La Stampa, 23 maggio 2025
I referendum e la vittoria senza quorum
Filtra dal Pd una strana teoria alla quale si aggrapperebbero sia Schlein sia Landini in caso di invalidità per astensionismo dei referendum sul lavoro e sulla cittadinanza. E cioè: in caso di raggiungimento di 12 milioni di voti espressi (la metà o poco più di quelli necessari per raggiungere il quorum, nonché lo stesso numero di consensi raccolti dal centrodestra vincitore nel 2022) non si potrebbe parlare di sconfitta, ma si dovrebbe riconoscere una quasi-vittoria del fronte dei promotori. Perché ad essere battuta, in realtà, sarebbe stata la campagna astensionista promossa dai partiti del centrodestra, tranne Noi moderati, che ha annunciato che parteciperà alla consultazione. Questa teoria verrebbe rafforzata dallo spoglio delle schede, che solitamente viene fatto anche in caso di mancato raggiungimento del quorum) e ad esempio anche nel referendum del 1999, che rasentò la validità e non la ottenne per ventimila voti mancanti. La consultazione puntava ad abrogare la quota proporzionale del Mattarellum (la legge elettorale scritta dall’attuale Capo dello Stato, che assegnava un quarto dei seggi al voto per i partiti e tre quarti ai collegi uninominali). L’oltre novanta per cento di “sì” confermarono che il sentimento contrario alle forze politiche tradizionali sollevato dalle inchieste di Tangentopoli non si era ancora esaurito.
E tuttavia, allora, nessuno tra i promotori, che pure espressero ovviamente rammarico per il mancato ottenimento per così poco del risultato su cui puntavano, si sognò di dire che il referendum era stato vinto lo stesso. Né si tenne conto delle percentuali bulgare dei “sì” nel dibattito sulle successive leggi elettorali, che anzi andò in direzione opposta.
Questo per dire che quando una battaglia è persa, è persa, è inutile cercare di rivoltare la frittata. Anche se la sconfitta non incide ovviamente sulla buona fede e l’onore di chi l’ha subita. Basta ricordare che Renzi, sconfitto al referendum costituzionale del 2016, se ne uscì con una famosa battuta: «Volevo mandare a casa il Senato e gli elettori hanno mandato a casa me». Poi però aggiunse che il 40 per cento degli elettori che avevano votato “sì” erano per lui. Trascorsi due anni, alle elezioni del 2018, quella percentuale illusoria si era ridotta al 18 per cento.