Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  maggio 19 Lunedì calendario

La Cina ha dichiarato la guerra economica (ma non lo dice): perché su auto, acciaio e chimica Xi è più pericoloso di Trump

Dov’è finito Gao Shanwen? Gao è sparito da qualche mese. Ha perso la licenza di esercitare come capo-economista della Sdic Securities di Hong Kong, una finanziaria di Stato. Da allora non si sa più nulla di lui. Eppure era un uomo del sistema e godeva del rispetto di tutti. Aveva lavorato alla banca centrale di Pechino, era stato consigliere di altissimi funzionari. Non aveva mai eccepito alle dinamiche del potere di Xi Jinping, ma ugualmente è stato messo a tacere. La sua colpa è l’aver detto la verità, per pochi fugaci momenti, sui dati reali della crescita (è meno di metà di quella ufficiale, ha detto) e della disoccupazione giovanile (più del doppio di quella ufficiale).

L’era della guerra economica
La storia di Gao ci riguarda, perché rimanda ai nostri problemi in Europa e in Italia. Warren Buffett, il mitico investitore, ha osservato che i dazi annunciati da Donald Trump sono un atto di guerra economica. Di certo sono il modo con cui l’America scarica le proprie contraddizioni interne – le tensioni per le diseguaglianze crescenti, l’iniquità fiscale, il debito – sul resto del mondo, incolpandolo dei propri mali. C’è però un’altra guerra economica portata avanti, questa senza che nessuno l’abbia mai neanche dichiarata. È quella Cina di Xi Jinping, che in questo agisce in modo uguale e contrario a Trump. Anche la Cina fa pagare il costo immane delle proprie contraddizioni al resto del mondo. Non attraverso i dazi, ma il loro contrario: il mercantilismo più vasto e aggressivo che la storia economica ricordi. Il risultato è un eccesso di capacità produttiva nel pianeta in tutti i settori industriali a maggiore intensità di manodopera. Le guerre commerciali del nostro tempo sono leggibili, in questa prospettiva, anche come un conflitto fra grandi aree economiche per l’allocazione delle perdite – perdite di posti di lavoro, di potere d’acquisto, di stabilità sociale e politica – che alla lunga tutto questo eccesso di capacità produttiva imporrà. Qualcuno, da qualche parte, ci rimetterà qualcosa. E naturalmente l’Italia è fra i candidati, se non reagiamo.
Il male oscuro dei giovani (e non solo)
Gao Shanwen è un uomo riservato. In dicembre scorso, all’improvviso, in una conferenza ha pronunciato una frase subito divenuta virale nei social cinesi prima che la censura riuscisse a rimuoverla: «Le persone più giovani in Cina sono senza vita e le persone di mezza età non hanno niente per cui vivere». Solo le persone più anziane, ha aggiunto, sono «piene di vitalità».
La ragione è l’incredibile livello della disoccupazione giovanile, di cui si è parlato anche venerdì a una conferenza dell’Aspen Institute a Milano sul “Futuro del capitalismo”. Yasheng Huang, un altro economista cinese del Massachusetts Institute of Technology di Boston, scrive che il reale tasso di disoccupazione nella Repubblica popolare non sarebbe affatto attorno 17% (Pechino ha ripreso a pubblicare i dati a dicembre, dopo due anni di silenzio). Piuttosto sarebbe a un astronomico 40% o sopra. I dati ufficiali per esempio non contano la disoccupazione fuori dalle città e quella di chi esce dagli studi, ma non ha ancora trovato il primo lavoro.
Poi Gao è volato a Washington e in un altro incontro ha aggiunto un’osservazione che ha segnato il suo destino. «Non conosciamo il vero numero della crescita reale in Cina – ha detto –. La mia speculazione è che negli ultimi due o tre anni il vero dato del prodotto interno lordo sia intorno al 2%, anche se il numero ufficiale è vicino al 5%». Su di lui le misure disciplinari sono scattate nel giro di pochi giorni, e si capisce. Per tre anni la seconda economia del mondo – prima per volumi di produzione – avrebbe grossolanamente falsificato i propri dati. Il prodotto lordo sarebbe del 10% circa inferiore alle dichiarazioni ufficiali, come se fosse sparita dal pianeta una massa di fatturato pari più o meno all’Italia.
Un’esagerazione? Probabilmente no. Rhodium Group, una società indipendente di analisi, ha stime simili sulla base di investimenti, consumi delle famiglie o del mercato immobiliare. Perché quel che è successo in Cina è sotto gli occhi di tutti. Per anni una miriade di autorità provinciali ha sostenuto la crescita locale vendendo licenze di costruzione di sempre nuovi palazzi, finché la bolla immobiliare è rovinosamente scoppiata. I costruttori sono falliti, decine di milioni di appartamenti sono rimasti vuoti, invenduti, oppure venduti ma mai edificati per bancarotta dei palazzinari. Il Wall Street Journal riporta stime secondo cui la distruzione di valore è stata di 18 mila miliardi di dollari, una cifra tre volte superiore a quella della crisi dei subprime in America e pari all’intera economia della Cina stessa. Ogni famiglia della Repubblica popolare sembra aver perso in media 60 mila dollari.
Consumi assenti
Soprattutto, il regime non sa o non vuole reagire a questa catastrofe. Per ragioni prevalentemente politiche, legate alla deriva personalistica e autoritaria di Xi Jinping, non sta aiutando abbastanza i cinesi a emanciparsi economicamente. Come ricorda Yasheng Huang del MIT di Boston (il quale non osa più rimettere piede nel suo Paese natale) i consumi in Cina sono una quota ridicolmente bassa dell’economia: appena il 39% del fatturato e persino in calo da inizio secolo, mentre sono al 49% nell’austera Corea del Sud, al 56% nel rigido Giappone, al 58% nella pur depressa Italia, oltre che al 68% in America.

L’immenso popolo delle campagne cinesi (senza diritti)
Xi non vuole un’economia di consumi; essa è estranea alla sua severa visione maoista. Vuole un’economia di produzione, che sfrutti non la domanda interna ma quella del resto del mondo. Soprattutto Xi non vuole passare a un modello sociale che conferisca più libertà di movimento e dunque più autodeterminazione alle persone comuni. Il sistema dello hukou (un meccanismo di autorizzazione a migrare dalle campagne alle città) di fatto relega 700-800 milioni di cinesi, un decimo dell’umanità, a uno status di cittadini di seconda classe: non hanno diritto di trasferirsi nelle città, dunque vi abitano da clandestini, vi lavorano in nero e sono sottopagati; non hanno diritto a far studiare i figli in città, né a sussidi sul trasporto pubblico. Persino il Vietnam, anch’esso a partito unico “comunista”, in questo si è gradualmente aperto.
L’ex ministro delle finanze di Pechino Lou Jiwei ha stimato che cancellare il sistema dello hukou di per sé farebbe crescere i consumi interni di un terzo, ma non accadrà. È contrario alla visione verticale di Xi. Essa continua invece a puntare tutto su un vasto sistema di sussidi più o meno visibili – spesso concessi a livello locale – per spingere meccanicamente i tassi di crescita installando sempre maggiore capacità produttiva per l’export: acciaio, alluminio, auto, pannelli solari e turbine eoliche, chimica, farmaceutica, elettronica di consumo, macchine utensili, elettrodomestici, cemento, presto anche treni e aerei a piccola e grande fusoliera. Tutto ciò che all’umanità può servire.
Uno dei risultati, come si vede qua sotto, è un aumento costante del debito totale in Cina, pubblico e privato, spesso in capo a opache società-veicolo controllate dai governi provinciali. La crescita è tale che nell’autunno del 2022 il debito totale nella Repubblica popolare, in proporzione all’economia, ha superato quello equivalente dei pur indebitatissimi Stati Uniti (dati della Banca dei regolamenti internazionali). Intanto le famiglie pagano in interessi sui mutui quasi un quinto dei loro redditi – più degli americani ai tempi dei subprime – per case dal valore molto sotto al prezzo d’acquisto.
Aggressione globale: auto, acciaio e chimica
Un altro risultato è che è esplosa la capacità produttiva cinese, agli imbattibili prezzi tipici di quel sistema. Soprattutto per questo oggi gran parte delle principali categorie-prodotto presentano un eccesso di fabbriche e lavoratori nel mondo rispetto alla domanda internazionale.
L’anno scorso la Repubblica popolare ha prodotto il 33,7% delle auto uscite dai cancelli delle fabbriche del pianeta, la cui attività nella media internazionale è vicina al punto di rottura: utilizzata appena il 60-65% della capacità, con un terzo degli impianti inattivi.
Nell’acciaio la Cina l’anno scorso ha presidiato il 54,6% dell’offerta mondiale, sette volte più dell’India che segue come secondo concorrente; McKinsey sottolinea che il mercato resta fragile, con un eccesso di produzione di 50 milioni di tonnellate rispetto alla domanda nel solo 2024: come se praticamente tutta l’attività degli impianti di Italia e Germania fosse di troppo.
Nella chimica la produzione cinese è cresciuta del 40,9% negli ultimi cinque anni – spesso da impianti alimentati a carbone altamente inquinante – e adesso presidia il 43% del mercato mondiale, mentre nello stesso periodo la produzione italiana è caduta dell’11,6% e quella tedesca del 15,3%.
Nelle fonderie la Cina ha più che triplicato i volumi dall’inizio del secolo, con l’India seconda nel mercato che vale a fatica un quinto e l’Italia ai minimi dal 1980.
Soprattutto, la corsa cinese è tutta rivolta all’export (come si vede qui sotto) e di fatto sta creando disoccupazione in tutto il mondo.
Ovvio che non è tutta colpa di Xi Jinping. Non è colpa sua se l’Italia non ha una politica industriale, se non riesce a sciogliere il nodo di un costo dell’energia inaccettabilmente più caro rispetto al resto d’Europa. Non è colpa di Xi se in Italia non investiamo in formazione, tecnologia, ricerca e sviluppo (come scrive Francesco Giavazzi). Ma non si può restare ad occhi chiusi di fronte all’aggressione industriale cinese, frutto delle scelte politiche dell’uomo forte di Pechino.
Il protezionismo improvvisato di Trump non può funzionare. Però serve una strategia che faccia leva sul peso commerciale dell’Europa per tutelare i produttori, darsi tempo nell’uscire senza strappi dai settori non più difendibili, preparare nuovi investimenti e obbligare Pechino correggere il tiro. Anche applicando, dove serve, dazi più alti. Tutte scelte per cui servirebbe chiarezza di idee e unità fra europei. Non lo spettacolo al quale stiamo assistendo, non solo in Italia.