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 2025  maggio 22 Giovedì calendario

Referendum, se le beghe oscurano i contenuti

È legittimo l’invito al non voto nei referendum ormai vicinissimi dell’8 e 9 giugno, e non si tratta di un sopruso anti-costituzionale, anzi è una mossa politica che rientra pienamente nella vita democratica e che hanno praticato tutti i partiti nel corso della storia repubblicana, sia il centro sia la destra sia la sinistra e tanto da posizioni di governo quanto da posizioni di opposizione. Ed è allo stesso tempo lecito, anzi normale, usare l’istituto del referendum come sta facendo adesso il centrosinistra e la Cgil, ossia come uno strumento di mobilitazione che anche a dispetto delle possibilità di raggiungere il quorum oltrepassa l’obiettivo specifico dei quesiti referendari e prepara le opposizioni alla sfida delle Politiche nazionali nel 2027.
Tutto questo va bene, ma è la maniera con cui da entrambe le parti si pratica lo scontro che rischia di convincere poco perché assume agli occhi dell’opinione pubblica – cioè dei cittadini stanchi di dispute autoreferenziali, pretestuose o di Palazzo – le sembianze del solito tran tran, del consueto mondo parallelo degli addetti ai lavori e ai livori in cui ci si azzuffa per vicendevoli interessi di bottega senza tenere conto dell’interesse nazionale e perde di vista il merito delle questioni. Che in questo caso sarebbe molto chiaro e importante ma si dissolve nel rumore della zuffa ed è questo: che tipo di mondo del lavoro serve all’Italia, con quali regole, con quali criteri di accesso e di uscita, con che tipo di fisionomia (più flessibile o più ingessata?) e con quali possibilità di crescita e di modernizzazione. Ecco: temi di profonda rilevanza sociale e di diretto interesse per le famiglie che avviano i propri figli a una carriera e per chi svolge un lavoro, o vorrebbe svolgerlo, e sono anche temi che attengono alla produttività dell’Italia, quindi alla sua competitività che è connessa al suo peso internazionale.
Nei referendum c’è tutto questo. E banalizzare queste questioni – a cominciare da quella dei tempi per ottenere la cittadinanza italiana, materia di uno dei quesiti e forse il più importante – per ridurle soltanto a occasioni di rissa, invece di alzare il livello del confronto, può avere una serie di effetti gravi. Quello di aumentare il disinteresse della gente verso la politica. Quello di smorzare la partecipazione dei cittadini alla vita civile. Quello di dare nuova linfa all’anti-politica (se la politica è accapigliarsi senza costrutto su questioni rilevanti come il lavoro e la cittadinanza, allora chissene!). Quello di sperperare la possibilità di coinvolgere – e di far votare sì, o far votare no, o non far votare proprio, ma orientando le tre scelte sulla base di una serenità del dibattito e non dei bombardamenti propagandistici – una popolazione che richiede soluzioni e ha il diritto a un’ecologia delle parole e delle posizioni in campo per conoscere e, dentro o fuori dalle urne referendarie, deliberare.
Insomma in una fase di forti tensioni internazionali, la politica interna di un Paese importante qual è l’Italia dovrebbe dare una prova se non di unità nei contenuti, e ben venga la diversità, almeno di serietà negli approcci alle materie che riguardano la convivenza civile. E quelle del lavoro e della cittadinanza sono il quid della convivenza civile. Oltretutto, l’arrivo del nuovo pontificato, la grande proiezione esterna che i passaggi vaticani stanno dando al nostro Paese, il messaggio di unità a tutti i livelli e in ogni ambito che si sta propagando in questa parte del mondo di cui l’Italia è un perno centrale, dovrebbero suggerire alle classi dirigenti dei partiti una nuova consapevolezza sulle responsabilità della politica. E in questa nuova consapevolezza dovrebbe rientrare il superamento della logica stantia dello scontro purchessia.
Si sta riparlando in questi giorni, in cui c’è un altro Papa che si chiama Leone come Leone XIII, della Rerum Novarum, cioè dell’enciclica che a fine 800 prese in seria considerazione la questione sociale e cercò di adattare la Chiesa alle “cose nuove” che quella fase di industrializzazione introduceva nella vita delle persone, ossia il bisogno di maggiori diritti e di migliore vivibilità. Quello fu un approccio costruttivo e meditato alle necessità dei lavoratori in quella fase storica. Oggi la politica laica, e orgogliosa di essere laica, avrebbe tutto lo spazio, e il momento aiuta, per recuperare almeno un pizzico di quella pacata ragionevolezza che serve nell’approccio alle grandi questioni e per guardare all’attuale realtà del mondo del lavoro. Invece di ingaggiare gare di muscoli – tu mi oscuri in tivvù ma io ti batterò l’8 e 9 maggio e viceversa: tutti al mare e nessuno in cabina – utili soltanto a spaccare senza cogliere il sentimento collettivo che è un altro: comporre-comporre-comporre.