Corriere della Sera, 21 maggio 2025
«L’infanzia nelle sezioni del Pci Con Floris ho fatto il gradasso, oggi in tv racconto i sognatori»
Luca Telese sta passando la vernice sul muro della palazzina liberty dove vive, accanto al Teatro Ambra Jovinelli di Roma, per coprire le scritte dei writer. «L’amministratore ci aveva fatto un preventivo di 800 euro», spiega. Ha fama di divertirsi con i lavori manuali. E infatti, nel salotto di casa sua, i due divani Chesterfield che sembrano appena usciti da un negozio di modernariato li ha restaurati lui. «Quando ho avuto bisogno, l’ho fatto anche per rivenderli. Da ragazzo, vendevo scatole decorate e stampavo magliette». Leggenda narra che anni fa abbia cambiato una ruota con il cric in quattro minuti, ad Alghero, per riuscire ad arrivare in tempo all’aeroporto ed essere a Roma il primo giorno di scuola di Enrico, il figlio suo e di Laura Berlinguer, il nipote del «più amato».
Da chi ha preso la manualità?
«Da mio zio Aldo Pitzalis, ramo materno».
Mamma Giovanna Coni era di Serramanna.
«E io sono nato a Cagliari il 10 aprile 1970, due giorni prima dello scudetto di Gigi Riva».
Nasce da questo il suo legame con l’isola?
«Non solo. Ero molto legato a mio nonno Erminio, ufficiale della Brigata Sassari. Nato nel 1897, aveva combattuto in due guerre. I miei mi affidavano a lui ogni estate».
Suo padre, però, non era sardo.
«Era napoletano di Torre Annunziata. I miei si erano conosciuti da precari in Ciociaria: lei insegnava francese e lui matematica e fisica».
Quanto ha contato la sarditudine nell’amore per Laura Berlinguer?
«Poco. Eravamo due ragazzi, lavoravamo a un programma demenziale, Cronache Marziane: non ci eravamo scambiati i certificati anagrafici. L’amore per la Sardegna ha contato dopo, quando abbiamo preso casa ad Alghero».
Chi ha scelto il nome di vostro figlio?
«Io. Laura ha acconsentito solo perché il cognome sarebbe stato diverso da suo padre. Enrico, il frutto più bello della mia vita, ha idee chiare: non vuole fare il giornalista. Io lo chiamo il prezzometro: se vede un paio di scarpe, un quadro o un mobile lui sa subito quanto costa. Sa valutare le cose belle».
Anni fa raccontò sul «Corriere» ad Angela Frenda che fu Francesco Cossiga a farvi fidanzare. Perché non fece da testimone di nozze?
«Lui non c’era più e comunque Laura non voleva “vip”. Ci siamo sposati con gli amici stretti a Labico, nella campagna laziale. Io avevo appena perso mio padre, e poco dopo è mancata la madre di Laura, la signora Letizia: abbiamo fatto in tempo a farle vedere le foto sull’iPad. La sua famiglia aveva adottato i miei: sarò sempre grato per questo».
Come mai è finita?
«Siamo stati vittime della pandemia, come tanti altri, più il peso di lutti non condivisi. Amore forte e passione per nostro figlio non sono bastate. Ora ho una splendida compagna, Miriam: fa tutt’altro, lavora all’Enel».
Si è sempre definito un militante che viene dal Pci. Dove nasce questa passione?
«Sono cresciuto nelle sezioni, i miei erano due iscritti. Mia mamma era anche femminista. Ero con lei in strada quando fu uccisa Giorgiana Masi, a pochi metri da noi: avevo 7 anni. Mamma, disperata, citofonava per metterci al riparo. Qualcuno dalle finestre lanciava limoni per ridurre l’effetto urticante dei lacrimogeni sugli occhi».
Ricordi meno drammatici?
«Alle feste di tesseramento, nella sezione di Monteverde, veniva Gianni Rodari: raccontava favole e faceva disegnare noi bambini sul retro dei manifesti. Una volta i maestri comunisti invitarono nella mia scuola Alberto Moravia per il suo libro sull’Africa, una noia mortale. Quando lo dissi a mio padre mi tirò uno schiaffo: “Vergognati – disse —: è un intellettuale che si è messo a disposizione”».
Andò al funerale di Enrico Berlinguer?
«Sì, nel 1984 abitavamo a Cinecittà Est. Dalla mia stanza mi affacciavo al Raccordo anulare per vedere se arrivava il pullman dal Sud e andare con i parenti di Torre. Il giorno dopo, feci la tessera della Fgci: avevo 14 anni».
Ed è vero che la scorta di Berlinguer, alla quale ha dedicato un bel libro, è venuta a conoscere suo figlio?
«Fu una cena organizzata da Luigi Manconi, loro mi fecero il terzo grado: volevano capire in che mani sarebbe cresciuto il piccolo Enrico».
A quale dei suoi libri è più affezionato?
«A La scorta di Enrico e Cuori Rossoblù, perché raccontano l’Italia degli Anni 60 e 70, la generazione d’oro che ha cambiato il Paese».
Un ricordo di Gigi Riva?
«Andai da lui con Tommaso Giulini, avrei dovuto intervistarlo sulla sua presidenza onoraria del club per la rivista del Cagliari Calcio. Quando aprì era già torvo e andò di male in peggio: “Ho detto di no ad Agnelli, figurati se non posso dire no a voi”. A salvarci fu Tomas (Tomasini, libero della squadra, ndr). Gli disse: “Guarda che non devi farlo solo per te, tu rappresenti tutta la squadra”. E cambiò idea».
Ha una fissa per i cuori. Il suo saggio di esordio si intitola «Cuori neri».
«Quel libro mi ha cambiato la vita. Un giorno saltò per aria la sezione del Msi a Monteverde e mia madre accorse, convinta che fossi lì. Per fortuna ero andato a giocare a pallone con gli amici a Villa Sciarra».
A quale suo programma è più affezionato?
«In onda è la mia identità. Ma Tetris aveva una quantità di innovazioni e sperimentazioni che puoi fare solo da giovane. Come Planet 430, sul canale 430 di Sky. La genialata del produttore Lorenzo Mieli fu affittare uno studio in via Sambuca Pistoiese. Quando chiamavamo gli ospiti, pronunciavamo la parola magica Sky ed era verosimile perché venivano in quello studio attaccato al muro di Sky. Quando Formigli, che su Sky conduceva Controcorrente, se ne accorse ci mandò infuriato i redattori».
Il mercoledì, adesso, conduce «Sognatori», su La7. Anche lei è un sognatore?
«Lo spero. Nel programma racconto storie di imprese straordinarie, da Brunello Cucinelli a Donnafugata a Renzo Rosso. Amo Rosso, che quando in America fallì, aveva già in mente i jeans che l’avrebbero reso ricco».
Lo dice ricordando il quotidiano che fondò nel 2012, «Pubblico»?
«Quello non lo considero un fallimento».
Beh, chiuse in tre mesi.
«Intanto l’80 per cento dei redattori che ho assunto erano disoccupati e ci ho visto lungo. Tra gli altri c’erano Tommaso Labate e Francesca Schianchi. Ci ho perso quote per 150 mila euro. Laura mi rimproverava che con quei soldi avrei potuto estinguere il mutuo».
Marianna Aprile, con la quale dal 14 giugno condurrà «In Onda», che collega è?
«Esprime valori etici anche quando appoggia il casco in redazione».
Luisella Costamagna?
«Un ufficiale sabaudo travestito da giornalista. Ho tifato per lei pure a Ballando».
La più stakanovista?
«Lilli Gruber. Più eroica di lei c’è solo Barbara D’Urso».
Perché?
«Una volta l’andai a salutare a Cologno Monzese e mi portò nell’appartamento proprio dentro gli studi: due stanze, palestra, soggiorno, camera da letto, cucina con l’isola».
Marco Travaglio?
«Un genio, un computer umano. Carismatico, un po’ gesuita. Abbiamo litigato dopo un titolo per la sua sbornia beppegrillina. Forse oggi su quello mi darebbe ragione».
Chiambretti?
«Un altro genio. Purtroppo a farmi fuori dal suo programma fu Irene Ghergo».
Definì il «Ballarò» di Floris l’house organ del Pd. Lo direbbe ancora?
«Ero un giovane gradasso che voleva farsi strada in quella La7 corsara: lui era la concorrenza in Rai. Giovanni è di una correttezza incredibile, ha una capacità di lavoro mostruosa».
Da un anno dirige il Centro di Pescara.
«Faccio il pendolare: vivo in Abruzzo dal martedì al venerdì. È un giornale glorioso che si è fatto popolo. Amo la redazione».
Ogni mattina è su Giornale Radio. Cosa la diverte di più?
«Per quelli della nostra generazione, direi il quotidiano. Però Dino Risi diceva: “Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo dalla finestra sto lavorando?”».
Ha comprato la Multipla da un taxista?
«Sì. Mentre ero a bordo mi aveva detto che la stava per cambiare, aveva 180 mila chilometri. Gliela pagai 3.800 euro. Non ho mai avuto una macchina nuova in vita mia, tutte sempre di seconda o terza mano».
Ci va ogni tanto all’Isola Piana, l’isola dei Berlinguer, nel Parco dell’Asinara?
«Può andarci chiunque: Enrico e Giovanni la ereditarono per parte materna. Il Candido provò a fare una campagna diffamatoria sull’isola dei ricchi, per screditare Berlinguer. Lui, quando nel ’75 vinse la sinistra, fece votare in consiglio comunale la non edificabilità. L’Aga Khan gli aveva offerto un miliardo di vecchie lire per farci un resort. Loro invece la concessero in comodato quasi gratuito a un pastore per portare le vacche a mangiar l’erba».
Ma come ci arrivavano?
«A nuoto!».