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 2025  maggio 21 Mercoledì calendario

Nella trincea di Harvard

Siamo in tanti alla Lippmann House per salutare Ann Marie Lipinski, che dopo 14 anni lascia la guida della Nieman Foundation, il programma di studio che la Harvard University offre ogni anno a un piccolo gruppo di giornalisti americani e stranieri. Eravamo insieme nella classe del 1990 e sono tornato dopo trentacinque anni, non solo per festeggiarla, ma anche per vedere da vicino il grande scompiglio. Anche il presidente Alan Garber è venuto per un breve saluto. Poche parole di affetto e stima per Ann Marie, ma accolte da un applauso fragoroso, dove più della nostalgia risuona l’orgoglio. È lui il campione dell’onore e dell’indipendenza del più prestigioso ateneo della Ivy League, la lega universitaria dell’edera rampicante, che Donald Trump si è scelto come obiettivo primario del suo assalto all’autonomia e alla libertà dei templi del sapere americano.
La guerra è iniziata in aprile, quando l’amministrazione ha chiesto a sette college d’élite (Harvard, Columbia, Brown, Cornell, Pennsylvania, Northwestern e Princeton) di contrastare con forza l’antisemitismo, in crescita nei campus dopo l’attacco di Hamas a Israele e la reazione distruttiva di quest’ultima nella Striscia di Gaza, pena il taglio dei fondi federali che da sempre finanziano la ricerca avanzata negli atenei degli Stati Uniti. Le somme in ballo sono enormi: almeno 12 miliardi di dollari a sostegno di progetti che sono la sostanza dell’egemonia Usa in ogni campo della scienza. C’è voluto poco per capire che l’antisemitismo, problema serio e negletto dalle autorità universitarie, era solo una scusa. In realtà, spiega lo storico Simon Schama, che fu mio professore durante l’anno ad Harvard e oggi insegna alla Columbia, «quello di Trump è il tentativo di sottomettere le università al suo controllo, imponendo loro una purga ideologica».
Mentre gli altri college hanno tenuto un profilo basso, i due più celebri hanno preso strade opposte. Tra la sorpresa generale, Columbia si è piegata alle domande dell’amministrazione, fra le altre cose creando una speciale polizia interna con il potere di arrestare eventuali dimostranti e nominando un supervisore accademico, una specie di commissario politico incaricato di monitorare il suo dipartimento di Studi mediorientali. Scelta criticata, che comunque è servita a poco: a oggi il governo si rifiuta di sbloccare i 450 milioni di dollari di contributi e contratti al college newyorkese, che aveva congelato.
Harvard invece ha scelto di combattere. Quando l’11 aprile il dipartimento dell’Educazione ha lanciato il suo ultimatum, è apparso chiaro che l’antisemitismo c’entrava poco o nulla. Washington chiede al college del Massachusetts di azzerare il potere dei dipartimenti, cambiare i suoi metodi di ammissione e assunzione escludendo ogni criterio di sesso o razza e favorendo una «diversità di punti di vista», restringere l’ammissione degli studenti internazionali giudicati a rischio, eliminare ogni principio di diversità e inclusione, verificare e riformare sotto controllo esterno i programmi accademici sospettati di alimentare pregiudizi antisemiti o essere ideologici. Come osserva basito l’insospettabile Wall Street Journal: «Bisognerà abolire i corsi su Shakespeare e Marx?».
Sono bastate 72 ore per concludere che quella di Trump era una minaccia esistenziale a una istituzione vecchia quasi 4 secoli. È stato Garber a scrivere la lettera aperta, che è già una bandiera: «L’Università non si arrenderà e non rinuncerà ai suoi diritti costituzionali. Nessun governo, a prescindere da chi è al potere, dovrebbe dettare ai college privati ciò che possono insegnare, chi possono ammettere e assumere, quali aree di studio e ricerca devono perseguire».
Da quel momento è stata un’escalation. L’amministrazione ha congelato 2,2 miliardi di dollari di fondi per la ricerca destinati a Harvard. Il college ha denunciato il governo in una corte di Boston in nome del primo emendamento che protegge la libertà di espressione e del Civil Rights Act. Trump in persona ha minacciato di togliere l’esenzione fiscale per le donazioni all’ateneo. Poi, la segretaria all’Educazione Linda McMahon ha annunciato che finché l’università non accetterà il diktat, non riceverà più un solo dollaro di contributi federali. Harvard ha rincarato la dose, ampliando la sua azione legale e accusando il governo di «voler distruggere le sue attività di ricerca». Il dipartimento della Giustizia ha risposto, aprendo un’indagine per stabilire se Harvard abbia gestito le ammissioni in modo fraudolento. La battaglia è solo agli inizi. Una prima udienza è prevista per luglio.
La diversità dei punti di vista è cruciale ma quando viene imposta dal governo diventa orwelliana
Garber è ora una vera star fra gli studenti. «Mai visto un sostegno così ampio a un rettore, ci ha dato un grande senso di appartenenza», mi dice David, al terzo anno di Storia, che si divide tra lo studio e il lavoro di reporter al Crimson, storico giornale del campus.
Ma con grande saggezza il presidente ha fatto anche altro. Perché almeno su una cosa, egli è d’accordo con Trump. Harvard ha un problema nel campus che va affrontato e risolto: la scarsa tolleranza verso chi non è in linea con la sua cultura liberal. Non solo, in verità l’antisemitismo (ma anche l’islamofobia) hanno spazio nella comunità degli studenti. Due rapporti, commissionati di recente dal rettore, che è ebreo, hanno documentato decine di episodi, anche di minacce fisiche, che lo confermano.
«Abbiamo lavoro da fare – ammette il presidente —, dobbiamo assicurare che l’università riaffermi una cultura di libera indagine, diversità di punti di vista, curiosità accademica. Soprattutto ci deve essere uno sforzo per avere empatia gli uni per gli altri e non partire dall’atteggiamento che qualcuno con una diversa identità non sia umano come te».
«La diversità dei punti di vista è cruciale – dice Steven Pinker, psicologo e celebrità dell’ateneo – ma quando viene imposta dal governo diventa orwelliana». Garber, che si è ridotto del 25% lo stipendio dal 1° luglio, ha già cambiato nome e modello all’ufficio per i problemi di diversità, equità e inclusione, da tempo nel mirino, ora ribattezzato Community and Campus Life. E ha sospeso i fondi che l’università dava alle cerimonie di laurea di genere, come quelle per gli studenti Lgbtq+.
C’è un’atmosfera strana nello Yard, cuore del campus dove gli studenti si giurano ancora amore davanti alla «statua delle tre bugie»: John Harvard, Founder, 1638, è scritto nel piedistallo. Ma quello non è John Harvard bensì il modello che posò per lo scultore due secoli dopo la sua morte; egli non fu il fondatore ma solo il primo grande benefattore e l’ateneo fu creato in realtà nel 1636 con un voto della Corte generale della colonia del Massachusetts.
Fierezza per la reazione del presidente e preoccupazione per il futuro si mescolano in un groviglio inestricabile di sentimenti e percezioni. Harvard è ricca, ha un patrimonio da 52 miliardi di dollari, ma la maggior parte sono soggetti a vincoli precisi e severi; quindi, la fine dei fondi federali per la ricerca avrebbe effetti distruttivi sulle sue eccellenze. I mecenati, quasi tutti ex studenti diventati miliardari, sono divisi: le donazioni sono aumentate da quando il college ha detto no a Trump, ma molti pensano che il college dovrebbe fare ancora di più per risolvere i problemi riconosciuti dal rettore. La battaglia legale sembra mettersi bene: la squadra di avvocati (conservatori) assunta è formidabile. «Ma vincere nelle corti non basta – dice David, lo studente giornalista —, occorre farlo nei cuori dell’America profonda, che da sempre guarda con sospetto l’élite della Ivy League».