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 2025  maggio 23 Venerdì calendario

"Non vedo l’ora di tornare nello Spazio Lassù piansi sentendo il profumo di casa"

«Andare nello spazio è un’esperienza meravigliosa. Estrema, affascinante, unica Se ci tornerei? Certamente!»
Luca Parmitano, astronauta italiano dell’Esa (Agenzia spaziale europea), e colonnello dell’Aeronautica militare Italiana, è a Torino, ospite dello “Space Festival”, l’evento dedicato all’esplorazione spaziale. Ha effettuato due missioni per un totale di 366 giorni e 23 ore in orbita: la prima nel 2013 e la seconda tra il 2019 e il 2020. Ha anche compiuto sei passeggiate nello Spazio. In entrambe le missioni fu lanciato e rientrò sulla Terra seduto sul sedile di sinistra della navicella russa Sojuz. “AstroLuca” (il suo nome social) è arrivato da Houston a Torino e trascorre molto del suo tempo anche all’Eac di Colonia, il Centro addestramento degli astronauti europei. Ieri ha fatto visita alla redazione de La Stampa.
Un astronauta non è tale solo quando va nello spazio: di che cosa si occupa ora?
«In questo periodo sono spesso a Houston, al Johnson Space Center. Al momento sono l’unico europeo integrato nel corpo astronautico della Nasa. Svolgo un ruolo operativo in cui sono un istruttore della nuova classe di astronauti selezionati nel 2022, che si stanno preparando a completare il percorso di base o sono già in preparazione per le missioni sulla Stazione spaziale internazionale, sia per le passeggiate spaziali che per le attività robotiche».
Parliamo del Parmitano papà che ha trascorso trecento giorni nello spazio. Ha mai pianto quando era lassù?
«Si piange per tante ragioni. Per malinconia ed emozione. Io ho pianto il giorno in cui ho aperto il pacco che mia moglie mi aveva mandato. Dentro c’erano due pezzi delle copertine delle mie due bimbe. Ho sentito il profumo delle mie figlie. E ho pianto. Sono stato come riavvolto dal loro abbraccio».
Ciò che manca di più, quindi, è il contatto umano, anche se si è in compagnia di altri?
«Passiamo ore, magari da soli, a lavorare nei laboratori. Passiamo anche intere giornate senza vedere nessuno. Ma poi quando ci si rivede si creano alchimie. Quando si è lassù, con alcuni, si crea famiglia».
Quindi l’astronauta non è soltanto un uomo gelido che sa esattamente cosa deve fare?
«Quello è uno stereotipo del passato. Se ci penso mi vengono in mente uomini che erano gelidi, distaccati, e grandi professionisti. Oggi ci sono anche dei grandi comunicatori. Professionisti con i quali s’è creato uno scambio umano intenso».
Sulla maglietta che indossa c’è lo stemma di “Artemis”. È proiettato verso la Luna?
«A livello manageriale, seguo tutti i programmi in cui siamo coinvolti noi europei. E quindi anche quello del Gateway, cioè l’avamposto che verrà messo in orbita lunare. Di recente sono rientrato da un’esercitazione congiunta tra la Nasa e la Marina americana per il recupero degli astronauti della missione Artemis 2, che è quella che l’anno prossimo porterà un equipaggio intorno alla Luna a bordo della navicella Orion, che ha il modulo di servizio europeo, dell’Esa».
Il suo desiderio, sin da bambino, era fare l’astronauta?
«Sì, e prima ancora volevo diventare giornalista. Magari per fare delle inchieste, insomma un lavoro che, come quello dell’astronauta, non è di routine ma ti mette di fronte ogni giorno a cose nuove. Molto più tardi ho cominciato a cullare il sogno di fare l’astronauta, ammirando da ragazzino le missioni dello Space Shuttle e leggendo molti libri sull’astronautica. Sono diventato pilota perché, al di là della passione per il volo, poteva essere un modo per raggiungere lo spazio».
Che poi ha raggiunto.
«Sì, con la selezione Esa del 2009. C’erano 8.000 richieste da tutta Europa. Ero scettico. Ma il mio comandante in Aeronautica mi disse: provaci, anche perché l’unico modo per essere sicuro di non farcela è di non provarci».
La Luna è la prossima frontiera. E Marte è ancora lontano?
«Ci vorrà tempo, poiché vi sono aspetti di complessità ancora da risolvere rispetto alla Luna. Per Marte è necessario un viaggio di sei mesi solo per l’andata e altrettanti per il ritorno, e in certi momenti dista 400 milioni di chilometri da noi. Però c’è grande interesse della comunità scientifica, e quando coincidono volontà politica e interesse scientifico è possibile fare dei grandi passi anche temporali per raggiungere un grande obiettivo. Credo che siano necessari circa dieci anni. Quindi, al momento, puntiamo alla Luna».
Come europei ci manca un veicolo spaziale. C’è un progetto per realizzarlo?
«Già nel 2022 noi europei presentammo un nostro manifesto in cui sottolineavamo la necessità di avere un’indipendenza di accesso allo spazio. E c’è un programma alla cui guida c’è la collega astronauta italiana Samantha Cristoforetti, che è impegnata per lo sviluppo di una navetta da trasporto cargo che possa rientrare sulla superficie terrestre, dal nome Leo Cargo Return Service. È un progetto Esa, molto avanzato. Il precursore necessario è avere una navetta che rientri sulla Terra in modo sicuro per poi sviluppare una capsula per il trasporto umano». —