repubblica.it, 22 maggio 2025
Intervista esclusiva a Delphine del Belgio
La sua vita è stata, per lungo tempo, un segreto custodito da altri. A lei spettava «portare il peso della negazione». Si è sentita «rifiutata» per decenni, finché un tribunale ha identificato in Alberto del Belgio (diventato re nel 1993) suo padre biologico. Da allora diventa membro della famiglia reale e continua a pennellare con energia sulle tele perché per lei «l’arte è diventata una forma di sopravvivenza, un linguaggio per esprimere dolore, speranza e resilienza».
Delphine è nata due volte: con il cognome di Boël, 57 anni fa, e di nuovo con quello della casata Sassonia-Coburgo-Gotha, nel 2021. Artista e principessa: quanto un titolo ha influenzato l’altro?
«È sempre stato così, il mio vissuto ha influenzato la mia arte. La creatività era spesso l’unico mezzo per elaborare ed esprimere appieno ciò che stavo attraversando», racconta Sua Altezza Reale da Londra, dove vive assieme al marito James O’Hare e ai due figli, Oscar e Joséphine. «Negli anni della battaglia legale riversavo tutto nel lavoro: la frustrazione, il desiderio, la forza necessaria per andare avanti. E dopo il 2020, il mio riconoscimento ufficiale come membro della famiglia reale non ha posto fine alla narrazione artistica, ma le ha aperto un nuovo capitolo. Non sono diventata improvvisamente “più artista”, ho continuato a essere quella di sempre mettendo forse più chiarezza, più pace e più colore sulle tele. In fondo, per me, arte e vita sono la stessa cosa. Ogni esperienza, gioiosa o dolorosa, plasma l’una e l’altra».
Quale ruolo ha, il colore, nella sua tavolozza?
«Fin da bambina ho sempre pensato che il mondo fosse un posto spaventoso. Creare immagini colorate era il mio modo di combattere quella paura e rendere il mio mondo un posto migliore e più felice. Il colore è energia. È emozione. È libertà. Usare colori audaci e vivaci è un modo per riappropriarmi dello spazio e dire: “Sono qui e non ho paura di essere vista”.
L’ha mai sentita, quella paura?
«Al contrario: temevo di non essere vista. Nel corso della mia vita, soprattutto nei periodi più difficili, il colore è diventato uno strumento di guarigione ed espressione. Anche quando mi sentivo messa a tacere, o invisibile, la mia arte e i colori in essa contenuti parlavano per me. Mi permettevano di canalizzare la mia verità in un modo che le parole non riuscivano a esprimere. Nella moda, proprio come nelle mie opere, il colore infrange i confini. Resiste alla monotonia del conformismo. Invita alla gioia, al gioco e a volte alla ribellione. Quindi sì, i colori sono essenziali per il mio stile, perché sono essenziali per il mio spirito».
La scritta AMORE è una costante nella sua espressione artistica. In quale accezione?
«È il fulcro di tutto ciò che creo. Non è una parola decorativa: è un messaggio, un’ancora di salvezza e a volte persino una protesta».
Si può amare per protesta?
«Per molto tempo ho sentito una mancanza d’amore, non necessariamente da parte delle persone a me vicine, ma dal sistema, per via del modo in cui la mia storia veniva ignorata o nascosta. L’arte è diventata un mezzo con cui lottare per l’amore, per affermare che tutti meritano di essere visti, ascoltati e accettati. Il mio vissuto avrebbe potuto portarmi a provare un forte risentimento, ma mi sono detta: “O vado verso l’odio, che mi distruggerà, o vado verso l’amore”. Ho scelto. E per vedere la vita in modo più positivo ho iniziato a scrivere quella parola con ossessione, con una specie di follia compulsiva. Ovunque, in ogni momento, come fosse un mantra. Ho scritto sulle tele e ne ho fatto sculture, luci a LED, neon. È il mio modo per circondarmi d’amore, continuo a farlo. E non si tratta solo di amore romantico: tra le forme d’amore c’è il rispetto per se stessi, il perdono, il coraggio necessario a convincere noi stessi del nostro valore. Spargerlo ovunque è come un promemoria, spero possa esserlo anche per gli altri. Non importa quanto complicata diventi la vita: l’amore – quello vero, incondizionato – è l’arma più potente che abbiamo».
I suoi outfit sono un manifesto del suo pensiero
«La moda è una forma di libertà, espressione di sé. Disegnarla, non significa solo applicare colori e motivi su un tessuto, ma affidare emozioni e storie a qualcosa che si muove assieme al corpo. Con la linea Weareable Art ho portato alcune delle mie opere su seta: camicette, abiti, scialli e kimono. Mi piace come la seta accoglie i colori e conserva traccia del mio pennello. L’ho fatto per colmare un bisogno: volevo avvolgermi addosso i miei dipinti pieni di poesia per farne un’armatura o una coperta di Linus. Credo che la moda, come tutte le forme d’arte, sia un mezzo per sfidare le convenzioni e dire: “Questo sono io. Questo è il modo in cui vedo il mondo”. Se stimola un commento, un pensiero o un sorriso, allora ha già fatto il suo dovere».
La vita di Sua Altezza Reale è stata segnata per intero da un segreto – l’identità di suo padre biologico – come è stato, conviverci?
«Simile al portare un peso che non spettava a me. L’ho fatto comunque, per anni. Era un fattore di isolamento. Un segreto simile mette in discussione il tuo valore, il tuo posto nel mondo. E poiché la verità è stata negata per molto tempo, ho dovuto costruire la mia identità senza di essa, il che è incredibilmente difficile perché una parte di te viene costantemente negata. Non ho mai permesso che il segreto mi definisse completamente e ho riversato quella lotta per essere “vista” nella mia arte. È diventata il mezzo per rimanere in contatto con la verità anche quando era nascosta».
E come è stato confrontarsi con esso, una volta svelato?
«Ho deciso di rivendicare non un titolo, ma me stessa. Dar voce al segreto mi ha reso più forte. Il silenzio mi ha plasmato, sì, ma romperlo lo ha fatto ancora di più».
La relazione tra i suoi genitori inizia quando sul trono c’è ancora il cattolicissimo fratello di Alberto, re Baldovino, che la osteggia in ogni modo. Nessuno sa dell’esistenza di una figlia illegittima finché, nel 1999, è una biografia di Paola Ruffo di Calabria, diventata regina a fianco di Alberto II, a svelarla. Cosa cambia, allora?
«Vivevo a Londra e ho continuato a tacere anche dopo che i media hanno reso pubblica la cosa. Rispondevo “no comment” per proteggere Alberto. Ci sono voluti altri 20 anni di silenzio imbarazzante e bizzarro, e di smentite da parte del Palazzo, per arrivare finalmente alla verità. E allora sì, la mia vita è cambiata profondamente, non perché improvvisamente avessi il titolo di principessa, ma perché ho smesso di portare il peso della negazione. Finalmente potevo respirare a pieni polmoni, essere me stessa senza dovermi in qualche modo spiegare e giustificare. Per giorni ho convissuto con una strana leggerezza; gli anni di lotta – la battaglia legale, l’attenzione dei media, il silenzio da parte di una famiglia che sapevo fosse anche mia – hanno avuto il loro peso, ma una volta che la verità è stata accertata, mi sono sentita completa».
Ha definito la sua una “lotta”. In nome di cosa, l’ha condotta?
«Non per amarezza, ma nella convinzione che la verità sia importante. Il risultato non ha cambiato chi sono, ma di certo ha cambiato il modo in cui il mondo mi vede. Anche il mio modo di intendere l’amore e il perdono è cambiato. Spero che il mio percorso incoraggi altri a difendere la propria identità, anche quando è scomoda».
Il riconoscimento le ha conferito il titolo di principessa, il trattamento di Sua Altezza Reale, il nome di Sassonia-Coburgo e un posto nell’asse ereditario della famiglia reale belga. Qual è stato il premio più grande?
«Il diritto di essere vista per quella che sono sempre stata. Quel riconoscimento non mi ha regalato nulla, mi ha solo restituito ciò che mi spettava di diritto. Non si trattava di conquistare prestigio, ma di far vincere la verità. E in quella verità ho trovato una pace più profonda, un più forte senso di appartenenza, non solo a livello personale, ma anche per i miei figli e per coloro che mi hanno accompagnato in questo lungo viaggio».
Hanno scritto che quando si è presentata al suo padre biologico il re l’ha trattata con sprezzo fino a farla piangere, accusandola di essere in cerca di notorietà. Cosa ricorda di quel primo incontro?
«Quella storia è del tutto falsa, sono stati i giornali a costruirla. Conosco mio padre, re Alberto II, da tutta la vita. È sempre stato raggiungibile telefonicamente. Ciò che è stato riportato dai media non solo era inesatto, ma travisava le mie intenzioni e il rapporto che avevamo. Non ho cercato la fama, ma la verità. Il mio percorso è sempre stato guidato non dal guadagno personale, ma dal desiderio di giustizia. È stato doloroso leggere tante falsità, soprattutto se concepite per creare divisioni».
Quali sono i suoi sentimenti nei confronti della monarchia e della famiglia che la rappresenta?
«Ho sempre avuto un rapporto complesso con la monarchia, ma sono determinata a renderlo più umano. Rispetto alla famiglia reale nutro sentimenti personali; non ho cercato un titolo per avere potere o status, ma essere trattata al pari degli altri figli del re. Le famiglie oggi sono composte da figli di seconde e terze nozze o nati fuori dal matrimonio; tutti dovrebbero essere trattati equamente, indipendentemente dalle circostanze della loro nascita. Non devono scontare gli errori o pagare per i problemi dei genitori e lo Stato non dovrebbe giudicarli in base alle condizioni in cui sono venuti al mondo. I bambini non scelgono le circostanze in cui nascere: le leggi e la società dovrebbero tenerne conto».
#everychildmatters #equalityforchildren #nochildleftbehind #siblingrights. Sono gli hashtag del post Instagram con cui un anno fa ha denunciato il trattamento diverso a lei riservato dal Palazzo rispetto ai suoi fratellastri.
«Ricordo chiaramente quel post. Non si trattava di voler essere inserita nella lista degli invitati alla Fête du roi, ma di essere trattata al pari di mia sorella, la principessa Astrid, e di mio fratello, il principe Laurent. Lasciare che l’allora Primo Ministro belga (Alexander De Croo, ndr) affrontasse la questione pubblicamente è stato come usare un cannone gigante per sparare a una mosca. Un esempio di come un sistema potente protegga un rigido dogmatismo istituzionale. Spero che l’ex Primo Ministro sappia di essersi trovato dalla parte sbagliata della storia, in quella vicenda. Quindi sì, la mia esperienza mi ha reso sensibile rispetto all’importanza della parità di diritti per i bambini, indipendentemente dal contesto in cui nascono. Ogni bambino merita riconoscimento, amore ed equità. Nessuno dovrebbe dover combattere contro un governo per ottenere rispetto e dignità, diritti umani fondamentali».
I giornali hanno definito Sua Altezza Reale la Cenerentola del Belgio.
«Etichetta affascinante, ma non mi rispecchia. Provengo da un ambiente privilegiato. Sono la figlia di re Alberto II, nata da una storia d’amore durata 18 anni con mia madre, una baronessa, a sua volta proveniente da una rispettata famiglia aristocratica nota per gesti eroici durante le guerre e per aver dato natali ad alti funzionari pubblici. Sebbene ci siano alcuni parallelismi con Cenerentola, come il vivere in segreto, non rivendicherei questa storia per me. Molti superano ostacoli ben più grandi dei miei, ne ho profondo rispetto. Ciò che conta è la battaglia che ho combattuto per la verità, il riconoscimento e la giustizia. Farlo sotto i riflettori non è facile, perché i media possono essere spietati e il giudizio feroce».
Perché l’ha condotta, dunque?
«Ho portato la questione in tribunale come ultima spiaggia. Per molti anni ho cercato di risolverla in privato con mio padre e il Palazzo. Non avrei mai voluto intraprendere un’azione legale, è spiacevole. Dovete capire che la decisione è arrivata dopo anni e anni di lettere rimaste senza risposta, in cui chiedevo di porre fine al rifiuto. Di smettere di ignorarmi. Il Palazzo voleva che sparissi. Ho perso perfino delle commissioni nel mondo dell’arte perché le persone si chiedevano se la mia presenza in un determinato progetto avrebbe infastidito il Palazzo. A volte, sono stata invitata e poi “disinvitata” a una festa perché il principe Filippo (suo fratellastro, oggi sul trono) aveva dato conferma della sua presenza e ritrovarci assieme sarebbe stata una tragedia. Sono stata segretamente inserita in una lista nera politica (Persona Politicamente Esposta – PEP) utilizzata dalle banche e i miei conti correnti inglesi sono stati cancellati. La situazione era diventata insopportabile. Ho chiesto a mio padre di aiutarmi e sono stata ignorata, ignorata, ignorata… finché a un certo punto, purtroppo, ho dovuto imboccare la strada della Giustizia. Si è rivelata la strada più civile, ma ci è voluto tempo.Dal punto di vista personale non è stata la scelta giusta; combattere una battaglia che ritenevo giusta in pubblico è stato difficile e allo stesso tempo motivante. Ho cercato di essere forte, convinta che i tabloid non potessero definire il mio valore. Sono io a farlo, attraverso le mie azioni e il mio impegno per la verità».
La libertà è condizione indispensabile per la creazione artistica; come sarebbe andata, se SAS fosse cresciuta a Palazzo, la vita scandita da regole e convenzioni?
«È difficile rispondere con precisione alle domande del tipo “e se?”. Magari le cose sarebbero potute andare diversamente… quello che so, è che il vissuto mi ha dato la libertà di esplorare appieno chi sono come artista. Il mio percorso è stato plasmato dalla regalità in negativo, visto che sono stata una bambina rifiutata, ma ha permesso di sviluppare la mia espressività in modo personale e indipendente. Le circostanze influenzano il percorso, il mio è fatto di resilienza».
Cosa ha guadagnato e cosa ha perso, diventando principessa?
«Ho ottenuto riconoscimento, verità e un senso di pace. Essere vista finalmente per quello che sono, senza più sentirmi negata, è stato significativo non solo per me, ma anche per i miei figli e per chiunque si sia mai sentito invisibile. Ciò che ho perso è stato un certo livello di privacy. Ma questo è successo già nel 1999, quando la stampa mi ha scovata a Londra e il Palazzo ha goffamente iniziato a negare la mia esistenza. Con il titolo sono arrivate più attenzione, più aspettative e, a volte, più incomprensioni. Ma non me ne pento».
Cosa vede, nel suo futuro?
«Il mio obiettivo rimane creare un’arte che crei connessioni, lavorando su temi come l’identità, la resilienza e l’amore. Voglio continuare a evolvermi creativamente e a sostenere cause che mi stanno a cuore, soprattutto legate all’uguaglianza di fronte ai diritti fondamentali e al benessere emotivo. Anni fa, nel 2003, ho avuto l’onore di partecipare alla Biennale di Venezia con un progetto speciale assieme a Wim Delvoye e Absolut Vodka, a Palazzo Zenobio; è stata un’esperienza importante, mi piacerebbe riportare il mio lavoro in Italia. L’energia, la tradizione, l’artigianato italiano sono davvero fonte di ispirazione. L’Italia è unica e creativa, la adoro! L’arte unisce e sono sempre aperta a nuovi modi di creare un dialogo tra le culture».