repubblica.it, 22 maggio 2025
Intervista a Umberto Galimberti
Sta scrivendo un nuovo saggio il filosofo Umberto Galimberti. Nello studio della sua casa milanese piena di libri e di luce, salva il file sul computer prima di iniziare questa chiacchierata sui segreti. «È un libro sulla verità», anticipa, «un tema necessario in questo momento».
Il segreto è l’antitesi della verità?
«La prima forma di segreto sono le bugie dei bambini. E dirle è importante perché rappresentano il primo passo verso l’emancipazione nei confronti dei genitori. Quando un figlio mente significa che non vuole dire qualcosa che sa, perché ha paura delle ripercussioni. In questo modo compie una scelta che necessariamente lo porta a distanziarsi dal padre e dalla madre. È un passaggio fisiologico: cresciuti in un rapporto d’amore verticale – quello incondizionato di chi ci ha messi al mondo – dobbiamo addentrarci in quello orizzontale, cioè condizionato, che regola l’amicizia e le relazioni».
Insomma, custodire il primo segreto è una forma di emancipazione necessaria.
«Esatto. Crescendo poi, penso che andrebbe mantenuta segreta la propria interiorità. E invece, ormai da anni, rivelarla è diventata una forma di intrattenimento».
Pensa alla televisione?
«Sì, a tutte quelle trasmissioni – da Maria De Filippi in poi – in cui viene chiesto ai protagonisti di mettere in pubblico la loro intimità senza rendersi conto che farlo significa disfarsene, perché poi è persa. Questi show si basano su un trucco, quello di vendere come sincerità la spudoratezza. Tendiamo a pensare che il pudore sia una questione di corpi, ma non è così: mostrare le gambe va anche bene, mentre spogliare l’anima è molto peggio».
Dobbiamo tenercela stretta.
«Sì, anche perché, io penso che la forma più alta di segreto sia con noi stessi. Eraclito diceva: “I confini dell’anima non li potrai mai trovare, per quanto tu percorra le sue vie; così profondo è il suo logos”. Insomma, non conosceremo mai profondamente neppure noi stessi. Questa consapevolezza è fondamentale anche nei matrimoni».
In che senso?
«Il matrimonio funziona se ho un concetto del partner come altro da me e non come mia proprietà. Mi innervosisco quanto sento dire “mia moglie”, “mio marito”, “mio figlio”: non c’è nulla di nostro. “Volo ut sis”, voglio che tu sia quello che sei, è una delle poche frasi che apprezzo di Sant’Agostino. Se vuoi sposarti devi vivere l’alterità del partner come una fonte inesauribile di curiosità, sapere che non arriverai mai in fondo alla sua anima deve essere uno stimolo. Insomma, è bene che ciascuno tenga un segreto dentro di sé, perché la vera alterità non crea distanza, ma una sana tensione reciproca. Certo non parlo di segretucci e tradimenti, ma di interiorità».
Visto che non parlerò di anima, posso farle una domanda?
«Certo».
Ha insegnato per anni all’Università Ca’ Foscari di Venezia, riempiva l’aula magna e venivano ad ascoltarla da tutte le facoltà. Oggi gira l’Italia portando le sue conferenze nei teatri e fa sold out. Qual è il suo segreto?
«Pensi che io a scuola sono sempre andato maluccio, mi ci hanno mandato un anno prima e ho fatto una gran fatica. In seconda liceo scrissi due righe di saluto a un professore che andava in pensione e lui mi disse: “Umberto neanche un biglietto sai scrivere in italiano!”».
E poi?
«E poi, proprio quell’anno, mi sono ritirato dal seminario e ho iniziato a studiare da solo il programma della seconda e della terza liceo classico. Mi sono messo sui libri e ho chiesto solo una mano per trigonometria a un amico dell’oratorio che si stava laureando in matematica. All’esame di maturità ho preso tutti 8, 9, 10. Hanno pubblicato il mio tema sul giornale di Varese e ho vinto due borse di studio».
Cosa era successo?
«Ho capito che se uno mi insegna io non imparo. Per me, l’unico modo per imparare è studiare da solo».
Eppure è diventato un grande insegnante.
«Il mio segreto, questo lo posso dire, è aver insegnato 15 anni al liceo prima di arrivare all’università. È stato fondamentale perché a scuola hai il dovere di preoccuparti se gli alunni ti capiscono. Questo è stato importante anche per l’analisi: non è sufficiente che tu dica al paziente qual è il suo problema, bisogna che ci arrivi lui e il compito dell’analista è quello di metterlo sulla buona strada».
Quindi tornare nel liceo che lei aveva abbandonato alla fine si è rivelato fondamentale.
«Sì, e in fondo sono anche grato al seminario perché mi ha permesso di sentire una predica al giorno – di quelle belle, potenti, come si faceva nel Seicento – ed è così che ho imparato la retorica. Ancora adesso, nei teatri, ogni tanto chiedo al pubblico se ha capito. E se non mi convince ripeto, a volte alzo anche la voce. In fondo la filosofia è divulgazione, Socrate scendeva in piazza e chiedeva: “cos’è la giustizia?” E poi iniziava la discussione».
Ma lei quando ha capito che la filosofia era la sua strada?
«La verità è che avrei voluto fare medicina, ma costava troppo e allora ho ripiegato su filosofia. Nessun segreto, è stato il caso».