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 2025  maggio 20 Martedì calendario

1947, quando la Pirelli bocciò Moravia

Era difficile dire di no ad Alberto Moravia, nel dopoguerra della ricostruzione, ma qualcuno lo fece. Fu la Pirelli, che nel ’47, per celebrare i suoi 75 anni gli commissionò la sceneggiatura di un film destinato alla regia di Roberto Rossellini e poi, se pure con un certo imbarazzo la rifiutò: pagando peraltro un bella cifra allo scrittore romano, che su questi temi non scherzava. Questa è la mia città – era quantomeno il titolo di lavoro – rimase negli archivi.
Viene proposto ora da Bompiani, ed è un peccato che non sia riuscito, forse per questione di tempi, ad approdare al Salone del libro, dove certo avrebbe fatto discutere: perché Moravia reduce dal successo di Agostino e proprio in quel momento di La romana, scrisse sì un bellissimo trattamento, che vale un romanzo, ma dimostrò anche dalla sua prospettiva molto romana di non capire e di non conoscere la vita di fabbrica e degli operai lombardi.
Gli avevano chiesto una storia di cultura industriale, una storia della modernità, che lo scrittore realizzò attraverso la vita di una famiglia, i Riva, ormai ex contadini, mentre legano definitivamente la loro esistenza alla vita di fabbrica nel periodo anche epico della rinascita post bellica nella grande metropoli. Il risultato fu però discutibile, perché Moravia finì per affrontare il proletariato lombardo, che non conosceva, sulla falsariga del sottoproletariato romano, quello semmai destinato di lì a qualche anno alla penna di Pasolini, salvo qualche tonitruante impennata. Giuseppe Lupo, che firma la postfazione, ne aveva già fatto cenno in un suo studio sulla Modernità malintesa (uscito due anni fa per Marsilio), sottolineando passaggi un poco enfatici come, a proposito di una colata di rame, la scena dove «il ruscello incandescente scorre giù per i canali rosso e abbagliante e appena si fa filiforme, un operaio particolarmente abile l’afferra e lo solleva con delle pinze. Questo operaio è il padre Riva. Il suo volto s’illumina durante il lavoro, quasi che in esso gli sia dato di esprimere il meglio di sé e per esso di provare ignorati piaceri».
Alla Pirelli, soprattutto a giudizio di Giuseppe Luraghi, dirigente e umanista, non piacque per nulla, inoltre, il sottofondo malavitoso della trama, i «loschi intrighi» come scrisse Luraghi, che prendono il sopravvento mentre la fabbrica rimaneva estranea e convenzionale, anziché protagonista. Lo scrittore venne bocciato con tutta la cortesia possibile – e con un versamento di mezzo milione di lire, allora un grosso compenso per una sceneggiatura. Viene da pensare che non se ne adontò, fece anzi cadere un cortina di silenzio. Aveva scritto qualcosa in armonia certamente con i suoi romanzi, semmai borghesi o sottoproletari, godibilissimo sì ma lontano da una cultura industriale – e forse non era neppure mai andato a farsi un giro nei capannoni della Pirelli. O almeno, non risulta.