La Stampa, 23 maggio 2025
L’antisemitismo in crescita costante Ma il vero allarme è il linguaggio
Gli investigatori dell’Fbi e della polizia stanno esaminando attentamente gli scritti e le affiliazioni politiche dell’uomo fermato per l’uccisione di due funzionari dell’ambasciata israeliana, fuori dal Capital Jewish Museum di Washington. Durante l’arresto, gridava “Free Free Palestine”. «Un assassinio a sangue freddo in un luogo ebraico, dove è in corso un evento ebraico (un ricevimento dell’American Jewish Committee, ndr) non lascia spazio a dubbi: è odio antisemita». Premesse e deduzione sono di Carl Yonker, uno degli autori dell’ultimo Rapporto sull’antisemitismo nel mondo del Center for the Study of Contemporary European Jewry dell’Università di Tel Aviv. Qualsiasi altra analisi è «fuori luogo». Un omicidio è un omicidio, un’aggressione è un’aggressione. «Ma per qualche ragione – aggiunge Yonker – quando si parla di antisemitismo, a differenza di altre forme di razzismo e odio, le persone cercano di giustificarlo in qualche modo. È uno dei fenomeni che esaminiamo continuamente nei nostri report».
Parlare di antisemitismo significa affrontare una forma d’odio che attraversa secoli, muta linguaggio, si traveste. Il termine “antisemitismo” non nasce con la Shoah o con il nazismo. Risale al 1879, lo conia il giornalista tedesco Wilhelm Marr per indicare le campagne antiebraiche in corso nell’Europa centrale in quel periodo. L’antisemitismo nazista, che culmina nella Shoah, è una variante “scientifica” che acquista una dimensione razzista in quanto prende di mira gli ebrei a causa delle loro presunte caratteristiche biologiche. Oggi, chi odia raramente si definisce “antisemita”. Preferisce dire: «sono antisionista», «non ho nulla contro gli ebrei, ma...», «Israele è uno Stato razzista, colonialista, genocida». L’odio passa, mimetizzato dentro il lessico dei diritti. È quanto emerge dal rapporto della Tel Aviv University, ma anche dallo studio dell’Osservatorio Antisemitismo della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (Cdec) che punta l’attenzione sulla situazione italiana.
Il report israeliano segnala un calo del numero di episodi nel 2024 rispetto al 2023 in diversi Paesi con una consistente popolazione ebraica. In Francia si sono registrati 1.570 episodi antisemiti nel 2024 e 1.676 nel 2023. Nel Regno Unito, nel 2024 ci sono stati 3.528 fenomeni di antisemitismo, nel 2023 erano stati 4.103. In diversi altri Paesi, tra cui gli Stati Uniti, il trend è stato inverso: nella sola città di New York sono stati 344 i crimini d’odio anti-ebraico nel 2024, 325 nel 2023 e 264 nel 2022.
Un dato controintuitivo che emerge dall’inchiesta israeliana dice che gli episodi antisemiti nel mondo hanno raggiunto il loro apice subito dopo il 7 ottobre del 2023 (dopo l’assalto di Hamas alle comunità israeliane attorno alla Striscia di Gaza) più che nelle fasi avanzate della guerra che ne è scaturita. «È quindi necessaria una triste resa dei conti – si legge nell’introduzione -: l’antisemitismo ha mostrato la sua forma più violenta quando lo Stato ebraico è apparso più fragile. Non quando si è mostrato più spavaldo».
Ma il dato più preoccupante, secondo entrambe le ricerche, non è numerico. È semantico. L’antisemitismo, oggi, non è solo un “odio contro gli ebrei” generico: ha una grammatica, un simbolismo e miti propri. E si manifesta in forme nuove, spesso mascherate da critica politica o da difesa di altre cause. Ecco perché il rapporto dell’università israeliana parla apertamente di una nuova forma ibrida, «in cui l’odio razziale si traveste da coscienza politica, l’intolleranza da attivismo e il pregiudizio da resistenza». Una formula che semplifica, polarizza ed esonera dall’affrontare la complessità. Soprattutto, assolve.
In Italia, nel primo trimestre del 2025, l’Osservatorio Antisemitismo ha registrato 191 episodi, di cui 86 nel solo mese di marzo. La maggior parte si è verificata sul web: 65 sono stati atti di “Antisemitismo 2.0”, i restanti 21 sono accaduti nel mondo fisico e materiale. Le piattaforme più praticate per dare sfogo a invettive antisemite sono state Facebook (36 casi), TikTok (10) e Instagram (7). L’obiettivo preferito per diffamazioni, insulti e minacce? Liliana Segre. Articoli, dichiarazioni, apparizioni pubbliche della senatrice a vita scatenano la valanga di odio. Chi la insulta non si firma con nome e cognome ma con un linguaggio ossessivo: gli ebrei come manipolatori, burattinai, avari, crudeli e la fantasia di un nuovo Hitler: «maledetto baffetto, perché fallì con lei?».
Roma, Milano, Torino sono le città dove maggiormente l’antisemitismo è sceso in piazza. Il 6 marzo a Roma, davanti al cantiere del futuro Museo della Shoah, qualcuno ha lasciato una testa di maiale, escrementi e volantini imbrattati di sangue finto. Nella scala di «severità» tracciata dall’Osservatorio, da 1 a 5, l’episodio è dato di livello 4. A Torino, l’11 marzo, un convegno contro la violenza antiebraica nelle università è stato annullato mezz’ora prima dell’inizio, per «motivi di ordine pubblico». Gli studenti filo-palestinesi avevano già circondato l’aula. Avevano portato cartelli con il triangolo rosso rovesciato: lo stesso usato da Hamas per segnalare obiettivi ebraici. Livello di severità 3. Stesso copione, questa volta aggravato da aggressioni fisiche ai danni degli studenti ebrei, si è ripetuto al Campus Einaudi di Torino anche il 15 maggio.
A preoccupare, è soprattutto l’indifferenza e l’accettazione passiva dell’antisemitismo, entrambi fenomeni in crescita. E la normalizzazione. Il fatto che certe frasi vengano dette – o scritte – senza conseguenze. Il fatto che in certi ambienti – accademici, culturali, persino istituzionali – l’odio verso chi è percepito come ebreo sia considerato una posizione legittima. Secondo l’Osservatorio, è «importante riconoscere che i gruppi che promuovono contenuti antisemiti sotto le mentite spoglie del dibattito politico sulla guerra tra Hamas e Israele non sono reti spontanee di cittadini comuni. Si tratta piuttosto di organizzazioni strutturate che mirano a raccogliere sostegno e controllare gli spazi di discussione».
Le leggi esistono, le definizioni internazionali pure. L’Italia ha recepito quella di “antisemitismo” secondo l’International Holocaust Remembrance Alliance (Ihra). E, con la legge n. 115 del 2016, ha introdotto l’aggravante penale per chi nega la Shoah, i genocidi e i crimini contro l’umanità o di guerra, rafforzando le pene per chi diffonde propaganda o incita all’odio razziale, etnico o religioso. Ma le piattaforme social restano zone franche. Per paradosso, in un’epoca che celebra ogni identità, i dati indicano che quella ebraica torna a essere pericolosa da dichiarare.