Il Messaggero, 24 maggio 2025
Intervista a Riccardo Cocciante
Della città in cui è nato ricorda «gli odori, la luce e i sapori. Certe salamoie, certe acque di pesce con l’aglio, certe zuppe. Il Vietnam all’epoca si chiamava Indocina e Saigon era ancora un luogo meraviglioso attraversato da due sole immutabili stagioni: quella secca e quella delle piogge. Se faceva caldo svenivamo per l’umidità, se pioveva correvamo sul bordo dei tombini per agitare le pozzanghere e bagnarci felici con l’acqua sporca».
Riccardo Cocciante ha 79 anni. Esordì nel 1968, con uno pseudonimo e un 45 giri che oggi è materia per collezionisti. Ha viaggiato e sperimentato. È caduto e si è rialzato. Ha scritto un certo numero di pagine di storia e non ha mai smesso di impugnare la penna: «La curiosità è un’attitudine figlia dell’esempio. Mio padre lavorava alle poste, poi arrivò il regime e si disse: “Sotto il fascismo, con Mussolini, non voglio vivere”. Lasciò l’Italia e si reinventò imprenditore edile in Africa. Imparò i rudimenti del mestiere e poi da un giorno all’altro si trasferì nel sud est asiatico. Costruiva ponti che resistevano alle alluvioni, studiava, si informava. Arrivò a Saigon che non parlava una parola di francese e poi incontrò mia madre che invece quella lingua la parlava e che un po’ come lui era esule perché i suoi genitori, di origini nobiliari e in fuga dalla Francia, erano approdati prima sull’isola di Reuniòn e poi in Indocina».
Che donna era sua madre?
«Una donna molto dolce che anche per il lavoro che faceva, l’istitutrice, sapeva come comportarsi con i bambini. Cosa dir loro, come trattarli».
Quando lei ha undici anni la sua famiglia lascia Saigon.
«Lasciare Saigon, che si avviava a essere il luogo pericoloso che una guerra ventennale fece conoscere al mondo, fu un vero dolore. Non sono mai tornato in Vietnam perché non vorrei deludere la memoria dei miei primi anni di vita, ma se decidessi di farlo sono sicuro che potrei ritrovare la strada della chiesa che frequentavamo e quella del mio liceo quasi ad occhi chiusi».
Dopo un viaggio avventuroso arrivaste in Italia.
«Avventuroso è poco, direi epico. Prendemmo un aereo che tra una sosta e l’altra arrivò a Marsiglia dopo una trentina di ore. Ci sistemammo a Nizza e mio padre corse a Parigi ad acciuffare una macchina. Tornò dopo alcuni giorni e stipando l’auto oltre ogni ragionevole misura ci mettemmo finalmente in viaggio verso l’Italia. All’altezza di Ventimiglia si ruppe la frizione: altra sosta obbligata. Non so come riuscimmo a ripartire e arrivammo in Abruzzo, a Rocca di Mezzo, il paese natale di mio padre».
Impressioni?
«Sembrava un altro mondo. Noi vivevamo come ragazzi di strada ed eravamo abituati ad andare a piedi scalzi: per la prima volta incontrammo il freddo, concreto e metaforico, di un paese straniero. I suoi codici non scritti. Le sue regole. Il suo modo di pensare e di comunicare. Non conoscevamo niente di tutto ciò e adattarsi a tutto quel grigio fu complesso. Non parlavamo italiano, ci trattavano come stranieri, sentivamo un’estraneità assoluta al contesto, alla cultura e al luogo. Mio padre intanto era riparato a Roma per cercare di preparare il nostro trasferimento e disegnarsi un futuro diverso da tutto ciò che aveva sperimentato fin a quel momento. Provò ad avviare un commercio e acquistò una Torrefazione. Ma lo truffarono, le cose volsero rapidamente al peggio e dal nulla ci trovammo a soffrire la scomparsa delle sicurezze economiche».
Suo padre subì il colpo?
«Duramente. Era abituato a vivere in un luogo in cui le strette di mano valevano più dei contratti e si ritrovò in un labirinto di inganni, in un dedalo di clausole che gli lasciarono le tasche vuote. Furono anni difficili: arrivare a fine mese era un problema, così a un certo punto papà mi disse: “Perché non inizi a lavorare?”».
E lei?
«Non eccepii. Mi iscrissi alla scuola alberghiera e lavorai negli hotel per qualche anno. Ero molto coscienzioso e anche se non era il mio mestiere preferito lo feci con grande impegno. Ho sempre pensato che esiste solo un modo per fare le cose: farle bene».
Si era dato un tempo per diventare un cantante?
«Me lo ero dato perché in fondo pensavo alla musica dalla mattina alla sera. Il mio capo mi apprezzava, ma quando mi disse che pur lavorando bene avevo dei capelli che sarebbe stato meglio accorciare, presi la palla al balzo e mi licenziai. Era un pretesto, ma un pretesto figlio di un calcolo, di una scommessa ragionata. “Con la liquidazione” pensai “ho un anno davanti a me per realizzare il mio sogno”. E in quel sogno mi buttai a capofitto. Misi insieme un gruppo, provai a farmi notare, cercai di capire se era possibile trovare un pertugio per farmi spazio nel mondo della musica».
Fu difficile?
«Ebbi molta fortuna perché il primo provino mi venne procurato senza bisogno di questue o elemosine. Uno dei componenti del mio gruppo mi disse “ma sai che canti bene?” e in men che non si dica mi ritrovai alla Rca».
A quell’epoca, nei corridoi della Rca, c’era il meglio della musica italiana.
«C’era un grande manager, Ennio Melis e una selezione abbastanza spietata dei cantanti che si appoggiava sulla fortuna e sugli umori del momento».
Quale fu l’esito di quella roulette russa?
«Mi fecero incidere un paio di pezzi, ne scelsero uno, mi mandarono in una trasmissione a cantarlo con lo pseudonimo di Riccardo Conte e a esibizione conclusa mi fecero sapere che potevo serenamente dimenticarmi del contratto: “Lei non ci interessa più, ci dispiace”».
E a lei dispiacque?
«Secondo lei? Dovetti ricominciare da zero, con una piccola casa discografica satellite, la Delta, grazie alla quale ripresi a fare provini su provini. Poi Alfonso Bettini ebbe l’idea di creare una specie di gruppo di lavoro con autori e cantanti. E quell’idea mi cambiò la vita».
Come mai?
«Incontrai Marco Luberti, un paroliere straordinario a cui avevano raccontato della mia esistenza con relativa fortuna: “C’è un ragazzo che dovresti sentire, perché non vieni in studio?”».
Risposta?
«“Non mi va, non mi interessa”. Sia come sia alla fine lo convincono. Luberti arriva, si siede, mi ascolta e rimane folgorato».
Cosa ricorda di quegli anni?
«Un ragazzo che si metteva al piano e chiudeva gli occhi e basta. Tutto lì».
Tutto lì?
«Uno vestito come capitava, senza preparazione, senza scudo, senza pelle. Uno con cui i registi tv non sapevano cosa fare: “Che me ne faccio di questo qui?”, uno che non stava alle regole prima di tutto perché non le conosceva, uno diverso, che non c’entrava niente».
Come è nato “Bella senz’anima”?
«Da un fallimento e da una resurrezione. Scriviamo le canzoni e registriamo il disco. È tutto pronto per la pubblicazione però alla Rca il disco non piace».
Tragedia.
«Sgomento. Mentre cerco di assorbire la botta, la casa discografica mi fa una strana proposta: “Organizziamo un concerto a Roma, al Teatro dei Satiri. Vorremmo che sul palco ci fossero tre cantanti e che suonassero insieme: De Gregori e Venditti hanno detto già sì, perché non vieni anche tu?”. Francesco e Antonello erano conosciuti perché avevano già cantato brani poi diventati importantissimi, io molto meno. Però mi dico che non ho niente da perdere e mi butto. Suoniamo, partecipiamo persino a un dibattito in sala. In platea c’è anche Ennio Melis. A fine concerto si avvicina, mi dice “rifacciamo il disco” e tutto cambia, da un momento all’altro».
La canzone ebbe le sue censure.
«All’epoca le radio private non esistevano e quindi essere censurati dalla Rai equivaleva al silenzio. Deluso e amareggiato riparai in Francia ignaro che durante l’estate, nelle discoteche italiane, si stava verificando uno strano fenomeno».
Quale fenomeno?
«La Rca era solita mandare un emissario nei locali più importanti da nord a sud per proporre le novità. E tra le novità c’era il mio pezzo. Era considerato un lento e i lenti i dj non volevano passarli. Allora l’emissario metteva in atto una sorta di ricatto: “Non passi Cocciante? Allora non ti do Morandi”. Allora il dj di turno finiva per piegarsi, la canzone trovava spazio e come per miracolo conquistava il pubblico che la ballava e imparava a conoscerla. A fine estate il pezzo diventò primo in classifica».
Come si spiega quel successo improvviso?
«Credo dipendesse dalla mia diversità. Ero un atipico che della cultura musicale italiana non conosceva praticamente niente. Ero un ibrido: il più italiano dei cantanti in Francia e il più francese degli italiani in Italia. A Parigi dominava la preminenza del testo, a Roma o a Milano, l’importanza della musica. In me queste due inclinazioni si sono mescolate e fuse dando vita a canzoni tra loro diversissime. Margherita è molto italiana, Quando finisce un amore invece perfetta per le atmosfere francesi».
Le sue canzoni hanno tonalità che sono state sempre difficili da intonare.
«È vero. Ti costringono all’estremo. Per certi versi somigliano alla disperazione della musica black, alle canzoni “sputate”, possiedono un urlo dell’anima che alcuni all’epoca trovavano “volgare” e che io al contrario amavo, riconoscevo e ritenevo elegante».
C’era un pregiudizio nei suoi confronti secondo lei?
«Da parte dei giornalisti, ad esempio, c’è sempre stato. Tendevano a estromettermi, a non nominarmi, a far finta che non esistessi. All’epoca mi arrabbiavo, oggi li ringrazio. Quel pregiudizio mi ha aiutato a essere come sono: fuori da qualsiasi corrente, con i miei pregi e i miei difetti, con la mia personalità. Se fai musica devi essere libero, altrimenti tanto vale lavorare in un ministero».
Insieme a Baglioni e a Battisti lei era considerato il meno politicizzato dei cantautori.
«Ho sempre rifiutato l’idea del cantante engagé. Avevo le mie idee, ma mi sembrava sbagliato esprimerle pubblicamente. Una scelta che ho pagato perché c’è stato un tempo in cui non schierarsi politicamente equivaleva e essere considerati di destra. Al Festival dell’Unità, per dire, non ero benvenuto».
Un giorno entrò in un bar, a Roma e un avventore le disse: “tu canti per la destra”.
«Una follia. Io ovviamente non cantavo né per la destra né per la sinistra, ma gli anni ‘70 sono stati molto duri e qualcuno mi associò alla destra senza una vera ragione. E lo stesso era capitato a Battisti, che come mi disse anche Mogol era totalmente disinteressato alla politica».
Se Cocciante non era politicizzato, cos’era allora?
«Un cantante allegorico e sentimentale, ma non romantico. Una definizione che non mi è mai piaciuta perché il romanticismo è lezioso e ha un colore, il rosa, che non è il mio. Io non sono rosa. Sono nero, sono rosso, sono giallo, ma non rosa. Le mie canzoni sono aspre, rocciose, persino violente. Mai melense però».
Chi le piaceva dei suoi colleghi?
«Apprezzavo molto cantanti come De Gregori e Dalla: quando Lucio si separò da Roversi e liberò sé stesso scrisse cose personali e meravigliose, quelli che amavo davvero senza condizioni però erano Mina e Battisti. Nessuno come lui è riuscito a stare dietro le proprie canzoni, a nascondersi, quasi a sparire». Mogol e Battisti non avrebbero potuto essere più diversi. «Uno colto, l’altro più popolare e istintivo. La diversità fu la loro forza. Si contaminavano a vicenda e contaminarsi è sempre una grande ricchezza. Non ho mai amato i parolieri che scrivevano come volevo io, ma quelli che magari mi urtavano creando un’elettricità utile alla bellezza. Mogol mi urtò perché eravamo quasi agli antipodi e per poetica era distante da Luberti. Per trovare una nuova forma espressiva dovetti girare pagina. A volte, anche se addolora, cambiare si rivela essenziale. Per ricostruire bisogna distruggere».
Lei lo ha fatto spessissimo.
«L’artista non è una star. Sono due entità differenti. Per l’artista buttarsi a mare immaginando cose completamente atipiche che lo tirino fuori dalla sua comfort zone è quasi un dovere perché cercare ispirazione nei luoghi dell’immaginario in cui non sei mai stato e ricominciare significa osare. Quando ho inseguito un’impresa apparentemente anomala mi hanno dato del pazzo, ma sapevo che non era vero».
“Notre dame de Paris” a molti apparve una follia.
«È una storia lunga e complessa. Scrissi tutto, mi misi al pianoforte e utilizzai la mia voce. Mi sembrava bello, però poi chiamavo i produttori, dicevo loro “venite ad ascoltare, ho creato qualcosa di nuovo” e non veniva nessuno».
Poi qualcuno si convinse.
«Il successo di un’opera popolare come Notre Dame non era prevedibile. Ma il successo non va previsto, non è un esperimento da laboratorio».
Cosa pensa del successo?
«Non so se ho un pensiero a riguardo, ma so che ho scritto cose che non erano considerate commerciali che hanno saputo trovare la strada verso il successo. Io non ho mai voluto scrivere un successo, ma solo una canzone. E se vuole sono stato anche egoista: il brano, prima che agli altri, doveva piacere soprattutto a me con l’ovvia speranza che il pubblico potesse poi amarlo».
Cocciante su Cocciante: «Sono un pittore naïf».
«Toglierei pittore. Sono naïf e lo sono per tante ragioni: non leggo la musica, non ho mai preso una lezione di pianoforte né di canto in vita mia, ho il mio carattere».
Lo definiamo?
«Sono sempre stato un combattente. Se lo sei fin dall’inizio, lo sei per tutta la vita».
Ha una sua canzone che ama più delle altre?
«Ho tanti figli e preferire un figlio a un altro è ingiusto».
A chi avrebbe rubato una canzone?
«A Pino Daniele o forse al Gino Paoli de Il cielo in una stanza. È essenziale, c’è tutto, non c’è niente che manchi o che ecceda».
Cosa è essenziale per mantenersi artisti?
«Conservare ciò che si perde più in fretta: essere eterni bambini».
Quanto è rimasto bambino?
«Molto. Sono rimasto un bambino perché da un lato non sono mai riuscito ad adeguarmi alle dinamiche della vita adulta e dall’altro, quando scrivo, non sento il peso della gabbia delle responsabilità. Se mi considerano ingenuo non mi adombro, anzi. Sorrido».
Ancora pochi mesi e compirà ottant’anni. Che orizzonte artistico si concede?
«Non lo decido io, lo decide la natura. La vecchiaia va accettata. Ci vuole spirito di adattamento: quando vado in concerto canto come posso cantare oggi senza imitare quello che facevo a vent’anni. Trovo un’altra maniera di esprimermi con la mia età, con le mie forze, con quello che posso ancora dare».
Si annoia mai?
«Credo di non essermi mai annoiato in vita mia».