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 2025  maggio 22 Giovedì calendario

Diamanti senza trono, il misterioso tesoro reale che nemmeno i Savoia possono toccare

Il tesoro segreto dei Savoia continua a brillare nell’ombra di un caveau blindato della Banca d’Italia. Con l’ennesima sentenza sfavorevole emessa la scorsa settimana dal tribunale civile di Roma, i discendenti dell’ultimo re d’Italia vedono sfumare ancora una volta il sogno di mettere le mani sul cofanetto nero sigillato che contiene diademi, collane e pietre preziose dal valore inestimabile.
Ma la battaglia non si ferma: mentre Emanuele Filiberto annuncia l’assalto alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, determinato a rivendicare quello che considera un patrimonio familiare, arriva la stoccata del cugino rivale Aimone d’Aosta: «Quei gioielli non sono suoi, appartengono alla Corona. Piuttosto insieme per esporli agli italiani in un museo, magari proprio a Torino». Una faida reale che riaccende i riflettori su uno dei tesori più misteriosi e inaccessibili del Belpaese. Tra storia d’Italia, testimonianze di grandi statisti, cavilli legali a Regi Decreti e cause milionarie, l’avvincente telenovela continua...
Quel misterioso astuccio di pelle nera
I gioielli di Casa Savoia sono custoditi in un astuccio in pelle nera delle dimensioni di cm. 39x31x20 rivestito di carta catramata e sigillato con sigilli in ceralacca. Esattamente cosa sia contenuto non lo sa nessuno. Nel libro “Gioielli di Casa Savoia” (scritto dallo storico del gioiello Stefano Papi con la principessa Maria Gabriella di Savoia) si parla di diverse parure acquistate da Carlo Alberto a metà Ottocento per farne dono a Maria Adelaide, moglie di Vittorio Emanuele II.
Nei documenti si trova poi traccia di 30 diamanti di taglio circolare del peso di 408 grammi, pari a 102 carati odierni montati dall’orefice Gaetano Bartolino in una collana. Moltissimi sono i pezzi realizzati dal gioielliere Musy di Torino tra cui diademi, orecchini e bracciali. Un diadema ordinato da Umberto I è composto da undici volute di brillanti, con 11 perle a goccia, 64 perle circolari, 1040 brillanti, 541 diamanti del peso di 1167 grani, pari a 2092 carati. Ma realmente di questi gioielli non si sa cosa è conservato nella Banca d’Italia. All’indomani del Referendum del 2 giugno 1946 re Umberto II, nel lasciare l’Italia per l’esilio, lascia in custodia il cofanetto alla Banca d’Italia.
La causa allo Stato italiano
Il 26 gennaio 2022, al termine di un tentativo di mediazione, Casa Savoia (gli eredi di Umberto II, (Vittorio Emanuele, Emanuele Filiberto, Gabriella di Savoia, Maria Pia di Savoia e Maria Beatrice) cita in giudizio la presidenza del Consiglio, il ministero dell’Economia e la Banca d’Italia per la restituzione.
L’avvocato Sergio Orlandi di Roma, in rappresentanza dei principi, ribadisce: «Il Tribunale non ha attribuito valore decisivo ai diari del Governatore della Banca d’Italia, Luigi Einaudi, poi Presidente della Repubblica Italiana. Einaudi ha affermato: “Potrebbe ritenersi che le gioie spettino non al demanio dello Stato, ma alla famiglia reale” e riporta anche l’opinione del presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, pienamente d’accordo con lui».
Il cavillo legale. Cos’è la “Dotazione della Corona”
Ma allora di chi sono i gioielli e come mai il tribunale di Roma rigetta la causa intentata da Casa Savoia?
La questione sta in una dicitura precisa: i gioielli sono classificati come “dotazioni della Corona”. Quindi a chi appartengono? «Alla Corona – risponde l’avvocato cassazionista Alessandro Sacchi, presidente dell’Unione Monarchica Italiana –; questo vuol dire che possono essere utilizzati come gioielli da indossare nel momento in cui ci saranno un giorno in Italia nuovamente un re e una regina, chiunque essi siano, magari neanche Savoia, per l’esercizio della loro funzione di monarchi».
E nel frattempo? «Nel frattempo – continua Sacchi – rimangono nel caveau della Banca d’Italia in deposito, come è ora, in attesa che la Corona li possa nuovamente utilizzare. Siccome in Italia non c’è la Corona, non possono essere indossate. Non sono né della Banca d’Italia, né sono di proprietà personale dei discendenti di Casa Savoia».
Come venivano indossati i gioielli
D’altra parte anche in passato era così. Quando la regina d’Italia, Margherita o Elena, doveva partecipare a una serata di gala o a un evento ufficiale, magari una cena di Stato in compagnia di un imperatore, non apriva una cassaforte a sua libera disposizione. Faceva richiesta alla Banca d’Italia attraverso una lettera vergata dal ministro della Real Casa. Il quale chiedeva al presidente della Banca affinché il tal diadema, o la tal collana, le fosse pervenuta il tal giorno nella tale ora.
Dopo l’utilizzo, la regina deponeva il prezioso, lo consegnava al delegato della Banca, che la riponeva nuovamente nel caveau. Tutto sotto l’egida di precise carte bollate.
La stessa cosa, peraltro, avviene ancora oggi per Carlo III d’Inghilterra, e prima ancora la madre Elisabetta II, che come noto conservano la corona da indossare in occasione dell’annuale cerimonia di inaugurazione del Parlamento, presso la Torre di Londra, esposte in un museo che richiama centinaia di migliaia di visitatori paganti ogni anno.
Aimone di Savoia: “Esponiamoli a Torino”
È un’idea che ha anche il cugino di Emanuele Filiberto, Aimone di Savoia, duca d’Aosta, che in visita a Torino per il Salone del Libro (era alla presentazione della riedizione del libro di Silvio Geuna, eroe e protagonista della Resistenza a Torino, ndr), ha dichiarato al cugino: «Io non avrei fatto questa causa; i gioielli sono “Dotazione della Corona”, quindi non sono di sua proprietà (riferito sempre a Emanuele Filiberto, ndr), si pensi piuttosto a lavorare tutti insieme per renderli visibili a tutti gli italiani ed esporli in un museo». Dove? «Magari proprio qui a Torino – conclude Aimone – magari a Palazzo Reale o a Venaria».
Come uscire dall’impasse: una soluzione
Come uscire allora da questo impasse che li blocca nel caveau della Banca d’Italia per destinarli a una loro esposizione pubblica in un museo? «Bisognerebbe prima di tutto trovare un accordo politico, che mi pare la cosa più complicata – continua il cassazionista Sacchi -; poi il tutto sarebbe facilmente risolvibile emanando per esempio una legge ordinaria del Parlamento, o un decreto legge del Governo».
I documenti che attestano questi sottili dettagli sono tutti contenuti in documenti conservati nell’Archivio Storico della Presidenza della Repubblica Italiana, con sede al palazzo del Quirinale. Le “Gioie” già di dotazione della Corona del Regno d’Italia trovano origine nell’articolo 19 dello Statuto Albertino, in esecuzione del quale è emanata la Regia legge 16 marzo 1850, n. 1004, concernente: “Dotazione del Re e condizioni di godimento dei beni costituenti la dotazione della Corona”.
Ricognizioni e contestazioni nella storia
È proprio con la Regia legge del 1850 che si fa un primo inventario dei gioielli, a cui ne seguiranno altre nel corso degli anni. In alcuni casi con contestazioni:
14 maggio 1850: prima redazione dell’inventario ufficiale
Valore stimato: £. 744.849,36
Base legale: articolo 19 dello Statuto Albertino e Regia legge n. 1004 del 16 marzo 1850
6 marzo 1868: seconda ricognizione ufficiale a Torino
Responsabili: ministro della Real Casa e direttore compartimentale del Demanio
Il ministro Filippo Antonio Gualterio solleva dubbi sulla proprietà di alcuni gioielli
Contestazione: alcuni preziosi apparterrebbero al patrimonio privato della Casa regnante
18 luglio 1881: risoluzione della contestazione precedente
Il ministro Giovanni Visone comunica la decisione di re Umberto I
Dichiarazione del re: «Vuole sia messa da parte ogni e qualsiasi obbiezione prima d’ora formulata circa la spettanza di parte di dette gioie, e che rinunzia formalmente a tutte le riserve»
Esito: confermata la validità del verbale del 1850
29 gennaio 1886: terza ricognizione ufficiale
Motivo: aggiornamento dopo la modernizzazione di gran parte dei gioielli
Incremento di valore: £. 70.828,60
Nuovo valore totale: £. 815.688
1913: quarta ricognizione con riclassificazione
I pezzi vengono riorganizzati e catalogati in 15 elementi principali
Il valore rimane quello stimato nel 1886
Questo inventario servirà da base per quello del 1946
5 giugno 1946: inventario post-monarchia
Redatto all’indomani del Referendum istituzionale
Basato sulla classificazione del 1913
Coincide con il deposito presso la Banca d’Italia
L’ultimo mistero: i gioielli sono stati trafugati?
Negli anni ‘70 viene effettuata una ricognizione, l’ultima, su ordine della magistratura. Agli atti ufficiali risulta: «Il primo giorno del mese di luglio del 1976 si presentano a Palazzo Koch i membri di una commissione composta dal sostituto procuratore Antonino Scopelliti e da rappresentanti del ministero del Tesoro, delle Finanze, dell’Avvocatura di Stato e da due periti, i gioiellieri Gianni Bulgari e Tito Vespasiani». In tutto una quindicina di persone che assistono all’apertura dello scrigno in pelle nera che contiene i gioielli della custodia nei caveau di Banca d’Italia.
Tutto questo per un’indagine penale: il magistrato deve appurare la fondatezza di voci secondo cui i gioielli non sarebbero al loro posto. L’apertura del fascicolo «Atti relativi a segnalazioni su presunta scomparsa del tesoro della corona» è il punto di partenza dell’inchiesta nata dopo una serie di denunce anonime, alcune delle quali sollecitavano «una visita del magistrato in Banca d’Italia».
Banca d’Italia con un comunicato reagisce ufficialmente: «Il plico contente il tesoro della Corona, costituito in deposito chiuso e affidato alla sua custodia, è intatto e conservato nelle sagrestie della banca stessa». La Banca precisa che ha il solo obbligo di custodirlo limitandosi a curarne l’integrità esterna e che i sigilli apposti allo scrigno possono essere tolti solo su richiesta «dell’avente diritto», ovvero in virtù di un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria.
L’accertamento compiuto nei sotterranei della Banca d’Italia stabilisce che il tesoro è autentico e integro. Uno dei periti, Tito Vespasiani, allora presidente dell’Associazione degli orafi romani, dice alla stampa che il valore reale dei preziosi ammonta in tutto a poche centinaia di milioni di lire (del 1976) e che riteneva che l’interesse per il tesoro fosse più nel suo valore storico che in quello commerciale.
Valore simbolico o reale, tutti vogliono quei gioielli. Ma il tesoro resta custodito nel caveau.