la Repubblica, 21 maggio 2025
Garlasco, a ciascuno il suo mistero
Ci mancavano giusto le gemelle: e, infine, nella saga nera del delitto di Garlasco sono arrivate anche loro, le sorelle Cappa. Per chi ha una certa età, sentire quel suono – in tv o alla radio senza leggere le lettere che lo compongono – evoca il fattore K (come Kommunismus) coniato dall’acribioso ingegnere Alberto Ronchey per indicare gli ostacoli, psicologici e politici, posti all’ingresso dei partiti comunisti nei governi delle democrazie occidentali. Ma qui la politica non c’entra affatto, neanche di sguincio. E nemmeno si palesano altri risvolti: che so? “una finalità di odio o discriminazione razziale”, l’ombra della criminalità organizzata o – non sorprenderebbe considerato il territorio – i cupi rituali di una setta satanista. No. Qui il delitto è nudo e crudo, come proiettato in una asettica e astratta dimensione del male. Non risponde nemmeno allo schema “classico” – Dio mi perdoni ma anche i crimini possono avere una loro, efferata, classicità – di un femminicidio. È un delitto, per così dire, assoluto: una persona che uccide un’altra persona, come sempre nella storia del mondo. Sullo sfondo nessuna marginalità sociale, nessuna figura borderline, nessuna radice ambientale, nessuna causa psicopatologica che aiuti a spiegarlo. Ma forse è proprio questo a motivare tanto interesse e tanto morboso zelo nel seguire le ricostruzioni vere e quelle verosimili e, ancor più, quelle decisamente inaudite. E perché un così accaldato accorrere di criminologi e soprattutto criminologhe, consulenti forensi e neuropsichiatri? E se pensate che manchi una veggente, vi sbagliate di grosso. C’è stata anche quella. Non diamo la colpa, per carità, alla manipolazione dei media: quelli possono fare il loro “sporco” lavoro perché noi (io e voi) ci rendiamo disponibili.
Oltre quarant’anni fa, Hans Magnus Enzensberger pubblicava un magnifico saggio sul fatto che la categoria di “piccola borghesia” si estendesse a dismisura fino ad arrivare a comprendere la grande maggioranza dei cittadini delle società democratiche. Quel testo sottovalutava i contemporanei processi di impoverimento dei ceti medi ma analizzava assai bene la dimensione culturale e fin antropologica del fenomeno. Ecco, questo è un crimine perfettamente “piccolo – borghese”. Si pensi all’ambientazione: siamo nella bassa Padana, terra di benessere discreto e morigerato, dove “la villetta” è una modalità dell’abitare di antica tradizione più che il segno di una ostentata opulenza. E, ad assicurare i collegamenti, provvedono, almeno quanto i tronfi suv, i pedali delle biciclette. Una buona parte della gioventù di queste contrade tende a completare gli studi sino alla laurea, dividendosi tra l’ateneo di Pavia, stimato e a un tiro di schioppo, l’università cattolica del Sacro Cuore di Milano, rassicurante e familiare, e la Bocconi, selettiva e prestigiosa. Non a caso, sappiamo che tra quanti sono coinvolti a vario titolo in questa tragedia, numerosi sono gli avvocati e le avvocate, e sia la vittima che quello che è a oggi il colpevole, erano due brillantissimi studenti di economia. Le loro esistenze procedevano seguendo stili e scenari simili a quelli illustrati dai depliant patinati delle agenzie immobiliari che propongono la bellezza della vita in campagna. Con tutti i comfort, sia chiaro. È questa rappresentazione così pacifica e pacificata di un universo protetto, infranto dall’assassinio di Chiara Poggi, ad accendere il plot del racconto e a suscitare una curiosità irresistibile. D’altra parte, la struttura narrativa dell’intera vicenda non richiama alcuno dei modelli tradizionali del genere poliziesco o del thriller: non c’è l’investigatore paziente e acuminato e anche il Ris dell’Arma dei Carabinieri, che pure è stato co – protagonista nel trattare tantissimi delitti – per meriti di indagine e per umanissima vanità – sembra giocare un ruolo secondario.
La scena del crimine, non quella circoscritta all’interno della villa dei Poggi, ma l’ambientazione complessiva dell’intera vicenda e dei suoi personaggi, risulta come vuota: non emergono storie parallele, memorie di delitti irrisolti, antiche stragi o preoccupanti tassi di criminalità. Dunque, il pubblico si deve arrangiare come può e lo fa ciascuno inventando la propria teoria, aggiungendo particolari pruriginosi (persino un’ipotesi di omosessualità) facendosi investigatore, procuratore, giudice e cronista. D’altra parte, si deve ricordare non solo che il genere poliziesco è quello che in Italia raccoglie il maggior numero di lettori, ma anche che oggi gli scrittori italiani di gialli sono molte centinaia, ciascuno dotato di un proprio detective. Non c’è quasi città italiana che non abbia il proprio Montalbano con annesso accento dialettale, trattoria preferita, tic e ossessioni, vita sentimentale disastrata. A tal punto è arrivata la specializzazione criminologica che esiste una serie di romanzi sui “delitti delle Langhe” e nella sola Sassari (122 mila abitanti) si contano almeno quattro autori di gialli ambientati in quella città. È probabile, dunque, che il mistero di Garlasco sia destinato, tanto più dopo questo imprevisto replay giudiziario, a produrre, a sua volta, altri scrittori e altre veggenti. Anche perché, come si sa, la figura dei gemelli, nel mito, nella letteratura e nella psicoanalisi, evoca il concetto del doppio. Dunque, più una fiction infinita che un ordinario fatto di cronaca.