Robinson, 18 maggio 2025
Intervista a Rosa Matteucci
È un’onda d’urto il sussulto che attraversa il mondo parentale di Rosa Matteucci. Avverto le scosse mentali attraverso le sue parole. Sono forza e condanna. Non può pensare ad altro. Non può dire che quello che dice. Come se la mente e il corpo fossero troppo vicini a un Dio che non ha ancora deciso se sacrificarla o salvarla. Dov’è questo Dio? Tutto quello che lei ha scritto fino a questo momento si trascina dietro la domanda, che odora di sacro e di impuro. Ai suoi occhi Dio non ha un finale hollywoodiano. È il trascendente con cui confrontarsi. Rosa è una scrittrice bravissima che da anni fa i conti con la propria psiche misteriosa. Ma è anche a suo modo la negromante che riporta in vita i suoi odiati e amati cari: il padre, la madre, i nonni e le nonne, gli zii e le zie. Un caravanserraglio di affetti e di nevrosi che ne scatenano lo stile, diffondendo l’inconfondibile odore del sacro dissacrato. C’è molta autoanalisi tra le sue pagine: leggera, esilarante, picaresca; ma al tempo stesso ossessiva, impietosa, dettagliata. Le avventure di Rosa sono il parto di un’intelligenza letteraria rara. Ogni cosa, che le parole intercettano, sedimenta nella sua fantasia, nel suo estro bizzarro, nel suo bisogno di finto e di vero. Cartagloria, il nuovo romanzo edito da Adelphi, è una resa dei conti con il trascendente, la famiglia, le idiosincrasie che l’hanno accompagnata nel corso degli anni. Cartagloriaè anche un oggetto della liturgia sacra, un ausilio per la
memoria del prete che officiava la messa tridentina abolita con la riforma nel 1965.
Molti scrittori non sarebbero tali senza una loro ossessione. La tua è la religione e Dio, qualunque sembianza assuma.
«Credo che ossessione sia parola forte, frutto di una condizione psichica destabilizzata che non ti fa pensare ad altro. È il pozzo profondo e oscuro nel quale ti cali. E lo fai tutti i giorni che Dio manda in terra fino a quando senti l’ossessione trasformarsi in abitudine, qualcosa con cui puoi, malgrado tutto, convivere. Ecco, io convivo con la religione, con tutte le sue manifestazioni, i suoi riti, le sue stravaganze, i suoi divieti: cattolicesimo tridentino, rituali indiani, buddismo di ogni genere. Dopotutto non c’è stata civiltà che non abbia avuto al centro una religione. È un bisogno primario che accompagna l’uomo fin dalle origini».
Perché secondo te?
«Perché è fede e mistero. Fanatismo e tolleranza. Rito e trasgressione. Orrore e generosità. Gli ingredienti con cui si impastano le nostre vite. Non ho scelto la religione, lei ha scelto me. È con essa che lotto e mi infurio e mi metto alla prova. Alla mia maniera so di essere una mistica».
In “Cartagloria” ti definisci mistica con ascendente Toro.
«È la parte razionale e concreta di me, quella che cerca di fare chiarezza e di andare al sodo. Non posso cercare il trascendente, interrogarlo, solo affidandomi all’impalpabile deliquio dell’anima».
Diciamo che cerchi Dio soprattutto attraverso i tuoi
romanzi.
«Ma no, i romanzi sono solo lo specchio di un lungo viaggio interiore».
Hai cominciato con “Lourdes”, nel 1998, e avevi poco meno di trent’anni. Sei arrivata a quest’ultimo
«Un ciclo di dieci romanzi che racchiude e forse conclude la mia piccola epopea religiosa».
Cosa ti spinse a scrivere “Lourdes”?
«Fu la morte di mio padre, avvenuta due anni prima.
Dopo un incidente fu ricoverato in ospedale. Morì per un episodio di malasanità. E in quel momento mi sono chiesta dove fosse Dio, perché aveva permesso quella morte assurda e ingiusta».
La risposta l’hai cercata andando in pellegrinaggio a Lourdes?
«Nessun luogo poteva fornirmi argomenti migliori attorno a Dio e ai suoi comportamenti, così spesso imperscrutabili».
Non vorrei che chi legge le tue affermazioni pensasse a un’esaltata bigotta. Quel romanzo fece scoprire una scrittrice divertente e sarcastica.
«Scrivevo di un’umanità dolente, pittoresca e delirante. Scrivevo quello che vedevo e che mi capitava».
Sei stata davvero a Lourdes?
«Ma certo e per più anni, come volontaria».
Hai trovato quello che cercavi?
«Ho trovato che lì, nonostante tutto, Dio c’era e che mio padre non era morto invano».
Tuo padre è una presenza costante nei tuoi romanzi.
«L’ho celebrato come fosse la cerimonia di un interminabile funerale».
Volevi capire chi fosse?
«Volevo mettere in scena la bizzarria dei suoi sogni, delle sue curiosità infantili, dei suoi improbabili entusiasmi. Si era fatto seguace di Yogananda».
Il guru indiano.
«Che morì strafogandosi, durante un banchetto a Los Angeles. Ecco, papà mi riempiva la testa di queste minchiate. A un certo punto mi obbligò a studiare il sanscrito. Cosa complicatissima e per me una perdita di tempo».
È vera la storia dell’eredità che racconti in “Cartagloria”?
«Certo. La nonna mi lasciò, pare, un cospicuo conto in Svizzera che avrei ereditato al compimento del diciottesimo anno di età. Tutto questo era scritto in una lettera nella quale bizzarramente si indicava come condizione quella di presentare al notaio che amministrava il conto i due guantini di lana che la nonna aveva confezionato per me neonata. Il problema è che mio padre trovò un solo guantino».
A quel punto?
«Come un invasato cominciò a cercare l’altro. Niente.
Non si trovava. Gli venne perfino l’idea di una seduta spiritica. Essendo, oltretutto, un appassionato di esoterismo gli sembrò naturale evocare l’oltretomba.
Convocò una medium veneziana, che non so come aveva conosciuto, e insieme stabilirono che il guantino smarrito si trovava in una piccola cittadina dell’isola di Terranova nel Nord dell’America. Il padre mio aveva di queste fantasie».
Che lavoro faceva?
«Non lavorava, o meglio riusciva a infilarsi negli affari più improbabili. Non c’erano soldi in casa, tranne quelli del monopoli. Giocava d’azzardo, ecco. Il più delle volte perdeva e in rare occasioni tornava a casa con vincite cospicue. Ed era festa. Di quelle feste se ne contavano un paio l’anno».
Giocava a cosa?
«Al casinò, alle carte, al lotto. Una volta interpretò delle cacatine di piccione sul davanzale della finestra come
fossero segni di numeri e li andò di corsa a giocare».
In fondo questa fantasia così dissipata sospetto non ti dispiacesse.
«Credo che sia la sola vera cosa che ho ereditato da lui. Spero non altrettanto fallimentare».
E tua madre, cui hai dedicato un ritratto memorabile in “Costellazione familiare”, come reagiva?
«Quella donna – di ascendenze aristocratiche, bellissima salvo una discutibile frangetta, educata in parte ai principi steineriani – reagiva con disprezzo. Considerava il padre mio un fallito, un inetto. Amava follemente i cani e detestava i bambini, in particolare credo detestasse me. Non mi aveva voluta. Mi considerava un incidente di percorso. Per tutta la vita il mio problema è stato come riuscire a farmi amare da lei. Penso che la mia smodata passione per i cani sia all’origine un tentativo di ingraziarmela».
Effettivamente i cani li ritrovo spesso nelle tue pagine.
«Sì, io stessa mi definisco un “canetto”. Sono stata una “bambina-cane”, pronta a dare e ricevere affetto. C’era una storia che circolava in famiglia. Mia nonna aveva conosciuto un sopravvissuto al naufragio del Titanic che le raccontò come, mentre annaspava nelle acque gelide dell’Atlantico, gli si parò davanti un mostro marino. In realtà era un bulldog francese, anch’esso disperatamente desideroso di salvarsi».
Perché l’hai messa nel romanzo?
«Perché anni dopo un giardiniere della regina del Belgioregalò a mia madre un cane della stessa razza. Allora in Italia era rarissimo imbattersi in un bulldog francese. La gente lo scambiava spesso per un maialino. Tutta la mia infanzia l’ho trascorsa addormentandomi col suo tenue grugnito».
Sei nata a Orvieto ma da anni vivi a Genova.
«Sono nata in una piccola città dell’Umbria terra un tempo di intensa religione, dove però per una femminuccia il traguardo più ambito era il matrimonio e un diploma».
Spulciando la tua biografia ho visto con sorpresa che sei laureata in scienze politiche.
«Laurea presa con Giuliano Amato all’università di Roma».
Altra sorpresa.
«Mica tanto, diciamo che in una vita precedente avrei fatto volentieri la costituzionalista. Amato mi assegnò una tesi sui meccanismi di democrazia interni al partito laburista inglese. Una volta laureata lavorai prima come stagista e poi con un contratto al Quirinale, Cossiga era presidente».
Avevi davanti tutt’altra carriera.
«Mi impegnò per quasi cinque anni. Poi nel 1992 Cossiga si dimise. Io feci un esame per essere assunta come dirigente. Sembrava soltanto una formalità. In realtà l’esaminatore mi disse che non ero idonea a svolgere quel lavoro. Mi arrivò la lettera di “licenziamento” con firma del nuovo presidente: Oscar Luigi Scalfaro».
Come reagisti?
«Mi venne un ponfo sul collo che sembrava un tumore. Inrealtà si scoprì che era l’effetto di una toxoplasmosi. Mio padre si prese un infarto e trascorsi i successivi tre anni a prendermi cura di lui. Oltre i problemi al cuore aveva perso la memoria breve. La cosa che amava di più era raccontare remote battaglie in cui lui immaginava di essere stato protagonista, assegnando a me il ruolo di assistente».
“Cartagloria” si apre con te che racconti la battaglia di Austerlitz e in un certo senso si chiude con la battaglia di Lepanto.
«Erano delle pugne mitologiche dove il sangue e la fantasia scorrevano in egual misura sui campi di battaglia. Ho imparato da quei luoghi le tattiche, le strategie e la natura teatrale dei conflitti, le scaramucce e gli scontri di civiltà, come accadde a Lepanto».
In fondo i tuoi romanzi sono battaglie interiori.
«Si addice questa immagine. Un concerto di voci si scatena nella mia testa. La prima volta che scrissi di mio padre si risvegliarono tutti gli antenati. C’era mia madre che ronzava nella mente e perfidamente diceva: ma che scrivi di quell’ometto di tuo padre, lascia perdere!».
Quelle voci fin dove si sono spinte?
«Hanno costituito le trame dei miei romanzi ma anche materiale per l’analisi».
Sei stata in analisi?
«Potevo non andare? Ho avuto analisti freudiani, junghiani, “selvaggi”».
Selvaggi?
«Andai in analisi anche da Massimo Fagioli. Mi infastidiva la calca di pazienti che lo attorniava. La verità è che io volevo lo psicoanalista tutto per me. Che fosse lui alle mie dipendenze e non io alle sue».
Auspicavi una specie di contro-trasfert.
«Desideravo delle risposte emotive dall’altra parte. Volevo che si mettesse nei miei panni».
E queste situazioni sono finite nei tuoi libri?
«Direi di no, sono finite nei miei diari. Ho cominciato da piccola a scrivere prima delle lettere da Venezia alla nonna. Poi dal 1987 tengo un diario. Sono al cinquecentosettesimo quaderno».
Cosa annoti?
«Quello che capita. Stamane prima di partire, scaldando l’acqua per un orzo, ho scritto: Genova ore 7.15 Tra poco vado a Roma. Viva la vita. Stasera aggiungerò il resto».
Come ti alzi la mattina?
«Di solito felice come un cane. La mattina quando i cani si svegliano ti fanno le feste. Mi sveglio con lo stesso senso di gioia. Scodinzolo leggera e veloce per tutta casa.
Contenta, come un cane, di non essere morta durante il sonno».
Tutta la tua vita è stata un inseguire come un cane tuo padre.
«Inseguirlo, decostruirlo e ricostruirlo. E alla fine trovare un padre più in alto di tutti. Un padre che pensavo non mi volesse e con il quale mi pare ho imparato a convivere».