Robinson, 11 maggio 2025
Intervista a Gianni Cervetti
Non puoi non voler bene a Gianni Cervetti: il comunista dalla faccia mite e dagli occhi che contemplano il passato. Se fosse nato in quel mondo di tumulti e passioni ereticali che fu il Medioevo avrebbe forse indossato il saio francescano e seguito il santo nelle sue peregrinazioni. Ma Cervetti ha scelto un’altra chiesa, senza tuttavia rinunciare al bisogno di riforma che anima certi spiriti duri e illuminati. Ha compiuto 93 anni e ha visto sparire a uno a uno i suoi amici più cari: Emanuele Macaluso, Giorgio Napolitano, Aldo Tortorella. Grandi vecchi di una stagione politica irripetibile. Vive nella sua ampia casa milanese circondato dai libri, soprattutto antichi, che rispecchiano la passione del bibliofilo (raccontata neI ragazzi di via Rovello).
Troneggiano numerose prime edizioni della Divina Commedia. Un angolo è riservato all’Encyclopédie di Diderot e D’Alambert, ovviamente anch’essa una prima edizione. Fa strano vedere in bella mostra le opere di Palmiro Togliatti, sette volumoni pubblicati dagli Editori Riuniti, non distanti da quelle di Machiavelli.
Ricorda quando ha sentito per la prima volta pronunciare il nome di Machiavelli?
«Studiavo al ginnasio. Non ero un bravo studente ma il professore di italiano e latino riuscì a suscitare il mio interesse per alcuni classici, tra cui appunto Machiavelli. Udii il professor Nulli parlare in modo appassionatodell’autore del Principe. Una lezione indimenticabile che mi spinse ad acquistare il libro e altri classici pubblicati dalla “Universale del canguro”, una collana economica edita dalla Cooperativa del Libro Popolare, un’iniziativa editoriale appoggiata da Palmiro Togliatti. Mi aveva impressionato il fatto che l’anno prima, nel 1948, il segretario del Pci fosse stato seriamente ferito in un attentato».
Questo la convinse a entrare nel Pci?
«Furono le prime e informi letture a spingere me e un mio compagno di scuola a chiedere la tessera. Avevamo 16 anni».
In casa come reagirono?
«Non erano certo ostili. Mia madre era di sentimenti cattolici, mio padre aveva generici ideali socialisti.
Pensavano soprattutto a lavorare».
Cosa facevano?
«Avevano un’osteria. La mamma si occupava della cucina e papà dei vini. Ma tutta la famiglia, in modi diversi, era impegnata. Mia sorella Rita, mio fratello Andrea. Io, il più piccolo, svolgevo nel tempo libero dagli studi i compiti del garzone».
Aiutava volentieri?
«Sentivo che era giusto così. E poi quel periodo trascorso a servire ai tavoli, imbottigliare il vino, portarlo ai clienti, è stata una scuola di umiltà. L’osteria di via Rasoli riempì una parte importante della mia adolescenza. Ricordo che su una parete troneggiava un telefono, allora una rarità.
Venivano i vicini a telefonare o a ricevere chiamate.
L’osteria era aperta 364 giorni l’anno. Il solo giorno di riposo era il Ferragosto. Così aveva stabilito mio padre».
Avrebbe seguito le orme paterne?
«Papà voleva che facessi l’università, come mio fratello, iscritto a Economia e commercio. Quando fu il momento scelsi medicina. Ero convinto che sarei stato un buon medico. Poi gli eventi presero un’altra direzione».
C’entra per caso il Pci?
«C’entra eccome. Ero già alla fine del secondo anno di medicina quando venni convocato dalla federazione comunista. Era il 1954, una giornata piovigginosa. Milano sembrava un racconto di Scerbanenco. Ero curioso e un po’ intimorito. Non sapevo il perché di quella chiamata.
Ma lo scoprii quasi subito. Il partito aveva deciso che sarei andato a studiare a Mosca. Dissi: vabbè, ma almeno fatemi finire gli studi di medicina. Lascia stare, per noi sarai più utile se studierai economia politica».
Non le sembrò un’imposizione?
«Lo era. Ma per un ventenne era gratificante che il partito avesse messo gli occhi su di lui. Arrivai a Mosca nel febbraio del 1956, pochi giorni prima che si aprisse il ventesimo congresso. Stalin era morto tre anni prima.
Krusciov, il nuovo segretario, denunciò il culto della personalità del dittatore. Si avvertiva un vento di rinnovamento. Numerosi prigionieri politici furono liberati dai gulag per far ritorno a Mosca o in altre città.
Potei incontrare alcune figure di dissidenti storici».
L’università le dava qualche vantaggio?
«Noi studenti venuti da fuori eravamo dei privilegiati.
Ciascuno aveva una cameretta, accesso alla biblioteca, la possibilità di muoversi in modo relativamente libero e di potersi riunire e discutere. I primi cinque mesi studiai il russo. All’inizio non so cosa capissi delle lezioni».
Immagino ci fosse molta dottrina marxista rivista in chiave sovietica.
«L’apparato ideologico non era facilmente aggirabile. Ma notavo anche molta curiosità intellettuale. Nella mia facoltà, ad esempio, fui sollecitato agli studi di matematica: consideravano l’econometria uno strumento indispensabile per la costruzione dei modelli economici. Ricordo le conferenze di Oskar Lange e Wassily Leontief, che poi ebbe il Nobel».
Le piaceva, insomma, la vita universitaria.
«Più di quanto avessi immaginato. Furono anni di studio impegnativo. La frequenza era obbligatoria: sei ore al giorno per sei giorni alla settimana, cui si aggiungevano altre ore di studio e letture individuali».
Si può dire che il Pci preparava così i quadri dirigenti?
«Non ne faceva mistero. Del resto era la ragione per cui io e altri fummo spediti a Mosca».
Immagino che avesse anche del tempo libero.
«Non era molto, e quel poco lo impiegavo anche per conoscere l’ambiente intellettuale e artistico. Ero appassionato di musica e frequentavo la sera le migliori filarmoniche. Conobbi personalmente Shostakovich al policlinico di Mosca dove ero andato a trovare Gaetano Invernizzi, grande sindacalista, spedito lì dall’Italia per curare un tumore. Shostakovich si sedette accanto a me nella sala di attesa. Mi presentai e quando capì che ero italiano volle sapere perché ero a Mosca. Non fu sinceramente una grande conversazione. Gli dissi che lo avevo intravisto poche sere prima presenziare a una sua opera».
E lui?
«Sembrò non farci caso. Mi colpì l’abissale tristezza dei suoi occhi. Come se negli anni dello stalinismo si fosse rassegnato all’idea che il male aveva infettato il bene stravolgendone la natura. Conobbi anche Il’ja Erenburg, noto per aver pubblicato Il disgelo, ambientato negli anni successivi alla morte di Stalin. Mi capitò anche di incontrare Bruno Pontecorvo, il grande fisico italiano, allievo geniale di Fermi. Scelse nel 1950 di vivere inUnione Sovietica. Fu una decisione avventurosa, maturata in un’Europa già in piena Guerra Fredda».
Per molto tempo non si seppe più nulla di lui.
«Credo che il partito fosse al corrente che continuava a occuparsi della fisica delle particelle. Ma il regime gli aveva tassativamente vietato di spiegare in pubblico quali fossero le motivazioni della sua fuga».
Dopotutto, era abbastanza evidente la ragione per cui aveva scelto l’Urss.
«Credeva negli ideali del comunismo, certo. Ma che cosa erano o stavano diventando quegli ideali? Tornai più volte in Russia, non mancando di andare a trovarlo. Sapevo che le autorità gli impedivano di viaggiare, cosa che desiderava tantissimo. Perciò chiesi confidenzialmente a un paio di importanti dirigenti sovietici se si poteva far cadere il divieto. Mi fu risposto che era impossibile e poi nel 1978, senza che me lo aspettassi, gli concessero il visto.
Lo rividi a Roma».
Che impressione le fece?
«Mi sembrò un uomo felice. Ricordo i festeggiamenti una sera in casa di Edoardo Amaldi. Un’altra volta lo invitai da me. C’era suo fratello Gillo, il regista, e poi vennero Berlinguer, Napolitano, Chiaromonte e le rispettive consorti. Fu una serata bellissima. Credo che per il suo talento di scienziato e per la sua onestà intellettuale avrebbe meritato molto più di ciò che ha avuto».
Non manifestò il desiderio di restare in Italia?
«No, i suoi affetti erano ormai a Mosca e a Dubna dove lavorava come fisico».
Cugino di Pontecorvo era Emilio Sereni.
«Fu proprio Sereni, alto dirigente del Pci, a fornirgli un aiuto concreto per quella fuga verso Est».
Togliatti affidò proprio a Sereni, nel dopoguerra, la responsabilità della cultura. Che idea ha di lui?
«È un personaggio che meriterebbe di essere studiato a fondo. Quando divenne responsabile della cultura si distinse per la sua intransigenza zdanoviana. Ma poi seppe ricredersi e aprirsi alle novità. Era uomo di vastissima cultura. Conosceva 14 lingue, tra cui diverse orientali. Una volta lo sentii in televisione parlare disinvoltamente il russo. Il suo libro sulla storia del paesaggio agrario è un classico».
Lei quanti anni è stato a Mosca?
«Quasi sei. Alla fine dell’università tornai a Milano».
Tornò cambiato?
«Intende arricchito, più maturo? In che senso?».
In quei famosi anni del disgelo ci fu l’invasione dell’Ungheria. Lei era a Mosca, che percezione ne ebbe?
«Le posso dire che tra gli studenti ci fu chi pianse per quell’intervento brutale. A me sembrò chiaramente un blocco al rinnovamento».
È curioso che nel suo libro di memorie “Compagno del secolo scorso” non si faccia nessun cenno alla vicenda.
«Il libro parla delle esperienze che ho vissuto in prima persona. È chiaro che il 1956 fu un trauma per alcuni intellettuali. Altri, pur consapevoli di cosa fosse accaduto, decisero di restare nel partito. Quanto a me tornai in Italia nel 1961, in pieno boom economico. Riconoscevo a stentola Milano che avevo lasciato. E quella traumatica vicenda si era ricomposta sull’urgenza dei nuovi problemi che un paese in forte trasformazione presentava».
Lei era ormai un quadro dirigente formato. Chi incarichi le offrirono?
«Ho lavorato a lungo nel sindacato ricoprendo cariche importanti e poi nel partito fino alla direzione nella segreteria nel periodo di Berlinguer».
Fu lei insieme al segretario ad affrontare la rinuncia al finanziamento segreto al Pci da parte dei sovietici?
«Anni dopo avrei raccontato l’intera vicenda nel libro
L’oro di Mosca».
Che incarico aveva nel partito?
«Ero nella segreteria, responsabile di tutta la parte organizzativa».
Una curiosità: a quanto ammontava la cifra che vi veniva data ogni anno?
«Intorno ai 5 milioni di dollari».
Come avveniva la consegna?
«Attraverso un agente di cambio. C’era anche chi verificava che i dollari non fossero falsi».
Non vi fidavate?
«Era sempre meglio controllare».
Come definisce quella pratica?
«Fino a quando non posi il problema sembrava normale.
Del resto alla Dc affluivano i soldi americani della Cia. Noisapevamo di loro e loro di noi».
Tutto questo avveniva prima di Tangentopoli.
«Certo. Vedemmo chiaramente e con largo anticipo che quella forma di finanziamento non era più gestibile».
Dopo Tangentopoli sarebbe caduto il mondo della politica.
«Il mondo intero avrebbe mutato volto».
Cosa è stato per lei il Pci?
«Nonostante i difetti e gli errori commessi direi una grande scuola di vita».
Che impressione ha dell’attuale pratica politica?
«Nonostante se ne parli male credo ci siano tanti politici rispettabili. Ma non hanno ali per volare».
Riguarda anche la sinistra?
«Non fa eccezione. È un processo di involgarimento. La cultura politica non ha rinnovato il linguaggio, lo ha solo peggiorato».
E lei come si sente?
«Come l’ultimo dei mohicani. Tutti gli amici più cari se ne sono andati. Mi consolo scribacchiando e affidandomi alla passione per i libri».
Quale è stato il primo libro che ha letto?
«Mi pare Pinocchio. Collodi aveva capito che eravamo un paese di furbi e di allocchi. Ma non c’è più la fata Turchina che viene in soccorso».
Come vorrebbe essere ricordato?
«Come uno che non ha gettato via la sua vita e che ha fatto qualcosa di modestamente utile per questo Paese».