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 2025  maggio 22 Giovedì calendario

Intervista a Livio Macchia

Un inizio come tanti («andavamo a scuola insieme, eravamo appassionati di musica, abbiamo avuto i primi successi e abbiamo pensato di dedicarci seriamente alla musica»), i concerti nei club («la gente era entusiasta, facevamo un genere che non faceva nessuno, musica che arrivava da oltreoceano»), un’epopea che attraverso mille cambi di formazione è arrivata a 60 anni di attività. Tra i pochi riferimenti fissi dei Camaleonti c’è Livio Macchia che con i suoi capelli ricci elettrificati e i baffoni a manubrio ha dato anche un’impronta estetica ai Camaleonti, nati nel 1965 su iniziativa di tre ragazzi: lui, Riki Maiocchi e Paolo De Ceglie.
Agli inizi c’era anche Teo Teocoli.
«Voleva cantare a tutti i costi, per lui abbiamo adattato delle canzoni napoletane in chiave rock».
L’avete fatto fuori?
«Ma no, ha trovato la sua strada. Era molto divertente, un giullare, un matto dal carattere forte, uno che si faceva valere e non le mandava a dire».
La vostra casa discografica gravitava intorno al Clan Celentano. Com’era Adriano?
«Divertente come lo vedi. Poi da quando ha conosciuto la moglie – come Lucio Battisti – è cambiato: lei se lo teneva gelosamente stretto».
E Battisti prima del matrimonio?
«Molto affabile. Viveva nello stesso palazzo di Paolo (De Ceglie, lo storico batterista): lui al primo piano, Battisti al quinto. Tutte le sere ci trovavamo, mangiavamo insieme, giocavamo a carte, facevamo musica, andavamo al cinema. Lì è nata la canzone Mamma mia, ce l’ha regalata lui. È stato e sarà sempre il numero uno».
Il testo era di Mogol.
«Lui tentava di cantare per spiegarci le canzoni, ma non ci riusciva mai».
Avete fatto un Sanremo con Ornella Vanoni.
«All’epoca eravamo incoscienti, non ci interessava, eravamo reduci dai successi di L’ora dell’amore, Applausi, Io per lei. E poi lì, con lei, abbiamo cantato Eternità, che è stato un altro successo».
Ornella? Simpatica e matta?
«Esatto. È come la vedi adesso, simpaticissima, matta come una campana, quando siamo saliti sul palco ci ha guardato e ci ha detto: me la sto facendo addosso. Quel palco è così, mica semplice».
Gli inizi al Santa Tecla a Milano.
«Eravamo sempre con gli strumenti in mano: al pomeriggio facevamo le prove, la sera si suonava sei – sei – ore di fila: impegnativo ma un divertimento unico».
Vi nota Miki Del Prete, collaboratore e paroliere di Celentano.
«Suonavamo un pezzo, Sha... la la la la, una mezza scemata di canzone, ma la gente la ballava e andava nei negozi di dischi a chiederla. Solo che il brano non esisteva. Alla fine Miki ce l’ha fatta incidere, ma solo dopo due anni che la cantavamo: abbiamo venduto 400mila copie».
Siete stati la via italiana al Beat. Come usava allora eseguivate cover in lingua italiana di brani celebri, ma affrontavate anche generi diversi: da lì il nome Camaleonti.
«Improvvisavamo, genere americano e italiano, suonavamo Claudio Villa e musica soft, il liscio per i più grandi, il rock per i più giovani. Eravamo ragazzi, non ce ne fregava di niente e di nessuno».
Nel 1973 avete registrato «Perché ti amo» e avete vinto Un disco per l’estate.
«E pensare che la nostra casa discografica non credeva in noi, dicevano che avevamo esaurito la vena artistica. Appena abbiamo vinto, hanno cambiato idea, non ci hanno voluto più mandare via e ci hanno dato pure dei soldi».
Il concerto più strano?
«Sotto la neve in Abruzzo. Nevicava di brutto, ci siam fatti prestare gli ombrelloni dai chioschi lì intorno e la gente ci proteggeva con quelli».
Concerti privati, ingaggi da favola.
«Quattro serate al Sankt Moritz Palace Hotel. Ci pagavano molto bene, una bella cifra, chi si ricorda quanto. Stauros Niarchos, il miliardario rivale di Onassis, aveva chiesto di farci suonare a 4000 metri a Capodanno. Con quel freddo non si suona, siete pazzi. Abbiamo lasciato perdere».
C’era anche John Lennon.
«L’abbiamo conosciuto lì. Ballava uno di quei balli cretini: tutti in pista e poi all’improvviso si buttavano per terra e stavano fermi».

Per due anni è passato nel gruppo anche Mario Lavezzi.
«Ci ha portato una ventata di freschezza. Solo che a un certo punto è partito per il militare e quando è tornato non lo abbiamo ripreso nella band. È stata la sua fortuna perché subito dopo si è accasato con Battisti e Mogol. Ogni volta che lo incontro glielo dico: il nostro no è stata la tua svolta».

La spesa più folle?
«Non ero uno da macchine, a me bastano quattro ruote e un motore. Ho puntato sul mattone».
Il gruppo rivale?
«Andavamo d’accordo con tutti, però Equipe 84 e Nomadi se la tiravano un po’ a dirla tutta».
A Sanremo un anno siete andati con i Dik Dik e Maurizio Vandelli degli Equipe 84. Scrissero che il vostro era «pop giurassico».
«Come passa il tempo aveva un testo bellissimo, Baudo ci disse che avremmo vinto, ma il brano non è stato capito e ci hanno eliminato subito. Una giornalista molto stronza scrisse che il nostro era pop giurassico, ma non aveva capito niente nemmeno lei».
«Cuore nerazzurro» diventò l’inno dell’Inter.
«Io non amo il calcio, Tonino (Cripezzi, la storica voce) era milanista. Lo cantavano in tutto lo stadio, era bellissimo».
Poi l’inno ve l’ha fregato Ligabue.
«Ci sta, si cambia. Ligabue però non mi piace, fa canzoni tutte uguali. Mille volte meglio Vasco Rossi, anche se non canta, ma parla».
Le figure di spicco del gruppo non ci sono più. Riki Maiocchi chi era?
«Un gran bel cantante, il suo vibrato naturale lo copiavano tutti, ma quando lo imitavano gli altri lo sentivi che era forzato. Era un pazzo scatenato. Un ribelle. Una sera eravamo a suonare in Versilia – gente bellissima, tante gnocche, quelle non mancavano mai, ambiente elegante —, a un certo punto lui dice che esce un attimo e torna subito: non l’abbiamo più visto. Sparito. L’abbiamo incontrato l’anno dopo a Sanremo».
Paolo De Ceglie?
«Mi è rimasto ne cuore, un simpaticone, faceva scherzi, gli piaceva divertirsi. E gli piacevano le donne ovviamente».
Tonino Cripezzi?
«Era un rompipalle, voleva sempre lavorare. E un gran spendaccione, si comprava le macchine, ne cambiava una all’anno. È morto tre anni fa e mi manca ancora tantissimo».
Il Festival di Sanremo lo guarda?
«Non me ne faccia parlare. Oggi si guardano solo le visualizzazioni e gli streaming. L’ora dell’amore ha venduto 2 milioni di copie, come royalties erano bei soldi, a quei tempi ti compravi una casa. Con sei milioni di streaming oggi compri un cartone di uova».
Molti cantanti di lungo corso però ci vanno.
«E mi chiedo perché. Cosa ci sono andati a fare Marcella Bella e Ranieri? Infatti sono arrivati tra gli ultimi».
Una canzone le sarà piaciuta.
«L’unica canzone carina era Cuoricini Cuoricini che sembra una canzone da bambini. Però mi chiedo: vai per i 50 anni e non ti vergogni a cantare una canzone così? Piuttosto vai allo Zecchino d’oro».
Lei come vive i suoi 83 anni?
«Invecchiare non è facile, devi abituarti a camminare più lentamente, devi dire addio a chi eri. A quest’età abbiamo meno futuro e più passato. La vita è questo e con il passare degli anni la apprezzi ancora di più».
Paradiso o Inferno?
«Spero nel Paradiso, sono stato troppo bravo, mi vogliono tutti bene, abbiamo vissuto una grande, bellissima avventura. Amo ancora stare sul palco, 60 anni di attività sono un record, mi manca la piazza, le luci, le prove. Pure i selfie della gente anche se sono una rottura di palle».