repubblica.it, 22 maggio 2025
Depardieu, Diddy e tutti gli altri
L’altro giorno leggevo – cioè scrollavo, ma con intensità filosofica, quindi diciamo “leggevo” – l’ennesimo aggiornamento sul caso Gérard Depardieu. Depardieu, cioè: l’uomo, l’icona, la massa continentale recitante, il volto della virilità francese che per decenni ha rappresentato, nei film e nei formaggi, quel certo tipo di maschio alpha ma ironico – e che ora è diventato un patchwork umano di testimonianze agghiaccianti. E ho pensato: ecco, un altro uomo che sono, se non costretta, almeno fortemente incoraggiata a odiare. O meglio: un altro uomo che, con perfetta indifferenza sistemica, pretende il mio odio. Me lo estrae dal tempo libero. Tipo: “Ciao, sono l’ennesimo tipo famoso che ha fatto qualcosa di profondamente schifoso, e adesso tocca a te gestire le implicazioni emotive, morali, ideologiche e – ah, già – biografiche, perché magari mi hai pure amato artisticamente per anni”. E poi su YouTube mi compare anche Puff Diddy. Sì, lui. Il produttore, il rapper, l’imprenditore, l’uomo dalle mille identità (Puff Daddy, P. Diddy, Diddy, Sean Combs, Sean John). Ora accusato sullo stesso balcone dell’orrore.
E allora via, giù nell’inventario anche lui: archiviato tra i “miti pre-adolescenziali che adesso mi danno i conati”. E quindi faccio un elenco, una specie di dossier del male che non volevo ma che adesso occupa spazio mentale come una stampante multifunzione rotta piazzata in soggiorno. Polanski, ovviamente. Ogni volta che qualcuno dice “ma resta un grandissimo regista”, io penso che certo, anche Jack lo Squartatore era un chirurgo notevole, tecnicamente. Woody Allen è peggio. Peggio perché lo stile è confidenziale, è affettuoso, è pieno di tic e nevrosi che avevo interiorizzato come mie. E poi si scopre che forse c’era un sottofondo tossico in tutta quella poetica del desiderio maldestro. E quindi ora anche Io e Annie è contaminato. Come un vecchio peluche che scopri essere stato infestato da tarme invisibili. E Kevin Spacey? Kevin Spacey è l’equivalente emotivo del vino rosso versato sul tappeto bianco: un disastro che non riesci a guardare né a ignorare. Perché ti piaceva, oh se ti piaceva. E ora è tutto compromesso, e la metafora di American Beauty diventa un’eco sgradevole che ti rimbalza nella testa ogni volta che vedi una rosa. E sì, anche i fiori sono compromessi adesso. E il punto non è neanche più chi. È quanti. E quanto spesso. E quanto tempo ti ruba questa continua vigilanza etica. Perché io potrei fare altro, davvero: potrei cucinare cose complicate che nessuno mangia, potrei imparare a fare origami o a usare bene il trapano (cioè, davvero bene), potrei coltivare una passione per le barche a vela pur vivendo in città. Potrei leggere Proust per piacere, non per autodifesa. Ma invece no: mi tocca stare aggiornata, pronta, con la lista delle accuse e dei link e dei comunicati e delle interviste e delle smentite e dei documentari da guardare in apnea, tutto per non passare per quella che non sapeva, che “eh, però separiamo l’uomo dall’opera”.
E allora, per favore: basta. Almeno un giorno a settimana, datemi l’oblio selettivo. Una modalità aereo per l’anima. Un giovedì libero dal disgusto. Perché diciamocelo: questa cosa del “separare l’opera dall’artista” è un affare nostro. Nostro nel senso di “donne”, nel senso di “lettori e spettatori con un senso etico che si attiva prima della fine dei titoli di coda”. Gli uomini – quelli che fanno parte della cultura dominante da sempre non hanno mai dovuto farlo. Non c’è mai stato un momento in cui un uomo medio si è seduto davanti a una sinfonia di Wagner pensando: “ecco, ora devo scindere la magnificenza musicale dall’antisemitismo patologico che la sostiene come una struttura portante in acciaio emotivo”. Non succede. Gli uomini ascoltano Wagner e basta. Guardano Manhattan e pensano che Diane Keaton fosse molto chic, punto. Non si fermano a pensare che Allen stava con una diciassettenne anche nella realtà, che quella non era una fantasia: era documentazione travestita da finzione. Ma chi se ne importa? Il punto è che il jazz era bellissimo. E lo stesso vale per mille altri esempi. Caravaggio? Un genio. Certo, anche un assassino. Ma vuoi mettere la luce nei quadri? Céline? Antisemita patologico, ma oh, la prosa. Bukowski? Violento, misogino, alcolista – ma ehi, “scriveva con le budella”. Gli uomini crescono imparando che l’arte li assolve, anzi: che l’arte è più vera proprio perché nasce dal lato oscuro. Come se la violenza fosse un pigmento necessario, come se l’umiliazione femminile fosse un dettaglio stilistico.
E così, a loro viene concesso di ammirare in pace. Noi siamo costrette a guardare attraverso. E forse, il vero privilegio patriarcale è proprio questo: non dover pensare così tanto. Tutto il tempo.