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 2025  maggio 21 Mercoledì calendario

Vecchi riti e bersagli sbagliati

In altri tempi, sarebbe stata una crisi di governo. La delegazione di un partito che non vota, o addirittura vota contro un provvedimento in Consiglio dei ministri, è sempre stato un evento traumatico nella politica italiana, spesso destinato a provocare cambi di maggioranza o addirittura elezioni anticipate. Stavolta invece è scivolato via come l’acqua sul marmo. La Lega ha abbozzato una protesta e poi ha abbozzato e basta; ha subìto così il ricorso del governo davanti alla Corte costituzionale contro il terzo mandato dei suoi governatori, nella fattispecie il presidente della Provincia autonoma di Trento, Fugatti (ma in prospettiva anche Fedriga, presidente del Friuli-Venezia Giulia, dove in effetti una crisetta in giunta si è aperta). In altri tempi, sarebbe stata una crisi di governo. Oggi è paradossalmente una prova della sua stabilità.
Perché lo scontro sul terzo mandato, così come quello che sotto traccia si era svolto sulla riforma dell’autonomia differenziata, l’ennesimo pasticciotto Calderoli poi smontato pezzo a pezzo dalla Corte costituzionale, se da un lato rivela una profonda differenza di concezione dello Stato tra i partiti di Giorgia Meloni e Matteo Salvini, dall’altro lato conferma che sono condannati a stare insieme. Quando dopo un voto contrario in Consiglio dei ministri il vicepresidente di quello stesso Consiglio declassa a «questione locale» ciò che ha appena fatto, vuol dire che il governo non può cadere, perché non ha alternative.
E dunque durerà. Perfino una radicale divergenza su guerra e pace, su Europa e Ucraina, è stata fin qui derubricata a «differenza di opinioni». Così ognuno può dire la sua e farsi la sua campagna elettorale, mentre il governo ne viene tenuto al riparo.
Si può dire che questa sia una prova della superficialità dell’alleanza che ci governa, tenuta in piedi da un mastice diverso, e ben più potente, di quello rappresentato da ideali e convinzioni. Ma ne dovrebbe trarre conseguenze l’opposizione. La quale insiste invece pavlovianamente su una vecchia tattica che, anch’essa, andava bene in altri tempi: e cioè provare a dividere gli avversari per indebolirli. Con l’effetto boomerang di colpire spesso la sua stessa credibilità di futura forza di governo, con cortocircuiti logici e politici al limite del surreale.

Perché infatti il Pd attacca il governo Meloni mentre fa una cosa che condivide, e cioè dice no al terzo mandato? Perché mai il ricorso alla Consulta andava bene quando era contro De Luca e conveniva a Schlein, e non adesso che silura Fedriga, dopo aver già silurato Zaia? La segretaria dem dice che «nel governo si sono spaccati per le poltrone». Vero. Ma tutti sanno che avviene anche nel Pd, e non solo in Campania.
Lo stesso vale per materie più complesse e delicate, decisive per dimostrare una maturità da forza di governo. La politica internazionale, per esempio. Qualche giorno fa mi sono sorpreso ad ascoltare la veemenza con cui Giuseppe Conte sparava a pallettoni contro Giorgia Meloni accusandola di essersi isolata, o di essere stata isolata, dal gruppo dei Volenterosi sull’Ucraina; quando egli stesso è notoriamente e furiosamente contrario a quella iniziativa di Francia e Germania, al piano di riarmo di Ursula von der Leyen, all’ipotesi di mandare truppe in Ucraina e perfino a ogni ulteriore aiuto militare al paese aggredito da Putin. Conte avrebbe dovuto applaudire una premier che si allontana dall’Europa: è quello che farebbe lui se fosse al suo posto. E invece...
Non sono cose che, come si suol dire, lasciano il tempo che trovano. Spiegano anzi forse il singolare segnale dei sondaggi, dai quali risulta evidente che il gradimento del governo scende, ma il voto per i partiti di opposizione non sale.
Capisco che la politica di oggi è fatta giorno per giorno, e i leader pensano che contino solo le battute sprezzanti e le sceneggiate polemiche. Ma c’è un angolo della mente degli elettori in cui queste realtà si pesano, si misurano, e passata l’ondata di popolarità di una settimana, si sedimenta un giudizio politico. E l’opposizione in questi due anni e mezzo non ha fatto un solo passo in direzione di una maggiore credibilità come alternativa di governo.
Ben diverso effetto sortiscono gli attacchi provenienti dal «campo largo» quando invece di cercare la faglia di frattura tra i partiti di maggioranza, cercano e trovano quella tra il governo e il Paese. Che in molti campi è più profonda di quanto sembri. Un esempio: la Sanità. Il nostro sistema, che dovrebbe essere pubblico, gratuito e universalistico, è in grave crisi non solo di fondi ma di personale e di organizzazione. Il cittadino non ne è più al centro. Se oggi vuoi fare esami diagnostici o interventi terapeutici efficaci e rapidi, ci devi mettere un sacco di soldi di tasca tua. E chi non può, non si cura.
Non dico che sia colpa di Meloni, che è lì da mezza legislatura; ma il governo sbaglia quando prova a sottovalutare il problema, rifugiandosi dietro i numeri in crescita della spesa sanitaria. Terreno polemico che la sinistra accetta volentieri, perché dall’opposizione è sempre facile proporre di spendere di più, molto di più. Ecco dunque un campo sul quale incide, come si è visto di recente nel botta e risposta con la premier alla Camera.
L’Italia ha molti problemi (primo dei quali i salari bassi e la bassa produttività, vero e proprio tallone d’Achille del sistema) che il governo non riesce ad affrontare anche perché troppo spesso perde tempo con quisquilie come il terzo mandato. L’opposizione fa bene a denunciarli. Ma ha abbastanza forza nella società, nei sindacati, nelle regioni e negli enti locali per contribuire a risolverli. Meno strilli e più emendamenti, meno cortei e più contratti: per provare a usare utilmente il tempo da qui alle elezioni. Conviene presumere che sarà ancora lungo.