sviluppi per esempio dell’intelligenza artificiale, conta che chi li produce sappia che se vuol metterli a frutto deve bussare alle porte di chi detiene la ricchezza. È un ragionamento fasullo, non tiene conto della complessità dei circuiti di produzione del sapere, delle lotte intestine che contengono, degli inquinamenti che vengono dalla competizione globale delle potenze, ma tant’è.
La seconda radice è il disprezzo che in vari ambienti sta incontrando una scienza, in questo caso prevalentemente le scienze umane, che non producono più certezze e sistemi di comprensione e di governo della transizione, ma confusi percorsi dispersi, utopie anche abbastanza di bassa lega, rincorsa di particolarismi settari. È ingenuo e pericoloso sottovalutare questo fenomeno, solo perché una parte dei cultori delle scienze umane, vogliamo usare il vecchio termine di intellettuali, respinge questa interpretazione ed anzi cerca di presentare la crisi presente come il massimo dello sviluppo di una nuova luminosa fase del pensiero umano.
Il trumpismo e i suoi derivati si sviluppano da queste due radici, ma nella loro furia iconoclasta (stiamo parlando di fenomeni già visti) anziché provare a far maturare le contraddizioni, come si sarebbe detto una volta, si illudono di poter fare il reset di tutta una storia e di realizzare l’eterno sogno del ritorno al paradiso perduto. Sono politiche molto pericolose, perché distruggono la storia gloriosa di un Paese che è stato l’arsenale della democrazia, non solo nel senso militare del termine, ma anche in quello culturale e scientifico. L’Europa potrebbe e dovrebbe rispolverare la sua saggezza storica e anziché importare dagli Usa una certa dissoluzione dei nostri saperi, esportare lì una volontà di ricostruzione solidale di una cultura all’altezza delle sfide di questo passaggio storico.
Cosa che non si fa certo trasformando le università e la ricerca in seminari per le varie asfittiche ortodossie dei poteri in carica, chiusi alla circolazione delle élite e alla fatica del libero studio.