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 2025  maggio 23 Venerdì calendario

Intervista a Lady Gaga

Nel corso della sua lunga carriera, Lady Gaga ha dimostrato di essere uno dei personaggi più istrionici dell’universo musicale. È passata dalla pop-dance dei suoi primi album, come The Fame (2008), allo stile più rock di Born This Way (2011) e alle inflessioni country di Joanne (2016), per arrivare a interpretare i classici del canzoniere americano insieme all’amico Tony Bennett. A parte avere sicuramente reso nervosa in varie occasioni la sua casa discografica, la natura mutevole del talento musicale di Lady Gaga non ha comportato evidenti svantaggi per la sua carriera. Infatti è tra gli unici tre interpreti solisti, insieme a Michael e Janet Jackson, ad avere raggiunto più volte il primo posto nella classifica dei singoli Billboard Hot 100 nel corso di tre decenni. Ha inoltre vinto 14 Grammy Awards, tra cui uno all’inizio di quest’anno per il suo duetto con Bruno Mars Die With a Smile.
Questa serie di successi ha reso particolarmente interessante scoprire che il suo nuovo album Mayhem sarebbe stato un ritorno al sound pop dei primi lavori. Per un’artista sempre pronta a sorprendere, questo rientrare in un territorio familiare è perlomeno curioso. Sperava di catturare un po’ di nostalgia? Di attuare una sorta di ringiovanimento tornando alle origini? O forse la realizzazione di un album “dal sound classico” avrebbe costituito una specie di meta-esame della propria musica e immagine?
Come spiega durante la nostra conversazione, in una certa misura la risposta è un mix di tutte e tre le ipotesi. All’età di 39 anni (compiuti il 28 marzo scorso), e dopo un periodo di stop dovuto alla fibromialgia di cui è affetta e a traumi personali, finalmente Lady Gaga si è sentita pronta a riappropriarsi di un sound che le apparteneva. Inoltre, anche in buona parte grazie al suo fidanzato, l’imprenditore Michael Polansky, si è sentita sufficientemente supportata per compiere questo passo. Il che dimostra che, anche per una popstar di fama mondiale, un po’ di normalità può rivelarsi la variante in assoluto più produttiva.
In una dichiarazione riferita a Mayhem, ha accennato alla sua «paura» di tornare alla musica pop tanto amata dai suoi primi fan. Che cosa la spaventava?
«Ho iniziato il mio percorso artistico quando vivevo nel Lower East Side e avevo circa 17 anni, frequentando quanto più potevo la scena musicale newyorchese. Alla fine questo mi ha condotto a produrre The Fame, il mio primo album in studio. Quella musica nasceva infatti dalla cultura delle persone con cui vivevo a quell’epoca: ero circondata da musicisti, fotografi, promoter di locali, gente che respirava l’arte e viveva di arte. Era una comunità in cui ci si sosteneva reciprocamente e una delle ragioni della mia paura è stata che ora mi trovavo lontana da quella comunità. Avevo anche il dubbio di stare semplicemente riciclando qualcosa che avevo realizzato in passato. Tuttavia, alla fine ho deciso che desideravo profondamente farlo e che questo stile musicale e questa estetica mi appartenevano realmente».
Come descriverebbe questo sound?
«Una fusione dei generi musicali che hanno contribuito a farmi innamorare della musica, quindi dentro c’è del rock classico, della disco music, della musica elettronica e del sound sintetico stile anni Ottanta. È una specie di selezione dei miei frammenti preferiti di brani che amavo ascoltare nella mia infanzia, tutto ciò che amo a livello di musica, ma unificato. Non è il mio modo abituale di procedere, al massimo talvolta nei miei dischi decidevo di creare una mia versione di un brano country».
Joanne.
«Esatto. Ma il modo in cui sono stata costretta a pensare alle donne nel mondo della musica – si parla molto del look e della veste estetica dell’album e del “brand” – aveva iniziato a influenzare il mio modo di fare musica».
Cosa intende dire quando afferma di essere stata «costretta»?
«Parlo del modo in cui ti dicono chi sei. Quando mi recai a Hollywood e suonai per la prima volta la mia musica per Interscope, vi fu una discussione su quale sarebbe stato il mio look. E io pensavo: sarò me stessa. Come mi sarei vestita? Indosserò ciò che indosso di solito quando mi esibisco. Ti inducono a iniziare a considerarlo un business, non una performance artistica».
Ci sono state occasioni in cui è stata trattata semplicemente come un prodotto?
«Sì. Mi sento sempre un po’ a disagio nel parlare di questo argomento perché sono estremamente grata per la carriera che ho avuto. Posso affermare anche in tutta onestà, considerato che sono nell’industria musicale fin da quando ero una ragazzina, che in parte si tratta di quanto sei disposto a rinunciare. Consumare i pasti a tavola insieme alla tua famiglia, questo non potrai mai farlo. Essere in una stanza da sola, non ti capiterà mai, sarai portata in giro, ti diranno dove andare. Sono certa che deve suonare strano alle persone esterne, perché ti vedono in cima al mondo e pensano che tu sia il capo, ma come donna nel mondo della musica direi che mi ci sono voluti 20 anni per diventare il capo. Ora effettivamente lo sono e questo grazie alle persone fantastiche che mi circondano, tra cui il mio compagno Michael. Sono combattuta su come trattare questo argomento perché, pur volendo riconoscere tutte le cose belle che ho avuto nella mia vita, voglio anche schierarmi a favore delle donne in questo settore. Non ci sono leggi che stabiliscono chi può diventare un produttore e i produttori non sono valutati da nessuno, pertanto quando hai 17 anni e vieni invitata in uno studio, non hai protezioni. Non sai dove stai andando, può anche non esserci nessun adulto con te nella stanza oltre alla persona con cui stai lavorando. Non è il più sicuro degli ambienti».
Mi piacerebbe conoscere la sua opinione sul discorso di Chappell Roan ai Grammy, quando ha parlato di come le etichette discografiche non supportano gli artisti con l’assistenza sanitaria o un salario minimo.
«Penso che Chappell Roan stia dicendo la verità e che sia coraggiosa a farlo; guardando il suo esempio, mi dico che quando ero giovane avrei dovuto combattere di più per me stessa. Ritengo che una donna che esprime il proprio pensiero sia qualcosa di potente, e sono stata veramente felice che lei lo abbia fatto».

Il suo compagno, Michael, è produttore esecutivo dell’album. Che influenza ha avuto sulla sua musica?
«Michael è stato in studio con me ogni giorno, supervisionando l’intero processo di realizzazione del disco, completandolo e aiutandomi a dare forma al sound in modo creativo. È una cosa fantastica da fare insieme al proprio compagno, perché quando inizio a dubitare di me stessa, non c’è nessuno che riesca a richiamarmi all’ordine meglio di lui».

Mi può fare un esempio?
«Certo. C’è stato un momento in cui sono stata sul punto di trasformare l’intero album in un disco di musica grunge».
E lui l’ha convinta a ripensarci? Avrei voluto ascoltarlo!
«C’è molto grunge nell’album. È stato subito dopo avere scritto Perfect Celebrity; quel brano mi ha fatto pensare “Ah, dovrebbe essere tutto così”, ma Michael ha osservato: “Hai scritto tantissima altra musica fantastica, e in tutti i generi sei sempre tu. Non devi sforzarti di essere qualcosa”. Mi sono detta che era un’osservazione davvero intelligente ed ero felice che l’avesse fatta perché mi capita spesso di inseguire una mia idea pazza e poi magari rimpiangere di averlo fatto».
Immagino che nella sua posizione le relazioni siano complicate, perché potrebbe dubitare che i sentimenti di una persona siano sinceri, chiedersi se voglia stare con lei o con l’idea che ha di lei. Come ha capito che l’interesse di Michael era sincero?
«Fin dal primo momento Michael si è mostrato estremamente affettuoso e gentile nei miei confronti, forse più di chiunque altro abbia conosciuto in tutta la mia vita. Era sicuramente una persona speciale, ma ciò che mi ha colpito maggiormente è che voleva sapere della mia famiglia. [Pausa] Scusate, mi viene da piangere».

Non si preoccupi.
«Ciò che sto cercando di dire è che sapevo che Michael era sincero perché voleva essere mio amico e non era interessato a nessuna delle cose che le altre persone volevano da me. A lui piaceva semplicemente fare delle passeggiate in mia compagnia, mi ha portato anche ad arrampicare in montagna. Sono affetta da una patologia dolorosa, ma lui era sicuro che sarei riuscita a sentirmi meglio e mi ha aiutato ad affrontarla con maggiore speranza. Quindi sì, so che Michael è sincero perché è mio amico».

Spero che non suoni banale, ma sono felice che abbia trovato un vero amico.
«Grazie, anch’io ne sono felice. Era molto dura, perché non è una bella sensazione faticare così tanto a farsi degli amici. La vera amicizia è una cosa molto speciale: si può stare seduti insieme in una stanza senza parlare, si possono fare delle lunghe passeggiate parlando della propria famiglia, ci si può entusiasmare per una nuova ricetta e provare a realizzarla. Ritengo che l’amicizia non dovrebbe essere opportunistica, tuttavia a quell’epoca ero circondata da questo tipo di atteggiamenti, pertanto è stata una vera benedizione incontrare qualcuno che non fosse così. Per me è stato come trovarmi in un mondo nuovo».
Gli artisti a volte diffidano di queste sensazioni di appagamento perché si ha l’idea che le migliori creazioni artistiche nascano in circostanze difficili. Non esistono molti modelli culturali in cui artisti felici creano dei capolavori.
«Penso che circondare di un alone di romanticismo gli artisti infelici sia estremamente negativo, soprattutto per le donne. Ciò che voglio è che le donne sentano di poter essere sane e felici, e che noi renderemo onore alla loro buona salute. Sono grata di essere ancora qui, perché la mia vita avrebbe potuto essere molto diversa. C’è stato un momento, precedente agli ultimi cinque anni, in cui mi sono trovata in un luogo veramente buio e in quel periodo non ritengo di avere creato la mia musica migliore».
Se guardiamo alla storia della musica pop, non troviamo molti artisti che con il passare degli anni non siano finiti per cristallizzarsi in leggende viventi o per rincorrere le tendenze del momento. Ci sono invece persone che hanno tracciato una strada che appare ancora percorribile?
«Quella che ritengo per me più significativa è stata tracciata da Tony Bennett. Tony era solito dirmi: “Metti sempre la qualità al primo posto, piccola”. Questo insegnamento mi faceva sentire felice e sicura: se mi fossi affidata al mio talento artistico non avrei dovuto avere paura. Ed è in gran parte ciò che questo album rappresenta per me, l’essermi semplicemente affidata alla mia capacità musicale. Mi sono detta che qualunque cosa accadrà nei prossimi 20, 30 anni di carriera, sarò sempre una musicista e sarò sempre un’artista e potrò sempre dedicarmi alla mia arte. Sono decisamente arrivata a un punto in cui conquistare le vette mondiali a 90 anni non è un obiettivo che mi entusiasma. Questa smania per la vittoria... Non so se sia sinonimo di grande musica».
Il suo punto di vista sarebbe diverso se non avesse già vinto tanto?
«In effetti mi pongo molto spesso questa domanda. Vedrei le cose in modo differente? Il mio modo di pensare è quello giusto? A volte quello che sento è solo rumore, e pressione. Anche se sono io stessa a mettermi maggiormente sotto pressione, tanto che talvolta devo impormi di fare qualcosa al 70 percento perché il 100 percento finirebbe per essere distruttivo. Mi sto preparando per il Coachella e sono davvero elettrizzata, ma questo mi è costato varie notti insonni, perché voglio fare un lavoro fantastico. Se avrò a disposizione una data e un arco di tempo, dalle 11 di sera all’una di notte, in cui far felice il mio pubblico, voglio far sì che questo accada».
Ai Grammy Awards, nel discorso di accettazione, penso che lei sia stata l’unica musicista a parlare esplicitamente a sostegno dei diritti delle persone transgender. Nel 2025 la sua missione di artista avrà anche un contenuto politico?
«Non mi interessa essere famosa e non prendere nessuna posizione. È un privilegio supportare persone così fantastiche e fin da quando ero molto giovane ho sempre nutrito una profonda ammirazione per la comunità trans e per la comunità LGBTQ+. Quando vinci un premio, hai 45 secondi per parlare mentre il mondo ti ascolta e volevo dire qualcosa di significativo per le persone che mi stanno a cuore. Personalmente non sono transgender, ma cerco di immaginare come mi sentirei se in questo momento mi svegliassi in America e come sarebbe vivere nel mondo di oggi. Occorre offrire supporto, mostrare gentilezza; non possiamo parlare a bassa voce di questi argomenti. Dobbiamo far sentire la nostra voce».
La gentilezza è ampiamente sottovalutata. Ha qualche suggerimento su come si potrebbe incentivare?
«Non sono un’autorità nel campo della gentilezza, ma la mia opinione è che non consiste solo in ciò che le persone pubblicano su Instagram. Si tratta di come viviamo la nostra vita. Di come dialoghiamo con gli altri, di chi ci sforziamo di essere amici, di come cerchiamo di comprendere le storie altrui. Come ci si può assicurare che vengano attuati comportamenti inclusivi e che valorizzano le persone? Non si può essere gentili solo quando qualcuno ci sta guardando, dobbiamo essere gentili sempre».
Ho letto una storia molto interessante, non so se vera, su di lei. Quando era molto giovane, si stava esibendo in un bar di Manhattan e c’erano alcuni ragazzi maleducati e chiassosi che non le prestavano attenzione. Il modo in cui riuscì ad attirare la loro attenzione fu quello di proseguire la sua performance indossando solo la biancheria intima. Quell’episodio le mostrò nuove possibilità per il tipo di artista che sarebbe potuta diventare, facendole scoprire che avrebbe potuto esserci un aspetto di esibizione artistica in ciò che faceva. Ha avuto qualche altra rivelazione di questo tipo più recentemente?
«Ero sicuramente un po’ esibizionista quando ero una giovane artista. Ero anche appassionata di “arte shock”, che ho studiato approfonditamente in quel periodo: trovavo estremamente interessanti le creazioni artistiche di Spencer Tunick, così come quelle di Sandy Skoglund e di Marina Abramovic. Ma a questo punto della mia carriera mi sento molto più a mio agio con la mia dimensione artistica e più sicura nel tracciare alcuni confini nel mio modo di assegnare le priorità. Per un certo periodo ho messo al primo posto la moda e i red carpet, elementi che hanno a che fare con l’arte, ma anche con il lavoro in sé. Ora li ho spostati un po’ in secondo piano e trascorro gran parte della mia giornata suonando il pianoforte e cantando, scrivendo brani, dedicandomi alla produzione. Con questo non intendo dire che l’arte del glamour non meriti rispetto, considerato che durante la mia carriera ho utilizzato i red carpet come palcoscenico per la mia arte».
Fungevano da supporto.
«Esattamente. Ora però provo una sensazione di libertà quando penso “prossimamente ho un red carpet, ma invece di passare settimane a pianificarlo, mi dedicherò a realizzare un altro album o a lavorare su un nuovo progetto.” La ragione per cui ne parlo è che negli ultimi 20 anni mi sono sentita tirata in tante diverse direzioni, ma ciò che mi rende più felice è lavorare sulla mia arte. Inoltre adoro cantare per la gente. Per quanto riguarda l’immagine, preferisco quando è costruita sul contenuto artistico e non solo sulla bellezza. Esiste un mondo a parte fatto di corsetti, diete, makeup e pressione, senza dimenticare la best-dressed list, e non intendo disprezzarlo. Ne prendo parte anch’io, ma trovo queste attività più faticose che realizzare un disco. Lo sento come un mondo sempre più distante da chi sono veramente».
Nel periodo in cui amava ricorrere a vari artifici e calarsi in diversi personaggi, non si sentiva mai psicologicamente destabilizzata?
«Assolutamente sì. A un certo punto avevo perso completamente il contatto con la realtà. Mi ero immersa così profondamente nella fantasia della mia opera artistica e nel personaggio che interpretavo sul palco, da avere perso il contatto. Non direi che calarmi sempre di più nella vita di un personaggio tormentato sia stata una buona cosa».
Però ha funzionato.
«In una certa misura immagino di sì. Credo che ad alcune persone piacesse veramente quell’aspetto di me, ma non piaceva a me ed ero molto infelice; ora mi sento di nuovo a posto. Qualche tempo fa sono tornata in un bar del centro che in passato frequentavo abitualmente. Ci andavo a metà giornata e ordinavo un whisky e una birra. È lì che trovavo i miei amici, la mia comunità di artisti. Negli anni successivi di tanto in tanto ci facevo un salto e mi sentivo estremamente triste, lontana dalla persona che ero stata quando vivevo lì, ma quest’ultima volta mi sono sentita come la vecchia me».
Dentro di lei non le viene il dubbio che la persona che è oggi sia solo un altro personaggio che interpreta?
«No, ma capisco perché me lo chiede».
“Ora sono veramente me stesso” è qualcosa che la gente dice spesso.
«Non ne dubito, ma diciamo così: anche in passato ero me stessa. Ero autenticamente me, solo che continuavo tutto il tempo a scindermi in diverse personalità. Ora la persona che sarei se venissi a pranzo con lei è la stessa che sta intervistando. Immagino che l’autenticità sia una cosa soggettiva, ma sento che ora riesco a tenere tutto insieme più facilmente».
Prima ha accennato a un periodo risalente a circa cinque anni fa in cui la sua salute mentale non era al top. Si sente di spiegarmi meglio cosa è accaduto?
«Sì, ho avuto una psicosi. Per un certo tempo non sono stata saldamente in contatto con la realtà. Questo disturbo mi ha causato un forte allontanamento dalla vita e ci sono voluti parecchi anni di duro lavoro per tornare a essere me stessa. È stato un periodo difficile e l’incontro con il mio attuale compagno si è rivelato una cosa davvero speciale. Anche se quando ho conosciuto Michael stavo già molto meglio, ricordo che agli inizi della nostra relazione mi disse: “So che potresti essere molto più felice di quanto sei.” Mi fece male sentirgli dire così perché non volevo che pensasse questo di me, volevo che mi considerasse una persona felice ed equilibrata. Ma è un capitolo di cui ho trovato sempre più difficile parlare. Odio sentirmi definita da quel malessere, è come se me ne vergognassi, anche se penso che non dovremmo provare vergogna per aver attraversato un periodo simile. Vorrei solo dire questo: le cose possono migliorare. È ciò che è accaduto a me e ne sono grata».
Come è riuscita a venirne fuori?
«Mi riallaccio a quando prima parlava di come all’inizio della carriera interpretassi dei personaggi. Ho dovuto trovare il modo di integrare completamente me stessa con il mio personaggio sul palco e in un certo senso infondere tutta l’energia di Lady Gaga nella mia vita quotidiana, ma in modo responsabile. E dare un senso a un paio di cose che non hanno un gran senso. Mi piace pensare di essere una persona gentile, ma dentro di me ci sono anche la ferocia, la durezza e l’intensità di quando mi esibisco sul palcoscenico. Ho dovuto quindi imparare a conciliare queste due anime affinché non si facciano la guerra e a non versare benzina sul fuoco. In passato amavo il caos, vivere la vita sempre al limite. Invece ora sono fiera di essere molto più noiosa».
Prima di iniziare l’intervista, mentre facevamo due chiacchiere, ho menzionato i miei figli e lei, con un po’ di malinconia, ha affermato: «Mi piacerebbe tanto un giorno avere dei figli». La preoccupa il fatto di avere dei figli e riuscire ancora a essere Lady Gaga?
«Niente affatto. Mi elettrizza l’idea di essere una mamma, anche se in passato nutrivo un sacco di preoccupazioni al riguardo. La cosa che ritengo più importante è non costringere i figli a vivere una vita che non si sono scelti, offrire loro il massimo spazio per scoprire da soli chi sono. Se i figli conoscono solo il lavoro della mamma, avranno una visione della vita molto limitata, mentre il mondo ha tante cose da offrire e voglio che i miei figli abbiano la possibilità di scegliere da soli chi desiderano essere. A volte mi sento un po’ combattuta mentre mi preparo a diventare presto, come spero, una mamma. Per esempio, oggi è tutto fantastico, ma l’intera giornata ha girato attorno a me e c’è un notevole grado di narcisismo in ciò. Come riuscirò a vivere una vita in cui dedicarmi con passione alla mia arte ricavando allo stesso tempo più spazio per altre cose?»
Direi che l’unico modo per trovare una risposta è vivere la vita.
«Certamente, vivendo la vita. L’uscita di Mayhem in un certo senso è il mio compleanno, ma forse verrà un tempo in cui sarà il compleanno di qualcun altro».