Avvenire, 21 maggio 2025
La regrimazione: paradosso populista dei sovranisti in cerca di manodopera
Remigrazione è la nuova parola d’ordine dei sovranisti italiani.
L’hanno mutuata dai sodali tedeschi di Afd, che ne avevano fatto il loro slogan elettorale. Significa cacciare gli immigrati, irregolari e regolari, richiedenti asilo e lavoratori insediati, singoli e famiglie che vivono nel paese da anni. Viene in mente un film, “Un giorno senza messicani”, di Sergio Arau. Un politico californiano che intende trarre vantaggio dalla xenofobia lancia una campagna per cacciare gli immigrati, nel suo caso messicani. Un giorno cala una fitta nebbia e scompaiono all’improvviso i messicani. Comincia così un’esilarante sequenza di disavventure: coppie che non si ritrovano, attività che si fermano, famiglie che rimangono senza il pranzo pronto e con i letti sfatti… Si arriva così alla scena finale, in cui il politico che ha lanciato la campagna apre le porte della sua sontuosa dimora, con un sorriso ipocrita stampato sulla faccia, e si rivolge a un ignaro immigrato messicano, invitandolo a entrare in uno spagnolo stentato: «Mi casa es tu casa!». La remigrazione è l’esasperazione del paradosso populista. La speculazione sulle paure sollevate dall’immigrazione da Paesi poveri, oggi soprattutto dalle persone che arrivano dal Sud del mondo in cerca di asilo, si scontra con i fabbisogni di manodopera che obbligano anche le forze più riluttanti, quando assumono responsabilità di governo, ad aprire i confini a numeri cospicui di lavoratori stranieri. I promotori della remigrazione dovrebbero rivolgere i loro strali non verso un astratto globalismo, ma verso l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni.
Il governo più sovranista del dopoguerra ha varato infatti un decreto-flussi da 452.000 ingressi in tre anni, riferiti a un ampio ventaglio di occupazioni e di settori economici, a cui ne ha aggiunti altri 10.000 quest’anno, per coprire i fabbisogni di assistenza in ambito familiare. Dalle famiglie con anziani fragili ai cantieri edili, dai campi ai ristoranti, il lavoro straniero è sempre più richiesto. Già oggi abbiamo in Italia 2,4 milioni di occupati regolari, oltre il 10% del totale. E le associazioni imprenditoriali dicono che ne servirebbero molti di più. Anche a livello europeo, la recente apertura all’ingresso di lavoratori è la principale novità nelle politiche migratorie degli ultimi anni. Potrebbe offrire un punto di convergenza, forse l’unico, ai sostenitori di posizioni contrapposte su una questione così divisiva e apparentemente intrattabile. Brandendo la clava della remigrazione, i sostenitori della purezza etnica preferiscono invece nascondere sotto il tappeto il misconosciuto assenso del loro governo alle esigenze dei datori di lavoro e alzare il livello di sfruttamento dei sentimenti d’insicurezza che si scaricano sul capro espiatorio degli immigrati. Si potrebbe minimizzare: scaramucce interne all’inquieta coalizione di governo, corsa verso posizioni sempre più estreme per accaparrarsi i consensi di una fetta di elettorato che vuole credere in soluzioni semplici a sfide complesse come quelle del governo di una società multietnica. Ma in realtà le parole pronunciate da chi ricopre responsabilità pubbliche e ottiene risonanza nel circuito mediatico non sono innocue.
Legittimano il linguaggio razzista, la costruzione di steccati mentali tra “noi” e “loro”, la richiesta di trattamenti differenziali e di misura discriminatorie. Alla fine, insulti, derisioni, espressioni irriguardose. E a volte anche di peggio. Invocare il rigore della legge per porre fine a campagne odiose è sempre una strategia discutibile: presta il fianco all’accusa di censurare le opinioni radicali e sgradite, favorendo il vittimismo degli odiatori. J.D. Vance ce l’ha mostrato a proposito di Afd in Germania. Di certo però abbiamo bisogno di un sussulto di coscienza civile per affermare una cultura dei diritti umani, del rispetto delle persone e del rigetto delle discriminazioni in tempi di offuscamento dei principi democratici.