La Stampa, 23 maggio 2025
Intervista a Isabella Santacroce
Il primo romanzo di Isabella Santacroce, Fluo, finiva così: «Voglio che il mio cuore batta sempre e voglio la vita addosso, il cielo sopra, la sabbia sotto e l’amore sempre tra le mani come un gelato al limone mangiato in riva al mare in un pomeriggio di maggio quando il più bello sta per cominciare e continuare come prima, così veloce, così immortale». Lo scrisse tutto su una Olivetti di cui funzionavano solo le lettere maiuscole. Era il 1995, l’anno dopo sarebbe stato battezzato il movimento letterario dei Cannibali, del quale fece parte (insieme ad Ammaniti, Brizzi, Scarpa, Nove). Era l’Italia di Berlusconi, dentro un Occidente compiaciuto e benestante, borghesissimo e molto vitale. Avere vent’anni era ancora disperatamente romantico e famelico. Chi esordiva, aveva a disposizione lo spazio aperto da Tondelli per le storie di esagitati, tossici, provinciali cyberpunk, e sperimentava una lingua, letteraria e realistica, per i loro sentimenti maiuscoli.
Santacroce diventò una scrittrice di culto, pubblicò Luminal e Destroy, la “trilogia dell’incoscienza”, che ora torna in libreria per Il Saggiatore.
Per alcuni anni, è stata famosa anche per la sua immagine: bambolina barracuda, dark gothic punk, prima apparizione inquietante e sexy, poi mistica. Poi, ha smesso di mostrarsi, e di lei ci sono arrivati solo libri (pochi, rari). Non parla al telefono, è difficile incontrarla, in calce alle mail scrive sempre «gelsomini blu per te».
Se googlo “Isabella Santacroce”, i primi risultati sono: “La scrittrice fiera di essere cannibale”. La fa ridere o la irrita?
«È il titolo che hanno scelto per una mia intervista dove mi dicevo orgogliosa di aver condiviso quel movimento letterario con grandi autori come Aldo Nove, Tiziano Scarpa e Niccolò Ammaniti. Se avessi potuto scegliere il titolo sarebbe stato sicuramente diverso».
Dopo i cannibali non c’è stato un altro movimento di scrittori. Perché?
«L’attributo “cannibale” andrebbe usato per indicare non tanto una scrittura violenta ma un gruppo di scrittori che hanno cannibalizzato tutto: film, musica, tv, pubblicità, sentimenti, vita. L’ultimo movimento letterario è stato questo, credo, e resiste ancora. Quello che per noi fu una novità fa parte del romanzo contaminato come lo concepiamo oggi».
Hanno sempre scritto che la sua è una scrittura violenta.
«La scrittura violenta la realtà. La violenza dell’arte è l’unica che concepisco».
Scriverebbe ancora: «Vorrei che tutti mi amassero. Maree di maschi e femmine e cani innamorati di me»?
«Sì, ma il sesso non c’entra con questo mio desiderio. Nel mio ultimo libro ho scritto che vorrei tutti mi amassero, e ho concluso scrivendo ciao mi chiamo Isabella».
Lei è una poeta che scrive romanzi?
«Mi sento solamente un tramite, uno strumento della scrittura. Ho iniziato a esistere davvero scrivendo, le scuole elementari sono state per me importanti per questo, un’illuminazione. Non mi faccio molte domande, e non sono nemmeno brava a rispondere».
La sua vita è un mistero. Perché tiene a mantenerlo?
«Non è per un mio volere, è solamente la mia natura. La vita è un mistero che spero almeno in parte di riuscire a mostrare nei miei libri».
Un verso di Emily Dickinson dice: «Essere un fiore è una responsabilità abissale». A cosa la fa pensare?
«Sulle pareti di casa mia ci sono diversi ritratti di Emily Dickinson, o meglio sempre lo stesso ripetuto più volte. È la mia compagna di scrittura, una presenza importante. In quel suo ritratto vedo un fiore dalla responsabilità abissale che non ha deluso la Natura».
Il corpo è natura?
«Il corpo mi permette di esistere, e di scrivere. Senza di lui potrei poco. E poi mia nonna paterna era un’esteta. Sempre curatissima, impeccabile, ha attraversato tempeste senza spettinarsi i capelli. La racconto in Magnificat Amour, ho sempre con me il suo ricordo».
La memoria è importante?
«La memoria è un inganno, un’arma a doppio taglio. Ci inganna nel bene e nel male. A volte crediamo di ricordare qualcosa di orribile quando forse in verità è un solo falso ricordo, e viceversa. Alla memoria preferisco la reminiscenza platonica dove a ricordare è la nostra anima».
Indaga sulle sue antenate?
«Sì, e la storia che più mi affascina è quella di mia nonna paterna, l’esteta. Era figlia di nobili, c’è sempre qualcosa di lei nei miei libri. Mi raccontava la sua adolescenza, di quando guardava da una grande terrazza la vita degli altri. Poi è scappata, era un’elegante ribelle.
Cos’è, per lei, la famiglia?
«La prima scuola, la più importante».
Si sente libera?
«Trascorro la mia vita creando ciò che amo, in questo mi sento libera, ma la scrittura esige tanto, serve grande disciplina. Per Carmelo Bene non esiste nulla di così vincolante come la libertà».
Come ha difeso la sua libertà?
«Mio padre mi ha insegnato l’importanza della libertà, gli devo molto. Scrivo da sempre i miei libri sentendomi libera di scrivere ciò che voglio, questo anche a costo di essere denigrata. Se così non fosse smetterei, farei altro».
Cos’è il pericolo?
«È il non riuscire ad avere coraggio e ad amare la paura».
Amavamo la paura negli anni Novanta?
«Ci sentivamo all’inizio di tutto, ora forse alla fine, anche se credo non sia così. Oggi rispetto ad allora è tutto più grigio, stanco e meno coraggioso. Se ripenso a quegli anni mi sembra di guardare al futuro da un passato lontanissimo. Abbiamo sostituito l’ignoto con una risposta già scritta».
Lei raccontava, in quegli anni, la spregiudicatezza, grandi assente del nostro tempo.
«Penso alla spregiuditezza come a un atteggiamento di indipendenza mentale e di non conformità alle convenzioni e alle regole imposte. Sui social c’è anche un tipo di spregiudicatezza che mi piace, quella degli animalisti, ad esempio, o di chi ha fatto scelte diverse dalla massa».
Ha riletto la trilogia?
«Sì. È stato ritornare dov’ero. Mi sono rivista scrivere Fluo su una Olivetti di cui funzionavano solo le maiuscole, viaggiare scrivendo Destroy, vivere solo di notte come Demon e Davi in Luminal. Non ho provato nostalgia: questi miei libri non si sono mai allontanati da me».
Cosa provò quando li scrisse?
«Sentivo e sento ancora di essere nell’unica vita che mi appartiene, e che mi chiede di vivere per raccontarla lasciandomi attraversare dalla sua forza».
Un verbo ricorrente in Fluo, Luminal e Destroy è “lumare”. Tra i primi a scriverlo in un romanzo è stato Tondelli.
«Tondelli è stato l’unico scrittore degli anni ’80 e ’90 a cercare forme di scrittura nuove e incontaminate, in questo era molto vicino all’arte contemporanea. Ho amato i suoi libri, però non è stato per me uno scrittore decisivo, leggevo soprattutto classici: Balzac, Huysmans, Potocki, Flaubert».
Ha detto di credere solo nell’incredibile. Dio, e poi?
«Tutto è incredibile, anche noi lo siamo. Penso a Gustavo Adolfo Rol. Aveva straordinarie capacità che sosteneva appartenere a tutti gli uomini, solo che non siamo ancora in grado di coglierle».
Siamo in piena apocalisse?
«Se penso all’apocalisse vedo cento televisori accesi a volume alto in una stanza».
Perché ci ossessiona la riproduzione?
«L’ossessione per la procreazione rivela l’angoscia della fine. Ma creare senso è una nascita più rara. Non è necessario fare figli per lasciare un’eredità».
Invecchiare la spaventa?
«La vecchiaia è il risultato naturale della ragione, che ci insegna ad affrontare la nostra finitezza con dignità. La cura non risiede nel semplice soccorso fisico, ma nell’autosufficienza morale che ogni individuo deve cercare di preservare».
Cos’è il potere?
«La possibilità di aiutare».
Quella che ha la politica. Le interessa?
«Non riesce a interessarmi, è lontanissima da me. Non leggo i giornali così come non guardo la televisione. Le notizie arrivano ugualmente. Vorrei vivere dentro il sole».
Mi dice una storia che ha scritto e mai pubblicato?
«Era la storia di una donna ossessionata da se stessa. Ho scritto diverse pagine, poi mi sono resa conto che non voleva parlassi di lei e l’ho lasciata sola».
Con Gianna Nannini continuate a vedervi o sentirvi?
«Ci sentiamo, ho collaborato per anni alla scrittura dei suoi testi, e prossimamente ci vedremo a Roma al Circo Massimo».
Che fa quando non scrive?
«Vivo oppure creo delle piccole opere dedicate a Emily Dickinson, ma per crearle scrivo con una penna bianca sul nero di gigantografie del suo ritratto. Quindi scrivo sempre».
Cosa direbbe a Meloni?
«Di leggere la mia trilogia dell’incoscienza».
E al Papa?
«Gli chiederei se considera degno di un essere umano nutrirsi dello strazio di un animale».