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 2025  maggio 18 Domenica calendario

L’architettura è propaganda

Prima di partire per questo itinerario nella Milano del Ventennio con Gianni Biondillo, prima di capire insieme a lui perché «l’architettura fascista non esiste», come dice il sottotitolo del suo nuovo libro, La costruzione del potere (Marsilio), è necessaria una premessa. Fondamentale. E cioè: l’architettura è inevitabilmente espressione di un regime. Ed è, sempre, anche quando non vuole, arma di propaganda, «perché obbligata a confrontarsi con il potere, qualunque esso sia». Politico, economico, religioso, finanziario. Risultato: per l’architetto la dissidenza non è possibile. «Non è un poeta che magari di giorno lavora al catasto o al genio civile (come faceva Salvatore Quasimodo) e di notte scrive i suoi capolavori. Non è il romanziere che nonostante la censura riesce a far girare copie clandestine delle sue opere. L’architetto questo non può farlo. Senza il progetto, senza il cantiere, senza l’opera, semplicemente non è, non esiste».
Ora si può cominciare a camminare.
Milano, piazza San Babila. Appuntamento con lo scrittore-architetto che nel libro attraversa l’Italia, non solo la sua città natale, per raccontare una storia fatta di geniali talenti: Giuseppe Terragni, Gio Ponti, Piero Portaluppi, Luigi Figini, i BBPR, Giovanni Muzio; di un dittatore: il «Mascellone autarchico» (copyright: Carlo Emilio Gadda), molto attento alla comunicazione; di faccendieri come Marcello Piacentini, il progettista di quasi tutto, compreso il Palazzo di Giustizia milanese, tra quelli che hanno lavorato prima, durante e dopo il fascismo; dei grandi borghesi che hanno consentito, anzi sostenuto, l’ascesa di Mussolini; di un regime «che non ha inventato gli alloggi popolari, che ha allontanato dal centro i miserabili per fare spazio ai ricchi, che di certo non ha coniato uno stile architettonico».
Ma cos’è l’architettura fascista? Essere stato inaugurato durante il Ventennio fa di un qualsiasi edificio un’architettura fascista? «Ma allora, con questo ragionamento, l’Arengario di Milano, concluso dopo la Seconda guerra mondiale, dovrebbe essere considerato repubblicano». Passeggiare con Biondillo è in questo senso illuminante.
Torniamo in piazza San Babila. Quasi tutta anni Trenta. Il «piccone risanatore» si è abbattuto sulle baracche dei poveracci per ampliare le volumetrie del centro («ora la chiameremmo rigenerazione urbana», nota con ironia Biondillo). Lo scrittore indica il Palazzo del Toro (le assicurazioni) progettato da Emilio Lancia, costruito tra 1935 e 1939: «Non è monumentalista, ma sulla facciata ospita un altorilievo. Non è eclettico, è ibrido: la successione delle lesene indica una pulsione razionalista». Monumentale è invece la Torre Snia Viscosa (colosso chimico) su corso Matteotti, il primo «grattanuvole» di Milano progettato da Alessandro Rimini (1937). Poco lontano c’è l’ex Garage Traversi, la prima autorimessa pubblica di Milano (ora sede di Louis Vuitton) con quella curva futurista, «non priva di un certo razionalismo». Anche questo intervento porta la mano di Rimini, ma visto che l’incarico gli fu dato dopo l’entrata in vigore delle leggi razziali (il Garage Traversi fu costruito tra 1938 e 1939), il suo nome non compare da nessuna parte. Continuò a seguire il cantiere in incognito (nel 1944 fu caricato su un treno destinato ad Auschwitz ma riuscì a fuggire alla stazione di Verona spacciandosi per un poliziotto. Visse fino al 1976).
Storie che si intrecciano. Case, ambizioni, visioni. Architetti a cui fu concessa inizialmente una certa libertà creativa purché si dichiarassero fascisti. «Mussolini lasciava fare un po’ perché di arte e architettura capiva poco, un po’ perché in quella fase gli bastava che emergesse la grandezza del progetto urbanistico fascista». Dunque: in pochi metri e negli stessi anni convivono monumentalismo, futurismo, stile classico e il neonato razionalismo, «tensione verso un’architettura altra, che prende atto dell’esistenza di tecnologie come il cemento armato e partecipa alla costruzione di una nuova società». Fa notare Biondillo il falso sillogismo: «Se i razionalisti (Luigi Figini, Gino Pollini, Guido Frette, Sebastiano Larco Silva, Carlo Enrico Rava...) sono rivoluzionari e il fascismo è una rivoluzione, allora quei progettisti sono definibili fascisti. Le cose non stanno così perché ognuno di loro aveva la sua idea di fascismo». Affermare poi l’esistenza di un’architettura fascista «è da sovranisti», quando invece quei giovani guardano oltre i confini italiani: ci sono il Bauhaus e Walter Gropius, il neoplasticismo del movimento olandese De Stijl, il costruttivismo sovietico. Anche gli architetti più maturi, come Piero Portaluppi (nato nel 1888, mentre Figini e Pollini sono del 1903, Terragni del 1904), capiscono la portata di quest’ondata razionalista. Con il risultato che proprio Portaluppi, archistar del momento, «abbassa» il suo linguaggio classico, smorza fregi e decori, e si inventa Villa Necchi Campiglio, la prima casa di Milano con piscina privata. Gioiello assoluto di forme ed equilibri (anche se i ricchissimi proprietari, colpiti da tanta sobrietà, ingaggiano Tomaso Buzzi per l’arredo del soggiorno, chiedendogli di renderlo più settecentesco) costruito, tanto per cambiare, nel 1935. È invece stato completato sei anni prima, nel 1929, proprio di fronte alla villa, Palazzo Fidia: puro eclettismo. Ancora un altro stile.
«Che poi – continua lo scrittore, che aveva in mente questo libro da una vita, spin-off in forma di saggio del suo romanzo premio Bagutta Quello che noi non siamo, (Guanda, 2023) – l’architettura è lenta e le città sono addirittura lentissime. «E questo la cancel culture non lo capisce». Il riferimento è a un articolo del «New Yorker» intitolato Why Are so Many Fascist Monuments Still Standing in Italy? del 2017, che si domandava come mai ci fossero ancora così tanti monumenti fascisti in Italia. «Ma quello che dobbiamo fare è conoscere la storia di quelle costruzioni e risignificarle». Come è successo con il Cartello Sforzesco, giusto per rimanere a Milano, che da odiata roccaforte austriaca è diventato luogo identitario. «Demolire i monumenti del passato, in ragione di un cambiamento di regime politico, è irrispettoso per chi quei blocchi di pietra ha trascinato, antieconomico e antiecologico». Poi, «che ci piaccia o no, è la nostra storia, dobbiamo imparare a leggerla». E ancora: «I monumenti sono ricordi, moniti, avvertimenti, allarmi. Ferite da suturare, non da rimuovere».
Si riprende il cammino. Palazzo Civita in piazza Duse è in pieno stile Novecento, erede del neoclassicismo (e siamo sempre tra 1932 e 1934, qui la firma è di Luigi Gigiotti Zanini). Procedendo in via Salvini, si passa sotto l’arco del Portaluppi (qui ancora nel suo periodo prerazionalista, quasi neobarocchetto), autore dell’intero complesso edilizio con vista sul verde dei Giardini (ora) Montanelli, il Palazzo della Società Buonarroti Carpaccio Giotto. Altri grandi (e famosi) vecchi che sanno rinnovarsi con intelligenza: Emilio Lancia e Gio Ponti, architetti del Palazzo e della Torre Rasini affacciati su Porta Venezia. Ricchezza vera. Come quella profusa per le case di via Manin: il civico 33 di Mario Asnago e Claudio Vender è un trionfo novecentista, il 37, Casa Feltrinelli di Alberico e Lodovico Barbiano di Belgiojoso, è razionalista. Ma le cose stanno per cambiare. Guerra in Etiopia, guerra civile in Spagna: nella seconda metà degli anni Trenta Mussolini mette fine alla rivoluzione razionalista. Stringe le maglie. Gradisce solo gli architetti davvero allineati al regime: tra questi c’è (ovviamente) Piacentini. Il potere usa l’architettura per i suoi scopi manipolatori. Con le leggi razziali una generazione di progettisti è braccata. Ernesto Nathan Rogers dei BBPR fugge in Svizzera: lo studio è costretto a chiamarsi BBP. Altri due membri del gruppo, Gian Luigi Banfi e Lodovico Barbiano di Belgiojoso, partecipano alla Resistenza, sono arrestati e deportati nel Lager di Gusen, dove Banfi muore il 10 aprile 1945. Nell’Italia repubblicana lo studio continuerà a chiamarsi BBPR.
Biondillo racconta, si emoziona, spiega. Durante il percorso qualcuno cerca di avvicinarsi per ascoltare le sue storie di architetti, di palazzi, di committenti (è capitato che gli fosse chiesto di esporre il patentino di guida turistica). Si commuove parlando di Giovanni Broglio, figlio di emigranti italiani nato in Svizzera nel 1874. A 15 anni, orfano di padre, va a vivere a Milano, dove si impiega come manovale edile. Studia. Di sera. Dopo il diploma tecnico si iscrive ai corsi dell’Accademia di Brera. Fatto sta che la gloriosa Società Umanitaria di Milano (non a caso commissariata da Mussolini già nel 1924) gli affida il compito di progettare un quartiere modello di case popolari. Dal 1905 in poi Broglio ne progetterà 15 (sua anche la prima Casa dei bambini di Milano, inaugurata nel 1908 da Maria Montessori). «Ha eliminato le ringhiere con la latrina in comune, ideato i corpi scala di distribuzione al pianerottolo, introdotto la caldaia centralizzata per il riscaldamento degli appartamenti. Ha dato dignità all’abitare popolare», s’infervora Biondillo. Soprattutto quando ricorda: «Broglio muore a Milano nel 1956. Sulla sua tomba, al cimitero di Caldana, in provincia di Varese, c’è scritto: Giovanni Broglio “Architetto dei poveri”. Non esiste una via, piazza, giardino, neppure uno straccio di vicolo a Milano che lo commemori».