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 2025  maggio 22 Giovedì calendario

Il potere dei numeri dai mammut al digitale

Si vuole che sul frontone dell’Accademia platonica fosse inciso: «Non entri chi non conosce la geometria». La citazione, vera o leggendaria, spesso ricorre nelle storie della matematica, ma la geometria e il numero dei Greci non erano ciò che intendiamo oggi. Per Platone, l’unità, o un triangolo, erano, come si sa, idee, collocate, insieme con quella del bene, nel loro iperuranio eterno, immutabile, al di sopra delle corruttibili vicende mondane. Più che un valore matematico, ne avevano uno morale: erano modelli di perfezione. Anche per i pitagorici era così: tutta la realtà (compresa la musica, che nella Grecia antica aveva uno spiccato valore sacrale) era fondata su rapporti numerici. Insomma, se per Talete il principio di tutto era l’acqua, e per Eraclito il fuoco, per Pitagora era il numero.
Che cosa ha a che fare questa visione mistica del numero con la concezione odierna? Francamente nulla. Il che non scoraggia Alessandro Magrini, nel suo Nel segno di Thot. La meravigliosa avventura dei numeri dall’antichità all’età moderna ( Ponte alle Grazie, pag. 224, 16,90 euro) dal prendere le mosse dal Fedro platonico: «Ho sentito raccontare che a Naucrati in Egitto c’è uno degli antichi dèi di lì, al quale è sacro l’uccello che chiamano ibis: il dio che porta il nome di Thot. Fu lui a inventare il numero e il calcolo, la geometria e l’astronomia, e i giochi con le pedine e con i dadi, e infine le lettere per scrivere».
L’egizio Thot divenne Hermes in Grecia, e Mercurio a Roma. Platone amava raccontare miti per portare gradualmente i suoi discepoli alle teorie più avanzate, ma per quanto affascinanti, non sono da prendersi alla lettera. E ciò che si è conservato, perfino oggi, della dottrina platonica, non è la mitica origine dei numeri dal dio egizio dalle sembianze di ibis. Spogliata del suo rivestimento mistico, l’idea che un teorema o un ente matematico esistano da sempre nel cosmo della logica, e riaffiorino come intuizioni o ricordi, in modo misteriosamente capriccioso, nelle menti degli uomini, resiste presso molti matematici.
Magrini, tuttavia, risale a Platone solo perché, in fondo, il suo è un volume di archeologia della matematica. Quello che lo appassiona più di tutto, non è l’origine logica-filosofica del concetto di numero, ma quella storica, anzi, il momento stesso in cui l’uomo, cominciò a contare, e i mezzi di cui si servì per farlo. E quindi, presto risale a ben prima di Platone, addirittura a 30 mila anni fa, adducendo le prove dell’archeologo ceco Karel Absolon, che studiando i ritrovamenti dei cacciatori di mammut del Paleolitico superiore, scoprì «un perone di lupo lungo 18 cm sul quale erano state incise delle tacche a intervalli regolari, inframmezzate da due nettamente più lunghe, in modo da avere 30 tacche piccole da una parte e 25 dall’altra, suddivise in raggruppamenti di cinque».
Quelle tacche, secondo Absolon, non erano lì per assicurare una presa migliore, ma indicavano che l’osso era usato come «bastone da conteggio». Seguirono scoperte di oggetti analoghi anche più antichi, fino a 40 mila anni fa.
Nel Paleolitico, l’uomo comincia a contare e usare strumenti di rappresentazione in cui l’unità è una semplice tacca. Un segno del tutto simile alla stanghetta che vale uno nella scrittura geroglifica del mondo egizio, quello di Thot, che evidentemente si impossessa di un’invenzione vecchia di millenni, anche se eventualmente maturata per vie indipendenti. E qui, nella civiltà egizia come in altre più o meno coeve, si verifica un fenomeno curioso: almeno agli stadi più primitivi dei sistemi di conteggio, che poi entreranno, come cifre, nelle lingue della famiglia indoeuropea, c’è l’uno – una stanghetta verticale o a volte orizzontale -, c’è il due – due stanghette -, quindi il tre – tre stanghette – che però vale anche come molti, come indefinita pluralità di oggetti. Come se, oltre il tre, contare divenisse o troppo complicato, o relativamente inutile per i bisogni più primitivi. Tre, insomma, è già abbondanza, infinito.
Una concezione che risuona, di nuovo, di significati religiosi che hanno scavalcato quei tempi lontanissimi, si pensi alla trinità cristiana.
Questa curiosa compresenza nei numeri di arcaiche origini simboliche o pratiche primitive, e spiegazioni numerologiche, religiose, per trapassare infine nel “digit” – cifra, in inglese – da cui la nostra era digitale, così immateriale, che prende il nome dalla concretezza del dito della mano (digitus in latino) quale immediato e pratico mezzo di conteggio, ha qualcosa di suggestivo e di inquietante. Perché è vero che la funzione del numero nella scienza odierna – il calcolo – ha solo una lontana parentela con quei numeri (le stanghette di Thot o anche le cifre greche e romane) che erano invece simboli, rappresentazioni, «non concepiti anche per effettuare calcoli», ma anche nel “nuovo numero” delle equazioni più complicate, resta la traccia del suo oscuro passato, quello del bastone da conteggio dei cacciatori di mammut.