lastampa.it, 21 maggio 2025
L’Istat: la bassa natalità dell’Italia? Un problema vecchio di 100 anni
Gli italiani fanno pochi figli? Il problema non riguarda l’oggi, ma è vecchio di cent’anni, segnala l’Istat nel suo rapporto annuale che viene presentato oggi ed attraverso il quale l’istituto fornisce la tradizionale fotografia di un paese, il nostro, che vede la popolazione calare ed invecchiare sempre di più, l’occupazione crescere più del Pil, la disoccupazione scendere in maniera verticale (-40% in 5 anni), la situazione economica delle nostre famiglie restare sempre molto «fragile» ed il valore aggiunto aumentare, ma solo perché c’è più gente al lavoro, non certo per i fattori legati all’innovazione che invece negli ultimi tempi segnano il passo.
C’è la fotografia dell’oggi, a partire dallo scenario economico, e quello demo-sociale e «di lungo periodo in cui si considerano i cambiamenti tra le generazioni nella formazione della famiglia e nelle scelte riproduttive nei comportamenti sociali, nell’istruzione nelle condizioni economiche e nelle opportunità professionali» segnala il presidente dell’Istituto Francesco Maria Chelli. Ed è proprio questo approccio che consente all’Istat di sfatare un luogo comune, ovvero che quella della scarsa fecondità sia un problema degli anni più recenti. L’emergenza demografica, che tanto preoccupa il governo che per questo ha varato a più riprese interventi più o meno efficaci a sostegno delle famiglie, insomma, ha radici lontane.
Una società per tutte le età
Dall’analisi dei dati, è scritto nella presentazione del terzo capitolo del rapporto intitolato «Una società per tutte le età» e curato da Sabrina Prati, «appare evidente come il nostro Paese sia connotato da un modello di fecondità bassa e tardiva da molte generazioni». Alla fine della loro storia riproduttiva, infatti, le donne nate all’inizio degli anni Trenta del secolo scorso avevano avuto in media circa due figli per donna, se residenti nel Nord e nel Centro, mentre quasi tre nel Mezzogiorno. A partire dalle nate negli anni Sessanta si nota poi un processo di progressiva convergenza, al di sotto dei due figli per donna, in tutte le ripartizioni. Nel Nord già la generazione del 1933 era al di sotto dei due figli per donna, considerata la soglia di sicurezza per non veder arretrare una popolazione. Nel Centro arriva a questo livello quella del 1939, nel Mezzogiorno, invece, bisogna arrivare fino alla generazione del 1961. Poi, a partire dalle nate negli anni Sessanta si nota un processo di progressiva convergenza al di sotto dei due figli per donna in tutte le ripartizioni.
Non solo si fanno sempre meno figli ma si fanno anche sempre più tardi. L’età media alla nascita del primo figlio aumenta infatti dai 25,9 anni della generazione del 1960 ai 29,1 anni di quella del 1970 ed il rinvio del primo figlio è ancora più marcato per le generazioni più giovani. La convergenza tra i modelli territoriali comporta anche una minore differenza nell’età alla nascita del primo figlio: per la generazione del 1983 si va dai 30,9 anni nel Centro ai 29,7 nelle Isole (30,3 anni in media nazionale).
Ma il dato di rilievo, segnala ancora l’ Istat, è che nel passaggio dall’ipotetica generazione di madri nate nel 1958 a quella delle loro ipotetiche figlie nate nel 1983, che hanno superato oggi i 40 anni, raddoppia la quota di donne senza figli (dal 13 per cento al valore stimato del 26 per cento), con un picco di circa tre donne su dieci nel Mezzogiorno. Parallelamente si riscontra un’accentuata posticipazione dell’età alla nascita del primo figlio, che aumenta il rischio di avere un numero di figli inferiore alle attese o di non averne affatto.
Crollano i matrimoni
L’Istat segnala anche un crollo della nuzialità: mentre la quota di donne nate nel 1933 che all’età di 40 anni risultava non sposata era pari al 12,1% quella delle nate nel 1983 oggi arriva a toccare il 42,2%. Le cause di questo crollo sono definite «strutturali»: da un lato la denatalità ha ridotto il numero dei giovani adulti, dall’altro le unioni libere tra celibi e nubili sono sempre più diffuse. Nel passaggio generazionale madri-figlie l’Istat individua una seconda transizione demografica.
Si fuma di meno, si vive di più
Differenze rilevanti tra le generazioni si apprezzano quando si considerano gli stili di vita. A partire dai nati degli anni Cinquanta, si osservano miglioramenti continui nei comportamenti legati alla salute: calano i fumatori e cresce l’attenzione alla pratica sportiva. Accanto a questi segnali positivi, emergono tuttavia nuove criticità: aumentano i casi di sovrappeso e di obesità già dall’infanzia, si diffondono nuove forme di fumo (sigarette elettroniche, prodotti a tabacco riscaldato), e tra i più giovani preoccupano i fenomeni di ubriacature dovute soprattutto al consumo di superalcolici. Si è spostata in avanti anche l’età in cui si diventa anziani: i 75enni di oggi possono contare di vivere in media lo stesso numero di anni dei 64enni degli anni Cinquanta. Ma questi progressi non sono uniformi, segnala infine l’Istat: restano marcati i divari legati al territorio, al genere, alla condizione socioeconomica