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 2025  maggio 19 Lunedì calendario

Dazi Usa sulle auto perché li paghiamo tutti

L’industria dell’automobile occupa 9 milioni di lavoratori, più un incalcolabile indotto di fornitori e subfornitori. Su questo settore, già in crisi di suo, il presidente Donald Trump a fine marzo ha sganciato dazi del 25%. Questo per gli americani significa che le vetture nazionali diventeranno più convenienti? E che nulla cambia per i clienti europei che acquistano un modello prodotto in Europa, in Asia o in Messico? No, perché i dazi in un modo o nell’altro graveranno su tutte le auto americane, europee, asiatiche. Vediamo come.
Sotto la carrozzeria della Ford F150
Prendiamo il marchio Usa per eccellenza, Ford, e il modello che per 42 anni consecutivi è stato il più venduto in Nordamerica: il pick-up F-150. Sotto la carrozzeria solo il 45% è di origine americana. Il resto, ha stimato un’analisi di Caresoft per il Wall Street Journal, è un miscuglio di componenti originari di almeno 23 Paesi: i semiassi arrivano dal Canada, i cerchioni dal Messico, gli pneumatici dalla Corea del Sud, i sedili dalla Germania, i tubi dalla Romania e così via. E poi altri 20 mila componenti (viti, valvole, molle, guarnizioni, batterie, lampadine ecc) fabbricati da oltre 18 mila aziende sparse nel mondo. Su ognuno di questi pezzi importati Ford pagherà un dazio, che poi scaricherà in larga parte sugli acquirenti. Lo stesso meccanismo riguarda tutti i marchi americani, e alla fine comporterà un aumento dei prezzi delle auto stimato da Cox Automotive fra i 3 mila e 20 mila dollari, a seconda dei modelli.
Non solo Usa
Il problema non riguarda però solo i gruppi e i clienti americani. L’effetto dei dazi si farà sentire anche fuori confine, perché la filiera dell’auto è inestricabile. Bmw, per esempio, produce negli Stati Uniti gran parte dei modelli della serie X destinati anche al mercato europeo; mentre Mercedes fabbrica il suv Eqs soltanto in Alabama. Vuol dire che pagherà dazi indiretti anche l’acquirente europeo di questi modelli tedeschi.
Il viaggio di una centralina
La filiera globale dei componenti è talmente ramificata che è quasi impossibile da ricostruire. Spesso questi pezzi fanno più volte avanti e indietro da un Paese all’altro per affrontare i processi di lavorazione che precedono l’assemblaggio finale. Per esempio l’Italia acquista dagli Usa centraline elettriche che hanno già subito due dazi perché contengono un microchip proveniente da Taiwan e sono imballate in un «guscio» fabbricato in Messico. Queste centraline vanno allo stabilimento VM di Cento (Ferrara) dove sono inserite su un motore che è poi spedito nel centro ricambi Mopar di Toluca, in Messico. Qui il motore viene montato su una Jeep che finirà sul mercato americano dopo aver subito un altro dazio del 25%. Tutti questi passaggi si scontreranno non solo contro il muro doganale eretto da Trump, ma rischiano anche di dover fare i conti con le contromisure adottate dai Paesi colpiti. Il Canada ha annunciato dazi del 25% sulle vetture provenienti dagli Stati Uniti, mentre l’Unione europea ha approntato un pacchetto di ritorsioni su 95 miliardi di merci americane, incluse le auto e i loro componenti. Questa guerra commerciale minaccia di far esplodere i costi dell’industria dell’auto che solo in Italia impiega oltre 260 mila dipendenti, esporta negli Usa veicoli per 3,4 miliardi di euro e componenti per 1,3 miliardi.
Gli esentati
I costruttori hanno premuto disperatamente sulla Casa Bianca per ottenere una rimodulazione dei dazi. A parte la Cina, che subisce una tassa del 147% sulle vetture elettriche (in parte eredità dell’era Biden) e del 72,5% sulle altre auto, Trump ha concesso ai costruttori un’esenzione temporanea: i componenti costruiti per almeno il 75% del loro valore nel triangolo Usa-Messico-Canada potranno evitare il dazio del 25%. È poi stato aggiunto un complesso meccanismo di «detrazione», che consentirà nel 2025 di annullare il dazio per le auto con almeno l’85% di contenuto Made in Usa, e del 90% nel 2026.
Full made in Usa? Zero
Quante vetture possono usufruirne? Zero. Stando ai dati comunicati dagli stessi costruttori alla Motorizzazione, oggi nessuno dei 549 modelli venduti negli Usa raggiunge la soglia per azzerare il dazio con lo «sconto Trump». Circa due terzi (351) hanno un contenuto nordamericano inferiore al 10% e 183 non ospitano neanche un bullone patriottico. Fra queste figurano non solo auto di case straniere, ma anche vetture american sounding come la Lincoln Nautilus di Ford e Chevy Trailblazer (fatte rispettivamente per l’87% in Cina e per il 52% in Corea) e la Dodge Hornet di Stellantis (prodotta per il 56% in Italia).
Il modello che si avvicina di più ai desiderata della Casa Bianca non ha un marchio a stelle e strisce, ma sudcoreano: la Kia EV6 si rifornisce per l’80% dei suoi componenti in Nordamerica, ed è assemblata a West Point, in Georgia. Seguono il pick-up Ridgeline della giapponese Honda e la Model 3 di Tesla, entrambe con il 75%.
Dove assemblano i grandi marchi
Va ricordato che i carmaker di Detroit, a seguito del trattato di libero scambio con Canada e Messico siglato nel 1992 da George H.W. Bush e rinegoziato da Trump nel 2020, hanno spostato una parte significativa della loro produzione nei due Paesi confinanti. Stellantis, per esempio, assembla in Messico e Canada il 56% delle auto destinate al mercato americano, mentre General Motors solo il 25% ma ne importa il 15% dalle sue fabbriche in Giappone. Ford assembla negli Usa l’80% dei veicoli per il mercato americano. Però «le tre sorelle» si procurano dall’estero rispettivamente il 50, il 60 e il 65% dei componenti. E ora la barriera eretta da Trump rischia di compromettere la continuità produttiva. Dichiara l’amministratore delegato di Ford, Jim Farley: «Anche volendo, non possiamo comprare negli Stati Uniti viti, rondelle e tappetini, semplicemente perché non sono disponibili». Intanto, Stellantis ha bloccato i lavori negli impianti di Toluca in Messico e di Windsor in Canada, e di conseguenza annunciato esuberi di dipendenti in alcune fabbriche in Indiana e Michigan che riforniscono proprio quegli stabilimenti.

I costi finali
Quest’anno Ford ha preventivato un aumento dei costi per 2,5 miliardi di dollari e GM addirittura di 5 miliardi. Stellantis
ha invece detto al mercato di non essere in grado di stimare al momento come chiuderà il 2025. Quello che è certo è che il nuovo rialzo dei listini colpirà soprattutto le auto più economiche, dal momento che l’80% di quelle al di sotto dei 30 mila dollari è di importazione. Dinanzi all’atteso tracollo del mercato, le case stanno diminuendo anche i volumi produttivi per evitare di trovarsi i piazzali pieni di auto invendute: per S&P quest’anno le fabbriche nordamericane sforneranno 1,3 milioni di veicoli in meno rispetto al 2024.
La paralisi
Tutto questo perché l’’obiettivo di Trump è quello di riportare la manifattura a stelle e strisce ai fasti di un tempo. La posizione dei produttori è netta: per costruire un nuovo impianto ci vogliono tempo (2-3 anni), molto denaro e certezze sul lungo termine. Certezze che la Casa Bianca non garantisce. C’è un problema di manodopera, anche specializzata, che al momento non c’è. Un problema di materie prime: quand’anche i cerchioni li costruiamo negli Usa bisogna comunque importare l’alluminio dal Canada, sul quale si pagherà dazio; come si pagherà sui microchip, che vengono da Taiwan e Sud Corea, e pure sulla gomma per pneumatici e accessori, che è tutta di importazione. Infine: ha senso aumentare la capacità produttiva negli Usa se poi quei veicoli non potranno esser esportati in altri mercati senza incorrere in pesanti dazi ritorsivi? In questa instabilità generale tutta l’industria dell’automotive nordamericana ed europea è paralizzata. A vantaggio del grande competitor, la Cina, che continua a sfornare nuovi modelli e tecnologia.