La Stampa, 22 maggio 2025
"Il mondo diventa inabitabile Presto saremo tutti migranti"
Onestà. È la parola chiave che ricorre lungo tutta questa conversazione con la scrittrice scientifica e giornalista britannica Gaia Vince, domenica ospite a I dialoghi di Pistoia.
Da anni studia i cambiamenti climatici e i suoi libri sono pietre contro i vetri dell’indifferenza e della disinformazione: il riscaldamento globale non è un’ipotesi futura, ci siamo già dentro e produce effetti devastanti non solo all’ambiente e alla Terra, ma a chi il pianeta lo abita, in termini di conflitti e migrazioni. Honorary senior eesearch fellow presso l’Anthropocene institute dell’Ucl di Londra, conduttrice di programmi radiofonici e televisivi della Bbc, Vince ha collaborato con diverse testate tra cui The Guardian, Nature, New Scientist e nel 2015 ha vinto il Royal society science book prize, prima donna a ottenere questo riconoscimento.
Nel suo ultimo libro Il secolo nomade: come sopravvivere al disastro climatico (Bollati Boringhieri) spiega come siccità e riscaldamento provochino una migrazione climatica mai vista prima nella storia.
Può immaginare l’entità di questo fenomeno?
«Entro il 2060-70 tre miliardi di persone vivranno in luoghi che il cambiamento climatico renderà inabitabili per la maggior parte dell’anno. Nel Sud Est asiatico in certi periodi siamo già a temperature di 40 e 50 gradi e a un’umidità insopportabile, per cui i contadini devono lavorare di notte usando le torce. Siccità estrema e inondazioni sono altri fenomeni già in corso. Eventi climatici estremi provocano conflitti e il Sudan ne è un esempio. Ufficialmente sono già 83 i milioni di persone migrate, di fatto molte di più».
È uno scenario spaventoso, lo conosciamo, ma se ne parla solo quando avvengono i grandi disastri. Perché?
«La gente è spaventata ma la politica mente e dovrebbe essere più onesta. L’Emilia-Romagna è un esempio: due alluvioni in due anni, costi enormi per la ricostruzione, nessuna assicurazione può coprire un’alluvione così all’anno. Bisognerebbe essere chiari e dire quando un territorio non è più abitabile. Ma la gente non vuole trasferirsi, anche se ha perso la casa e il lavoro. Ci sono gli affetti di una vita, l’attaccamento al luogo. E la politica mente».
Altri esempi?
«L’estate mediterranea non esiste più. È troppo caldo e si vedono già migrazioni di turisti verso i Paesi scandinavi o la montagna. L’Italia è uno dei Paesi più colpiti: la siccità mette a rischio la coltura degli olivi e le vigne al Sud mentre al nord ci sono sempre più allagamenti e frane».
Perché c’è ancora gente che nega il cambiamento climatico?
«Le grandi compagnie del fossile sono lobby molto potenti e sanno che il loro tempo sta scadendo, quindi cercano di massimizzare ora, prima che l’elettrificazione prenda il sopravvento e sarà un processo irreversibile. Pagano politici, comprano spazi, foraggiano la disinformazione, dominano la narrazione».
Cioè?
«Prendiamo la neve. Non esiste più. Ma ancora la pubblicità parla di White Christmas, le cartoline di auguri anche. Ma non c’è più neve a Natale, da anni. Questa è la nuova normalità per i miei figli, ma noi di un’altra generazione sappiano che non è normale. Lo stesso per gli eventi estremi. Se cresci con le alluvioni e senza neve, pensi che quella sia la normalità».
L’emergenza climatica non è nell’agenda dei governi, che invece puntano tutte la paure sui migranti. Come mai anche la sinistra si sta allineando ai temi della destra?
«È la tecnica del populismo. Sbandierare una minaccia dall’estero rafforza chi sta al governo. Ma i numeri e la scienza dicono il contrario: gli immigrati sono una ricchezza, soprattutto per un Paese con una natalità bassa come l’Italia. E poi cosa significa identità? L’Italia è una nazione unica solo dal 1861. Anche l’antica Roma era un miscuglio di popoli e culture».
Abbiamo la tendenza a pensare che i cambiamenti climatici e le migrazioni colpiscano i paesi poveri del mondo. Lei mi sta parlando dell’Emilia-Romagna, una delle zone più ricche d’Italia. Del Mediterraneo…
«Ricordiamoci che l’anno è iniziato con il grande incendio a Los Angeles. Le televisioni hanno intervistato i divi di Hollywood in lacrime, sono andate in fumo le ville dei più ricchi. Questo dovrebbe rendere chiaro che i soldi non ti possono proteggere. Aiutano, perché permettono di ricostruire le ville o di andare altrove, ma il problema rimane».
Cosa farebbe se fosse il presidente degli Stati Uniti?
«Parlerei chiaro e direi la verità. Parlerei onestamente di cosa significa essere americano nel sistema globale attuale. Non negherei i cambiamenti climatici. Ci vorrebbe una vera leadership che si prendesse delle responsabilità. Alla prossima Coop il leader sarà la Cina. Avrei riso in faccia a chi me lo avesse detto 10 anni fa».
Ci sono degli esempi virtuosi?
«Il Canada sta pianificando di triplicare la sua popolazione nei prossimi decenni attraverso migranti climatici. Fino a poco tempo fa, la maggior parte dei Paesi voleva più immigrati per rafforzare la propria forza lavoro e rendere le città più produttive. Quindi, il Canada ha vari programmi per aiutare le persone ad entrare nel mondo del lavoro e per favorire l’inclusione. E sarà un vincitore netto del cambiamento climatico, perché ha molte città nel Circolo Polare Artico che saranno ampliate. E lì costruiranno nuove città. Sarà il futuro verso la seconda metà di questo secolo. Anche la Spagna ha un approccio proiettato al futuro».
Però il recente blackout in Spagna è stato imputato alla politica di massiccia riconversione verso le energie alternative.
«È inevitabile e ovvio che i media dicano così. Torniamo ancora alla narrazione falsata. È stata data la colpa alle rinnovabili, ma è molto più complicato di così. C’è un’indagine in corso e pare sia stato un guasto in una centralina di scambio».
Lei cita spesso il caso del Kiribati, stato dell’Oceania composto di 33 isole nel Pacifico, a rischio per l’innalzamento del livello del mare. La migrazione climatica va gestita anche in uscita?
«Sì, stanno pianificando il futuro e la migrazione in massa della popolazione. In pratica lavorano sulla formazione dei giovani in modo che possano avere in mano competenze per poter trovare lavoro nelle nazioni rifugio dove saranno costretti a spostarsi. Per esempio Kiribati sta formando molte infermiere e ha un accordo con la Nuova Zelanda e l’Australia, ben contente di accogliere professioniste che scarseggiano. Questo è ciò che andrebbe fatto, senza mentire ai cittadini e dicendo le cose come stanno con onestà».