Libero, 24 maggio 2025
L’Occidente è affetto da bovarismo
Ha colpito nel segno, tra le tante, una frase riportata da Matteo Saudino nel suo libro, Anime fragili. Un viaggio con Platone e Aristotele tra le vulnerabilità del nostro tempo ( Einaudi, p. 142, € 17). È di Pascal: «Tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola causa, dal non sapere starsene da soli, in una camera». Verrebbe da aggiungere che oggi è anche raro trovarcisi, soli in una stanza, perché nel giro di dieci minuti lo smartphone farebbe sentire la sua presenza e noi saremmo calamitati verso il suo schermo, per rispondere a chissà chi oppure perderci in qualche video scemo, in una forma di ipnosi che sfiora l’ebetudine. Quando invece lo stare un po’ da soli, a riflettere, sarebbe il giusto antidoto a questo folle mondo che pare una scheggia impazzita, con qualche Dottor Stranamore e qualche grottesca parodia del Savonarola di troppo. Metterebbe un freno alla frenesia della vita, che corre all’impazzata, ma non sempre sa dove va.
Ecco, il libro di Saudino parla proprio di questo: del riandare alle radici del pensiero per recuperare la nostra, di capacità di pensiero. Saudino è la persona giusta per accompagnare qualcuno nei luoghi impervi di Platone e Aristotele, partendo dal grado zero della filosofia: è il professore di liceo più amato d’Italia, avendo insegnato via Youtube a molti ragazzi a capirla e a pensarla, la filosofia. Qui i massimi sistemi invero sono sfiorati, buttati lì con un abbozzo, un po’ come l’esca attaccata all’amo perché il pesce abbocchi, e va bene così, perché lo scopo non è insegnare, ma “ri-orientare”. Tirare fuori dalle secche una generazione che si è persa nel vortice dell’infodemia o, per farla più facile, nel subbuglio diuturno di informazioni e disinformazioni, nel bombardamento costante delle meraviglie tecnologiche, e quindi nelle trappole di relazioni virtuali che portano, quelle sì, a essere soli in una stanza, ma in compagnia di fantasmi non sempre ben intenzionati.
Fare in modo di saper stare da soli per imparare a stare con gli altri. È la radice di ogni rapporto sano con il prossimo, che tuttavia si è persa, in una società in cui un bel giorno i cittadini si sono risvegliati consumatori, la religione ha battuto in ritirata, i partiti politici sono finiti per non motivare più neanche i propri leader e l’amor patrio è diventata un’espressione vuota. Ed eccolo, il vuoto, il deserto di ideali e di trascendenza, che cancella l’amore e l’amicizia, di cui Saudino traccia la rotta sulle divine parole dei Dioscuri del pensiero greco, che è poi il nostro.
È infatti il vuoto, lo sgradito compagno di viaggio che dobbiamo esorcizzare. Lo spiega bene il saggio di Eva Illouz, direttrice didattica della prestigiosa École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, Modernità esplosiva. Il disagio della civiltà delle emozioni ( Einaudi, p. 354, € 20), saggio che del libro di Saudino in qualche modo è contraltare, poiché approfondisce le cause del disorientamento in cui versiamo. L’umanità, intesa come quel tutto di cui noi, oggi e ora, siamo gli atomi, è una massa desiderante “delusa”, che «aspira a una taglia più grande di quella assegnatale dalla vita». L’autrice porta l’esempio di Emma Bovary, che aveva avuto un buon matrimonio di provincia, ma era ossessionata dal desiderio di una vita avventurosa, di gusto aristocratico, più ricca e piena di passione, e su questa via lastricata di pessime intenzioni finì per trovare il suo personale inferno.
Emma Bovary è una metafora del ceto medio, che desidera di più e di meglio per definizione, ma che con sempre più difficoltà si vede invece assegnato a malapena quel che avevano avuto gli ascendenti. Il ceto medio soffrirebbe insomma di bovarismo: brama la villa di campagna e le vacanze da sogno che non può più permettersi, quindi sprofonda nella delusione. E poi c’è la paura, cavalcata così bene dalla politica. Ne abbiamo una prova quotidiana, alle nostre latitudini, con l’allarme fascismo strillato ogni santo giorno. O, nella sfera personale, le persone sono attanagliate dalla paura della malattia, della vecchiaia, della solitudine, e qui si ritorna appunto al primo libro, in un cerchio che mestamente si chiude, senza che ci sia, per lo meno in Illouz, un barlume di speranza che possa consolare.
Le persone sono dannatamente infelici, questo ci dicono gli autori.
Poco importa che il primo enumeri le piccole tragedie quotidiane di vite ridicole, e la seconda giochi con i peccati capitali e con i peggiori sentimenti dell’essere umano: ira, invidia, paura, orgoglio. La sostanza non cambia: la bulimia dell’avere deriva dall’atrofizzarsi dell’essere. Che ha bisogno di silenzio, ma anche di realtà, di uscire dalla propria personale prigione per esperire il sé e l’altro nel farsi quotidiano dello stupore della vita, che non è tale se si perde la speranza. La letteratura, e in particolare la poesia, la più ineffabile delle arti, ci soccorre anche in questo, donandoci i versi di Emily Dickinson: «È la speranza una creatura alata che si annida nell’anima – e canta melodie senza parole».