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 2025  maggio 22 Giovedì calendario

Intervista a Renzo Arbore, prof alla Sapienza

Renzo Arbore professore per un giorno, ieri, all’università La Sapienza di Roma. Occasione la lectio magistralis sui quarant’anni di un programma che ha fatto epoca come Quelli della notte lo show ideato da Arbore assieme a Ugo Porcelli. Tanto da meritare di finire in cattedra. Occasione utile per parlare anche dello stato di salute della televisione: «Gli unici programmi sorridenti sono Domenica In e gli show di De Martino. Per questo ho consigliato a Mara Venier di non abbandonare la Rai». Considerazioni che il maestro (anzi ieri decisamente Prof!) ha scambiato con Libero appena prima del suo “insediamento” accademico.
Renzo Arbore, a quasi 88 anni diventa professore universitario per un giorno. Se lo sarebbe mai aspettato? 
«No, non me lo sarei mai aspettato come tante altre cose che mi sono capitate, per esempio diventare Cavaliere di Gran Croce grazie al presidente Mattarella. In questa quarta età sto raccogliendo molte soddisfazioni, arrivato ormai, come dice Banfi, ai tempi supplementari».
Quelli della notte è stata una palestra o già allora era considerata un’accademia del varietà umoristico?
«Quelli della notte quando è nato è stata una vera rivoluzione, un salto nel buio. Io venivo da un successo clamoroso, ora dimenticato da tutti, come Cari amici vicini e lontani che avevo fatto per i sessant’anni della radio. Avevo avuto tutti: da Nilla Pizzi a Alberto Sordi, Claudio Villa, Mike Bongiorno, facevamo 18 millioni di ascoltatori. Però non volevo rimanere legato all’idea di un programma nostalgia, così andai da Minoli e chiesi un programma per giovani, come ne avevo già fatti alla radio, pensi a Bandiera gialla… Lo chiesi anche in un orario inconsueto dove potessi scatenarmi con quaranta facce diverse di amici attori, musicisti. Così abbiamo dato vita per la prima volta nella storia della televisione alla seconda serata, facendo il primo varietà totalmente improvvisato».
Non avevate copione?
«Quello ce lo avevano gli altri: Baudo, Corrado, Falqui perché così si faceva. Io invece mi sono buttato usando la teoria della jam session mutuata dal jazz antico, tradizionale che io suonavo. Si sceglieva la tonalità e poi ognuno con la sua personalità faceva gli assoli. E così abbiamo fatto. Con questo criterio in una settimana abbiamo inventato i personaggi: Ferrini il comunista, Marisa la cugina chiacchierona, Simona Marchini con il suo gossip, Frasssica fu il primo frate nella storia della televisione quando non si poteva scherzare sui frati, Pazzaglia era l’intellettuale e così ci siamo buttati. Dopo due o tre riprese ci siamo accorti che il programma funzionava perché la gente ripeteva quello che dicevamo».
L’apporto maggiore nei contenuti, oltre ad aver inaugurato la seconda serata tv, quale è stato?
«È stata la rivoluzione che abbiamo fatto nella tecnica. Si capiva che ci arrampicavamo sugli specchi ma le good vibes che producevamo erano accettate dal nostro scelto pubblico. Bisogna notare che abbiamo improvvisato per tutte le 34 puntate, fino alla fine. Tutto campato in aria».
Tutti in tv si definiscono figli della sua idea di intrattenimento ma lei si sente padre spirituale di così tanti personaggi?
«Posso dire la verità o devo fare il modesto?». (Sorride)
Dica nient’altro che la verità, se vuole.
«La verità è che questo tipo di spettacolo ha fatto scuola e un po’ tutti si sono ispirati. Qualcuno l’ha dichiarato, altri no. In generale mi fa piacere che persone come Fazio e tanti altri lo riconoscano».
Tra tutti questi eredi chi le somiglia di più?
«Fiorello, è molto generoso con me e io lo sono stato con lui perché è un erede effettivamente bravissimo a improvvisare. Adesso è tornato in radio e continua a esercitarsi in questa tecnica che insomma lui stesso dice di aver mutuato un po’ delle cose che facevamo noi. Del resto io stesso ho scoperto la mia vena umoristica facendo la radio».
Lei, Arbore, all’università cosa ha studiato?
«Io mi sono laureato in giurisprudenza. Naturalmente ci ho messo sette anni perché nel frattempo suonavo con gli americani, frequentavo il mondo della canzone napoletana con Roberto Murolo e Sergio Bruni ed ero consigliere del Circolo napoletano del Jazz. Insomma, ho approfittato moltissimo della cultura napoletana. Purtroppo quando ho fatto io l’università la Goliardia a Napoli non c’era più, però la matrice dei miei programmi era quella, cosa che non ripudio, anzi penso che prima o poi si debba fare giustizia della goliardia buona che tra l’altro ancora esiste. Del resto a me a Bologna Umberto Eco mi ha dato la laurea in Goliardia!».
Facevate battute sulle donne che oggi sarebbero irripetibili. Conferma?
«Quelle battute nascevano dalle discussioni oziose che facevamo a Foggia, nella mia città. Negli anni ‘50 e ‘60 nei caffè dopo le otto eravamo tutti uomini perché le donne andavano a casa e noi indugiavamo così con discussioni che servivano ad ammazzare la noia. Alcune battute poi le ho riproposte a Quelli della notte».
La tv di oggi le piace? Ci si riconosce oppure oppure no?
«Beh, non tanto. Io alla televisione cerco ancora la vena artistica perché, dico, non sarà la decima forse nemmeno la quindicesima musa, sarà forse la ventesima… Però nel corso degli anni è esistita anche una televisione con delle punte artistiche. Purtroppo però pavento che talenti come quelli che io ho contribuito a scoprire: Marisa Laurito, Bracardi, Marenco, umoristi, improvvisatori di quel tipo temo proprio non ci siano più…».
Le sue canzoni nascevano anche quelle da oggetti e momenti di vita quotidiana: Il clarinetto, Il materasso… Coerentemente con la cultura dell’improvvisazione vero?
«Beh, io sono stato innanzitutto aspirante clarinettista. Poi ho fatto il deejay negli anni in cui uscirono Lucio Battisti, Patty Pravo e mi sono accorto che a Sanremo mancava la canzone umoristica… Mancava dai tempi di Renato Carosone e non era ancora arrivato il grande Elio. Negli anni del Dopoguerra c’erano canzoni spensierate, le canzoni umoristiche di Natalino Otto per far sorridere e consolarci dalle brutture della guerra. Io purtroppo sono un bambino che ha visto la guerra e quindi ho voluto fare canzoni umoristiche che sono diventate il mio manifesto».
Come del resto la sua Orchestra Italiana che è rimasto un unicum.
«È stata la mia vita dal 1991 quando è nata al 2021 quando ho dovuto smettere per il Covid. Abbiamo fatto oltre 1.600 concerti in Italia e nel mondo, fino a New York, sempre sold out. Purtroppo la potenza della televisione ha un po’ oscurato questa parte della mia vita assieme a un gruppo di grandi musicisti napoletani che non è stata certo una baggianata!».
Come ridevamo è stato il suo programma più più recente. Perché l’Italia non sa più ridere come una volta?
«Per meriti e demeriti legati a Internet che con gli sketch di venti secondi e un click risponde al fabbisogno di umorismo che abbiamo. Non c’è più l’avanspettacolo, non c’è il teatro e non c’è il cabaret. Quelle palestre dove sono nati i grandi umoristi come Paolo Villaggio».
Cosa ha consigliato a Mara Venier per convincerla a rifare a Domenica In anche l’anno prossimo?
«Le ho detto di non lasciare la Rai, di non cedere a tentazioni che arrivano da altre parti perché lei e tutte le sue conoscenze con i personaggi sono un patrimonio della Rai ed è ancora un gran piacere vederli e rivederli».